Egregio Avvocato
Pubblicato il 22 feb. 2021 · tempo di lettura 6 minuti
Dal 2004, la legge prevede espressamente i reati di uccisione e maltrattamento di animali agli artt. 544 bis e 544 ter c.p.. Tali previsioni inizialmente erano ispirate ad una logica “antropocentrica”, volta cioè a tutelare il sentimento di pietà della persona rispetto agli animali, oggetto di una protezione soltanto indiretta. Negli ultimi tempi, tuttavia, la giurisprudenza sembra aver riconosciuto un maggior rilievo alla sensibilità e serenità psicofisica degli animali, garantendo loro una tutela più ampia ed indipendente rispetto a quella riconosciuta agli uomini.
1 - Cosa prevedono i reati di uccisione e maltrattamenti di animali?
Gli artt. 544 bis e 544 ter c.p. prevedono, rispettivamente, i delitti di uccisione e maltrattamento di animali.
Entrambe le disposizioni individuano quale elemento fondamentale della fattispecie penale la circostanza che l’autore agisca:
Inoltre, è esclusa la configurabilità dei reati ai sensi dell’art. 19 ter disp. coord. c.p., nei casi di condotte disciplinate (e autorizzate) dalle leggi speciali come quelle relative alla caccia, alla pesca, o alla macellazione degli animali – ricondotte ad una sorta di “necessità sociale”.
Il reato di uccisione fa riferimento all’ipotesi in cui chiunque cagioni la morte di un animale, per crudeltà o senza necessità.
Nel caso del delitto di maltrattamenti, rileva ogni condotta idonea a cagionare una «lesione» all’animale, cioè una ferita o una malattia, ma anche il procurare sofferenze di tipo diverso, anche non necessariamente fisiche. Ciò perché l’animale viene considerato e tutelato quale essere sensibile, capace di provare dolore.
Parimenti, rileva la situazione in cui un soggetto imponga all’animale il compimento di attività sproporzionate o non compatibili con le sue caratteristiche naturali.
A questi fini possono rilevare sia le aggressioni fisiche (come calci, percosse, bastonate), ma anche le sevizie (come ad esempio privare l’animale del cibo o costringerlo a vivere in luoghi angusti o sporchi).
È quindi sufficiente aver cagionato sofferenze «di carattere ambientale, comportamentale, etologico o logistico, comunque capaci di produrre nocumento agli animali, in quanto esseri senzienti».
Ciò è quanto ha ritenuto la Corte di Cassazione in relazione al discusso “caso della mucca Doris”, riguardante un bovino in precarie condizioni di salute, destinato alla macellazione ma sottoposto a inutili sevizie e vessazioni dai soggetti responsabili del trasporto al macello, ritenuti responsabili del reato di maltrattamenti perché, al fine di trascinarlo, procedevano a bastonarlo, sottoporgli scosse elettriche, calpestarlo e caricarlo a forza sulla pala di un trattore agricolo per gettarlo successivamente all’interno di un camion.
Allo stesso modo, alcuni Tribunali hanno ritenuto riconducibile al reato di maltrattamenti la condotta del ristoratore che detiene animali destinati al consumo ma ancora vivi, come le aragoste, in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze – cioè all’interno di frigoriferi, a temperature prossime agli zero gradi centigradi, sopra un letto di ghiaccio o con le chele legate.
In entrambi i casi, sembra rilevare come, nonostante l’animale che subisca i maltrattamenti sia destinato a morire ed al consumo, nel rispetto delle normative speciali e delle consuetudini sociali, comunque non possano ritenersi giustificabili le sofferenze causate precedentemente.
Il reato di maltrattamenti si configura, infine, anche nel caso in cui vengano somministrate agli animali sostanze di vario tipo, comunque idonee a cagionare un danno dalla salute di questi. Si tratta del cd. “reato di doping a danno di animali”, che la legge punisce al fine di prevenire l’ulteriore ipotesi delittuosa delle scommesse clandestine o dei combattimenti tra animali, in vista dei quali spesso gli animali vengono drogati.
