Lavorare in smart working

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Pubblicato il 15 feb. 2021 · tempo di lettura 3 minuti

Lavorare in smart working | Egregio Avvocato
Il grande protagonista di questo ultimo anno in campo giuslavoristico è senza dubbio il c.d. smart working (o lavoro agile). Da strumento resosi necessario per cercare di limitare il diffondersi della pandemia da Covid-19, tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa è ora al centro di numerosi dibattiti, nonché di proposte di riforma. Cerchiamo di approfondire meglio le caratteristiche principali di questo istituto.  



  1. Cosa prevede la normativa in tema di smart working?
  2. Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?
  3. Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione dello smart working.
  4. Le prospettive di riforma dello smart working.


1 - Cosa prevede la normativa in tema di smart working?


Nel nostro ordinamento lo smart working è regolato da una manciata di articoli (appena 6) posti all’interno della legge n. 81/2017. Si tratta di un istituto relativamente recente che è stato introdotto allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

In via generale, lo smart working si caratterizza per la possibilità di rendere la prestazione lavorativa anche all’esterno dei locali aziendali senza una postazione fissa e per la sua implementazione è richiesta la stipulazione di un accordo individuale tra il lavoratore interessato e il datore di lavoro. 

Inoltre, è previsto che il datore di lavoro debba garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile. A tal fine è tenuto a consegnargli, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto. 


2 - Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?


Dato il necessario incremento del ricorso al lavoro agile a causa della pandemia, il Governo ha ritenuto opportuno cercare di semplificare il ricorso a tale modalità di svolgimento della prestazione prevedendo che: 



  1. si possa procedere allo smart working anche senza la stipulazione di un accordo scritto individuale; e
  2. il datore possa assolvere ai suoi obblighi di informativa in tema di salute e sicurezza anche in via telematica. 


Tali modalità semplificate di utilizzo dello smart working sono state via via prorogate e, ad oggi, è previsto che restino in vigore fino al 31 marzo 2021


3 - Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione del lavoro agile


Con il diffondersi dello smart working, si sono diffusi anche alcuni dubbi interpretativi relativi ai diritti dei lavoratori che svolgono la propria prestazione secondo tale modalità. In particolare ci si è chiesti se i dipendenti in smart working abbiano diritto ai buoni pasto, agli straordinari, a un contributo per le maggiori spese che si rendono necessarie (e.g. internet, luce, ecc.). Andiamo con ordine: 


  1. in relazione al diritto ai buoni pasto, alcuni autori rispondo in senso affermativo richiamandosi al fatto che la legge prevede che il lavoratore in smart working ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni in azienda. Tuttavia, l’opinione maggioritaria è che un vero e proprio diritto dei lavoratori ai buoni pasto non sussista (non costituendo il buono pasto un elemento della retribuzione). Nulla vieta tuttavia ai datori di lavoro di riconoscerli;
  2. per quanto riguarda il diritto a vedersi retribuite le ore di lavoro straordinario, la risposta è invece affermativa. Tuttavia, di prassi i datori di lavoro prevedono che le ore di straordinario debbano essere preventivamente autorizzate dal datore stesso. In tal modo, solo se preventivamente autorizzate diventano retribuibili
  3. è invece tendenzialmente negata qualsiasi forma di rimborso delle maggiori spese che lo smart worker si ritrovi a sostenere (salvo, ovviamente, diversa disposizione all’interno degli accordi individuali). 


4 - Le prospettive di riforma dello smart working


Le molteplici discussioni alimentate dalla diffusione del lavoro agile con ogni probabilità troveranno una sintesi all’interno di un intervento normativo di riforma. Intervento di cui si sta già discutendo e che secondo le prime indiscrezioni potrebbe contenere, inter alia, un rafforzamento del diritto alla disconnessione e l’introduzione di un ruolo anche per i sindacati, il cui coinvolgimento ad oggi non è previsto. 