Sia il reato di uccisione, sia quello di maltrattamenti possono essere puniti solo se compiuti con dolo, cioè con coscienza e volontà da parte dell’autore delle condotte. Non è invece punibile la condotta compiuta per colpa o per il bene dell’animale stesso.
2 - Chi è il destinatario della tutela penale?
I reati esaminati appartengono alla categoria dei delitti “contro il sentimento per gli animali”.
L’oggetto primario di tutela veniva infatti riconosciuto, originariamente, nella sensibilità delle persone nei confronti degli animali, nel loro sentimento di pietà e affezione nei confronti di questi, che sarebbe leso dal verificarsi delle condotte incriminate.
In tal senso, l’animale viene tutelato solo indirettamente, in virtù di una protezione che la legge accorda in realtà all’uomo.
Progressivamente, la giurisprudenza sembra tuttavia aver riconosciuto all’animale una tutela più ampia e slegata dalla diretta riconducibilità all’uomo stesso, riconoscendolo quale vero e proprio soggetto passivo del reato.
Così, ad esempio, nei casi esaminati sono state ritenute penalmente rilevanti le condotte idonee a incidere “solo” sulla stabilità e serenità psicofisica dell’animale, anche se non lesive della sensibilità umana, dandosi rilievo all’offesa agli animali e alle loro caratteristiche biologiche, più che al sentimento di umana compassione.
Nella stessa direzione sembra andare il riconoscimento della tutela anche degli animali non “di affezione” e tipicamente “domestici”, come i bovini e le aragoste menzionate, peraltro destinati al macello o al consumo; nonché la pretesa dei giudici ad una rigorosa applicazione delle norme speciali che autorizzano le condotte umane lesive nei confronti degli animali (come la pesca: essa, ad esempio, non potrebbe legittimare l’imposizione agli animali usati come esca condizioni insopportabili e incompatibili con i comportamenti tipici della specie di appartenenza).
3 - Quali sono le pene previste per i reati?
Il reato di uccisione di animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni.
Quello di maltrattamenti, invece, con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000,00 a 30.000,00 euro.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di maltrattamento derivi (come conseguenza non voluta) la morte dell’animale.
4 - Cosa fare in caso di uccisione o maltrattamenti di animali?
Nel caso in cui si sia a conoscenza di fatti di uccisione o maltrattamenti, o si nutra un serio e fondato sospetto che questi siano in atto o si siano verificati, occorre segnalarlo alle Autorità competenti (polizia, carabinieri, ecc…) ed alle Guardie Zoofile presenti su tutto il territorio.
È pure possibile consultare il loro portale online, sul sito https://www.guardiezoofile.info/segnalazione/ , che permette di segnalare il maltrattamento semplicemente compilando un apposito modulo.
Il reato è, in ogni caso, procedibile d’ufficio, per cui non è necessario sporgere formale querela e in base alle segnalazioni gli organi competenti dovranno procedere con i dovuti accertamenti.
Editor: dott.ssa Anna Maria Calvino
Condividi:
Pubblicato da:
Egregio Avvocato
15 mag. 2023 • tempo di lettura 6 minuti
Diffamazione: una minaccia per la reputazione e la libertà di espressioneIntroduzione: La diffamazione è un argomento di grande rilevanza nella società odierna, in cui le informazioni si diffondono rapidamente attraverso i mezzi di comunicazione e i social media. Con la crescente dipendenza dalla tecnologia e l'accesso quasi istantaneo alle informazioni, il rischio di diffamazione e danni alla reputazione è diventato sempre più significativo. Questo articolo esplorerà la diffamazione, le sue implicazioni legali e le sfide che si pongono nella gestione di questa forma di abuso della libertà di espressione.Definizione di diffamazione: La diffamazione può essere definita come l'azione di comunicare a terzi una dichiarazione falsa che danneggia la reputazione di una persona. Può essere espressa oralmente, per iscritto o attraverso gesti diffamatori. La diffamazione può causare danni significativi alla reputazione di un individuo, influenzando le opportunità lavorative, le relazioni personali e persino la salute mentale dell'individuo coinvolto.Le implicazioni legali: La diffamazione è una