Editor: dott. Giovanni Fabris 

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Diritto al lavoro e tutela della genitorialità: il congedo parentale

31 gen. 2022 tempo di lettura 5 minuti

La tutela della madre lavoratrice è un principio fondamentale sancito dall’articolo 37 della nostra Costituzione.In particolare, l’ordinamento attua questo principio proteggendo la salute della lavoratrice e riconoscendo il diritto del bambino a un’adeguata assistenza.Per ottemperare all’evoluzione socio – culturale ma anche giurisprudenziale e legislativa, la disciplina della tutela della genitorialità correlata al diritto del lavoro è mutata nel corso del tempo affinché fosse garantito concretamente l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori – e non più esclusivamente della madre – nella cura e nell’assistenza dei figli.La tutela della genitorialità viene garantita attraverso svariate disposizioni. È possibile menzionare il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, il divieto di adibire la lavoratrice durante la gestazione e sino a sette mesi dopo il parto al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, il divieto al lavoro notturno sempre dall’accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, e così via.Uno degli aspetti che, invece, concerne anche la tutela della genitorialità del padre lavoratore è il c.d. congedo parentale. Come funziona il congedo parentale? A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Congedo parentale e indennitàCome occorre presentare la domanda?Congedo parentale ed emergenza Covid.1 - Come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.Ma come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi. Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.3 - Congedo parentale e indennitàDurante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione. 4 - Come occorre presentare la domanda?La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

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Pensioni e indennità ai familiari superstiti

27 set. 2021 tempo di lettura 4 minuti

In caso di morte del pensionato o del lavoratore in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, i familiari superstiti hanno diritto ad un trattamento pensionistico erogato dall’Inps.È necessario distinguere tra la pensione di reversibilità, che viene liquidata in seguito alla morte del pensionato, e la pensione indiretta, che viene liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione. La domanda di pensione ai superstiti può essere inoltrata all’Inps esclusivamente in via telematica attraverso il sito web, il telefono (tramite il contact center integrato) e i patronati. In presenza di quali presupposti ed a chi spetta la pensione? ed in quale misura?Chi sono i beneficiari della pensione?In che misura spetta la pensione?Da quando decorre il diritto alla pensione?Quando cessa il diritto alla pensione?1 – Chi sono i beneficiari della pensione?Presupposto per ottenere il trattamento pensionistico è la vivenza a carico del lavoratore al momento del decesso di determinati soggetti.Hanno diritto alla pensione i seguenti soggetti individuati dall’art. 13 RDL 636/39: a) coniuge o parte di un’unione civile; b) figli di età non superiore a 18 anni o di qualunque età se inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto; c) in manca dei soggetti individuati al punto a), i genitori; d) in mancanza anche dei genitori, fratelli celibi e sorelle nubili. Quanto al coniuge superstite del pensionato o del lavoratore assicurato deceduto ha diritto automaticamente alla reversibilità del trattamento pensionistico.Tale diritto è riconosciuto anche al componente superstite dell’unione civile.Di regola, il coniuge separato, anche con addebito, ha diritto alla pensione di reversibilità. Secondo un primo orientamento occorre che il coniuge superstite sia beneficiario dell’assegno di mantenimento o dell’assegno alimentare a carico del coniuge deceduto; secondo un’altra tesi il diritto alla pensione sussiste a prescindere della previsione in sede di separazione dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento o alimentare.La pensione ai superstiti spetta al coniuge divorziato in presenza di tutte le seguenti condizioni:a) perfezionamento in capo al coniuge deceduto dei requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge; b) inizio del rapporto assicurativo dell’assicurato o del pensionato precedente alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) titolarità dell’assegno di divorzio in forza di una sentenza del Tribunale; d) assenza di un successivo rapporto di coniugio.Se l’ex coniuge deceduto si è rispostato, la pensione spetta sia al coniuge divorziato sia al coniuge superstite, a condizione che entrambi ne abbiano i requisiti. La ripartizione in quote dell’unico trattamento viene effettuata dal Tribunale, tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Con riferimento ai figli, anche adottivi e minori affidati, hanno diritto alla pensione se al momento della morte del genitore sono in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) età fino ai 18 anni; b) età fino ai 21 anni, se studenti di scuola media o professionale, oppure fino a 26, se frequentanti corsi universitari, purchè siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino attività lavorativa retribuita; c) inabilità al lavoro e vivenza a carico del genitore al momento della morte.2 – In che misura spetta la pensione?La misura della pensione ai superstiti è stabilita in base alle aliquote indicate in una determinata tabella individuata dalla legge. La pensione ai superstiti non può, in ogni caso, essere complessivamente inferiore al trattamento minimo o superiore all’intero ammontare della pensione della quale era – o sarebbe stato – titolare il deceduto.La misura della pensione varia se il coniuge divorziato concorre con i seguenti soggetti: a) figli superstiti; b) genitori, fratelli o sorelle del pensionato o dell’assicurato: il coniuge divorziato esclude sia gli uni sia gli altri dal diritto alla pensione.3 - Da quando decorre il diritto alla pensione?La pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del pensionato o dell’assicurato, indipendentemente dalla data di presentazione della relativa domanda.La decorrenza è stabilita dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.Alla presentazione della domanda si applica la prescrizione ordinaria prevista dall’art. 2946 c.c., ciò vuol dire che trascorsi 10 anni dal decesso i ratei di pensione non riscossi cadono in prescrizione e non possono essere più domandati.4 - Quando cessa il diritto alla pensione?Il diritto alla pensione cessa: a) per il coniuge se contrae nuovo matrimonio; b) per i figli al compimento del 18° anno di età, se studenti in casa di interruzione o conclusione del corso di studi oppure inizio di un’attività lavorativa, se inabili al venir meno dello stato di inabilità; c) per i genitori, se prendono un’altra pensione; d) per i fratelli celibi e le sorelle nubili, qualora contraggono matrimonio. Editor: avv. Elisa Calviello