questione legale che coinvolge il diritto alla libertà di espressione e il diritto alla reputazione. Molti paesi hanno leggi specifiche che proteggono i cittadini dalla diffamazione, stabilendo norme per stabilire quando una dichiarazione può essere considerata diffamatoria e quali rimedi legali possono essere intrapresi.Le sfide della diffamazione online: L'avvento dei social media e delle piattaforme di condivisione online ha amplificato il problema della diffamazione. La possibilità di diffondere rapidamente informazioni, spesso senza verifica accurata dei fatti, ha creato un terreno fertile per la diffamazione online. Inoltre, l'anonimato relativo che tali piattaforme possono offrire può incoraggiare comportamenti diffamatori, poiché gli autori delle dichiarazioni possono nascondersi dietro un profilo falso o pseudonimo.Impatto sulla libertà di espressione: La diffamazione solleva anche questioni riguardanti la libertà di espressione. Mentre è fondamentale proteggere la reputazione delle persone da false affermazioni dannose, è altrettanto importante preservare la libertà di espressione e il diritto di esprimere opinioni legittime e critiche. Tuttavia, trovare un equilibrio tra questi due diritti può essere complicato, poiché le norme e le leggi variano da paese a paese e possono comportare un certo grado di soggettività nella valutazione delle affermazioni diffamatorie.Soluzioni possibili: Per affrontare la diffamazione, è essenziale che le piattaforme online adottino politiche e procedure chiare per segnalare e rimuovere contenuti diffamatori. Allo stesso tempo, è importante educare le persone sui rischi associati alla diffamazione e sulla necessità di una comunicazione responsabile. Inoltre, i tribunali devono essere in grado di affrontare in modo tempestivo e imparziale i casi di diffamazione, garantendo una giustizia equilibrata tra la protezione della reputazione e la tutela della libertà di espressione. È importante promuovere la responsabilità individuale nell'uso delle piattaforme di comunicazione online e incoraggiare la verifica dei fatti prima di condividere informazioni potenzialmente dannose.Educazione e sensibilizzazione: Una strategia efficace per combattere la diffamazione è l'educazione e la sensibilizzazione. È necessario promuovere la consapevolezza su cosa costituisce la diffamazione, i suoi effetti dannosi sulla reputazione delle persone e le implicazioni legali ad essa associate. I programmi educativi dovrebbero anche insegnare l'importanza di una comunicazione rispettosa, etica e basata sui fatti.Media responsabile: I media, sia tradizionali che digitali, svolgono un ruolo cruciale nella prevenzione della diffamazione. È fondamentale che i giornalisti e gli editori adottino standard etici elevati, verifichino accuratamente le fonti e riportino notizie in modo accurato e oggettivo. Inoltre, le piattaforme di social media dovrebbero assumersi la responsabilità di promuovere la condivisione di informazioni affidabili e di prevenire la diffusione di contenuti diffamatori.Leggi aggiornate: Le leggi sulla diffamazione devono essere aggiornate per tener conto dei cambiamenti tecnologici e delle sfide associate alla diffamazione online. È necessario trovare un equilibrio tra la protezione della reputazione e la libertà di espressione, garantendo che le leggi siano chiare, giuste e applicate in modo coerente. Le autorità devono anche essere pronte a rispondere in modo tempestivo ed efficace alle segnalazioni di diffamazione, fornendo un sistema giudiziario accessibile ed equo.Conclusioni: La diffamazione rappresenta una minaccia reale per la reputazione delle persone e per la libertà di espressione. La diffusione delle informazioni attraverso le piattaforme digitali ha amplificato il problema, rendendo urgente l'adozione di misure preventive. Educare le persone, promuovere la responsabilità individuale, incoraggiare un giornalismo etico e aggiornare le leggi sono tutti passi cruciali per affrontare la diffamazione in modo efficace. Solo attraverso un approccio olistico e collaborativo potremo proteggere la reputazione delle persone e preservare la libertà di espressione nella nostra società sempre più interconnessa e digitale.La diffamazione attraverso i mezzi di stampa: responsabilità