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L’infortunio in itinere tra tutele e limiti

9 dic. 2021 tempo di lettura 6 minuti

Con la Legge n. 80 del 1898 fu introdotta, per la prima volta, l’assicurazione sociale per gli infortuni sul lavoro, cui fece seguito l’assicurazione per le malattie professionali e il Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria.Questa complessa disciplina è intervenuta a regolare il c.d. rischio professionale, vale a dire il rischio correlato all’attività lavorativa.  Con l’avvento dell’assicurazione sociale si è, sostanzialmente, trasferita la titolarità di questo rischio – prevista dall’art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro – da quest’ultimo all’istituto previdenziale che, in caso di lesioni incorse al lavoratore, lo indennizza.Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela al lavoratore si è sempre più estesa, non limitandosi solamente agli infortuni occorsi sul luogo di lavoro, ma prendendo in esame anche i c.d. infortuni in itinere.L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaInfortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaGli adempimenti da compiere I limiti alla tutela1 - L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?L’infortunio sul lavoro può essere definito come il danneggiamento all’integrità psico – fisica di un individuo che si verifica a causa di un fattore esterno durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto, almeno inizialmente, la tutela previdenziale veniva riconosciuta solamente a coloro i quali, considerate mansioni svolte e posizioni ricoperte, fossero esposti a rischio durante il proprio orario lavorativo. Con le modifiche intervenute al Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia, ha assunto rilevanza anche il c.d. infortunio in itinere.Ma cosa s’intende per infortunio in itinere? In base alla lettera dell’art. 12 del Decreto Legislativo n. 38/2000 è possibile definirlo una tipologia di infortunio che si verifica lungo il normale percorso che il lavoratore compie spostandosi: a) dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa; b) da un primo luogo di lavoro ad un altro laddove il lavoratore sia impegnato in differenti rapporti lavorativi; oppure c) dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa.2 - Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaSi parla, quindi, di “normale percorso” che il lavoratore compie. Ma cosa si deve intendere con questa “formula”?Sul punto la dottrina ha interpretato la norma considerando “normale percorso” quello più breve e diretto, vale a dire quello che normalmente o, quanto meno, abitualmente il lavoratore compie ma, anche, quello non abituale ma che sia giustificato da concrete situazioni che impongano di percorrerlo in una data occasione.Ne consegue che, almeno teoricamente, tutte le eventuali variazioni effettuate nei tragitti abituali, se non sono la diretta conseguenza di necessità improrogabili, non farebbero rientrare un eventuale infortunio tra quelle da annoverare come avvenuto in itinere.Le variazioni per far permanere la tutela al lavoratore in caso di infortunio devono essere effettuate per adempiere a un ordine impartito dal datore di lavoro oppure scaturire da cause di forza maggiore o esigenze improrogabili o per adempiere a obblighi penalmente rilevanti.Le condizioni per l’operatività della tutela sono essenzialmente tre. Difatti, affinché operi la tutela assicurativa, lo spostamento, oltre che esser compiuto lungo il “normale percorso” deve avere fini lavorativi e deve sussistere un nesso causale tra il tragitto e l’attività lavorativa.3 - Infortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaSe è vero che le condizioni per l’operatività della tutela sono tre, è altrettanto vero che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si debba prendere in considerazione anche la modalità di spostamento impiegata dal lavoratore per coprire il normale percorso.Innanzitutto, basandosi sui chiarimenti forniti dalla stessa INAIL in vari circolari si può tranquillamente affermare che, in presenza delle tre condizioni già citate, laddove il tragitto sia percorso con le “ordinarie modalità” di spostamento, opera senza dubbio la copertura assicurativa.In altri termini, saranno indennizzati tutti quegli infortuni avvenuti spostandosi a piedi o a bordo di mezzi pubblici. Sembrerebbe, quindi, che non ci sia invece spazio per indennizzare gli infortuni occorsi a bordo di mezzi propri. Tuttavia, la normativa stabilisce che l’assicurazione infortuni sul lavoro opera anche nel caso si utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Stando all’interpretazione giurisprudenziale, il requisito della necessità va valutato attraverso differenti fattori e, in via ragionevole, si considera giustificato l’uso del mezzo privato quando: a) il mezzo è fornito dal datore di lavoro per esigenze lavorative, b) non esistono mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro o non vi è coincidenza di orari, c) il risparmio di tempo, utilizzando il mezzo privato, sia pari o superiore a un’ora per tragitto.Cosa accade, però, se il mezzo utilizzato non è a motore? Considerata la sempre maggior diffusione nell’utilizzo della bicicletta, l’INAIL aveva inizialmente interpretato estensivamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 38/2000, stabilendo che l’infortunio occorso a bordo di un velocipede, percorrendo una strada aperta al traffico di veicoli a motore, dovesse essere indennizzato solo in presenza delle condizioni necessarie per rendere necessitato l’uso della bicicletta, mentre si potesse prescindere dalle condizioni di necessità qualora l’infortunio si fosse verificato in un tratto di percorso protetto come ad esempio una pista ciclabile.Sul punto sono intervenuti anche il legislatore e la giurisprudenza, espressamente stabilendo che l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro debba sempre considerarsi “necessitato”.4 - Gli adempimenti da compiere Una volta occorso il sinistro, il lavoratore ha l’obbligo per legge di avvisare o far avvisare il proprio datore di lavoro. Comunicazione che deve essere immediata poiché non ottemperando a tale obbligo si perde il diritto alle prestazioni INAIL per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio.Una volta appresa la notizia, il datore di lavoro deve inviare, a seconda dei casi, la comunicazione o la denuncia dell’infortunio stesso all’INAIL.In particolare, la comunicazione di infortunio va presentata nell’ipotesi di prognosi e assenza del lavoratore per almeno un giorno successivo a quello dell’evento oppure per assenza prolungata sino a tre giorni. Essa va presentata telematicamente entro 48 ore da quando è stato inviato il certificato medico ed è meramente fini informativi.La denuncia di infortunio, invece, va presentata nel caso in cui vi sia una prognosi che vada oltre i 3 giorni successivi all’evento. In queste ipotesi, il datore di lavoro dovrà inoltrare la denuncia all’INAIL entro 48 ore dal momento della conoscenza dell’infortunio o entro 24 ore per i casi più gravi.5 - I limiti alla tutelaIn linea teorica, in caso di infortunio in itinere accaduto per colpa del lavoratore, gli aspetti soggettivi della condotta – negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di norme – non assumono rilevanza ai fini della indennizzabilità, poiché si ritiene che la colpa del lavoratore non interrompa il nesso causale tra il rischio lavorativo e l’infortunio, a meno che non si configurino comportamenti talmente eccessivi da rientrare nel c.d. rischio elettivo.Il rischio elettivo, secondo la Corte di Cassazione, è definibile come una deviazione arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 19081/2013).Ne deriva che la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere non copre quegli infortuni avvenuti a causa: di deviazioni o soste effettuate per esigenze personali, di deviazioni effettuate per scelta del lavoratore, dell’abuso di sostanze alcoliche, stupefacenti, psicotrope, della violazione del Codice della Strada.Editor: avv. Marco Mezzi

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Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta?

17 mag. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validitàIl patto di non concorrenza: di cosa si tratta? Ricostruzione dell’istitutoIl corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione 1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istitutoL’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti. Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. Sez. lav. n. 9790/2020).Il patto può essere inserito direttamente nel contratto di lavoro o, in alternativa, essere contenuto in una lettera separata, ciò non rileva ai fini della validità del patto medesimo, essendo richiesto unicamente che la sua redazione avvenga in forma scritta, con la conseguenza che qualsivoglia intesa orale diretta a limitare la futura collocazione del lavoratore sul mercato, è radicalmente nulla per difetto di forma. Altro elemento imprescindibile ai fini della validità del patto è il suo oggetto: infatti, nonostante la generale formulazione della norma civilistica, si ritiene pacificamente che il patto di non concorrenza, seppur possa comprendere anche attività non propriamente rientranti nelle mansioni svolte dal dipendente, non debba comunque essere di “ampiezza tale da comprimere la esplicazione concreta della professionalità del lavoratore in limiti che compromettano ogni potenzialità reddituale” (Cass. Sez. lav., sent. 13282/2003). L’oggetto, pertanto, può anche essere esteso al di là delle mansioni espletate dal dipendente che ha sottoscritto il patto, ma il sacrificio richiesto a quest’ultimo non può essere tale da impedirgli di immettersi nuovamente sul mercato del lavoro una volta cessato il rapporto lavorativo con il precedente datore. Rispetto alle modalità di pagamento l’art. 2125 c.c. non prevede una apposita disciplina, ed infatti, parte della giurisprudenza ritiene che il corrispettivo possa essere corrisposto sia al termine del rapporto di lavoro ma anche in costanza di rapporto. In relazione a tale ultima modalità di pagamento, è stato ritenuto che la stessa non inficia la validità del patto e che il corrispettivo possa anche essere solo determinabile, poiché l’art. 2125 c.c. lascia alle parti ampia autonomia nella determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo, cosicché l’erogazione del corrispettivo potrà essere validamente pattuita sotto forma di percentuale sulla retribuzione o di somma da corrispondersi in costanza di rapporto (Trib. Milano, sent. 21 luglio 2005, in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Pescara con la recente sentenza 10 luglio 2020, n. 267). In relazione a tale aspetto, si è tuttavia registrato anche un orientamento contrario secondo cui il pagamento del corrispettivo del patto in costanza di rapporto violerebbe l’art. 2125 c.c., introducendo una “variabile legata alla durata del rapporto stesso”, con conseguente aleatorietà del patto stesso. 2 - Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione Avuto proprio riguardo al corrispettivo, si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 5540 del 1° marzo 2021. Con tale pronuncia, la Cassazione ha stabilito che la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo (quale vizio del requisito di cui all’art. 1346 c.c.) e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” (ovvero sia simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato), operano su piani giuridicamente distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. Pertanto – stabilisce l’ordinanza – “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale”. In altri termini, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la congruità del corrispettivo deve essere ricondotta unicamente all’alveolo dell’art. 2125 c.c. non dovendosi, quindi, confondere tale giudizio con la previsione di cui all’art. 1346 c.c. relativa alla determinatezza ovvero determinabilità riferibile al corrispettivo, giacché altrimenti si rischierebbe di dar vita ad una “sovrapposizione indebita che genera incertezza nell’iter logico seguito per il convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento”. Editor: avv. Francesca Retus

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