e conseguenzeIntroduzione: I mezzi di stampa, come giornali, riviste e altre pubblicazioni, hanno un ruolo importante nella società come fonti di informazione e mezzi di espressione. Tuttavia, con questo ruolo di potere e influenza, sorge la responsabilità di fornire notizie accurate e di evitare la diffamazione. In questo articolo, esploreremo il problema della diffamazione attraverso i mezzi di stampa, le implicazioni legali e le conseguenze che possono derivarne per tutte le parti coinvolte.La diffamazione e la sua definizione: La diffamazione può essere definita come la divulgazione di affermazioni false o fuorvianti che danneggiano la reputazione di un individuo o di un'organizzazione. Nel contesto dei mezzi di stampa, questo può includere la pubblicazione di notizie, articoli o opinioni che contengono informazioni non verificate o distorte che possono ledere l'onorabilità di una persona o influenzare negativamente la percezione pubblica su di essa.La responsabilità dei mezzi di stampa: I mezzi di stampa svolgono un ruolo cruciale nel garantire l'accuratezza delle informazioni e la protezione della reputazione delle persone. Essi devono adottare standard etici elevati, verificare accuratamente le fonti, condurre ricerche approfondite e correggere eventuali errori o imprecisioni tempestivamente. La responsabilità giuridica può essere applicata se i mezzi di stampa pubblicano contenuti diffamatori, anche se talvolta possono beneficiare di alcune protezioni legali come la "difesa della verità" o il "privilegio giornalistico".Implicazioni legali e conseguenze: La diffamazione attraverso i mezzi di stampa può avere conseguenze legali significative per entrambe le parti coinvolte. La persona diffamata può intraprendere azioni legali contro il mezzo di stampa per il danno subito alla propria reputazione. I tribunali valuteranno se la diffamazione è avvenuta sulla base di elementi come l'accuratezza delle informazioni, l'intenzione di danneggiare la reputazione e l'effetto sulla persona diffamata. Le conseguenze possono includere richieste di risarcimento danni, rettifiche pubbliche o persino sanzioni penali in casi gravi di diffamazione deliberata.L'importanza dell'etica giornalistica: Per evitare la diffamazione attraverso i mezzi di stampa, è fondamentale promuovere l'etica giornalistica. I giornalisti devono seguire principi di verità, imparzialità, correttezza e responsabilità. Dovrebbero condurre approfondite verifiche dei fatti, cercare il commento di tutte le parti coinvolte e garantire la presentazione equilibrata delle informazioni. Inoltre, è essenziale adottare procedure solide per la verifica delle notizie, la correzione degli errori e la gestione delle denunce di diffamazione. Conclusioni: La diffamazione attraverso i mezzi di stampa rappresenta una minaccia seria per la reputazione delle persone e per l'integrità del giornalismo. È essenziale che i mezzi di stampa adottino standard etici rigorosi, condurre ricerche approfondite e verificare accuratamente le informazioni prima di pubblicarle. La responsabilità giuridica può essere applicata se si diffondono notizie false o dannose. L'etica giornalistica, basata sulla verità, imparzialità e responsabilità, è fondamentale per evitare la diffamazione e preservare l'integrità della professione. È fondamentale promuovere la consapevolezza sui danni causati dalla diffamazione e incoraggiare una comunicazione responsabile e rispettosa. Solo attraverso un impegno collettivo dei mezzi di stampa, dei giornalisti e della società nel suo complesso, possiamo mitigare gli effetti dannosi della diffamazione e preservare la libertà di espressione in modo responsabile.
Continua a leggere
Scritto da:
21 ago. 2023 • tempo di lettura 4 minuti
SENTENZA CASSAZIONE PENALE SESTA SEZIONE DEL 14 LUGLIO 2023 N. 30761 REQUISITO DELLA COABITAZIONE NEL DELITTO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA PUNITO DAL C.P. 572In assenza della coabitazione la mera presenza di una relazione affettiva in occasione della quale vengano a radicarsi eventuali condotte di matrice vessatoria, non costituisce un valido substrato cui ancorare la configurabilità dei maltrattamenti in famiglia (Cass. Pen., Sez. VI, 14.07.2023, n. 30761).Il caso:La pronuncia origina dal ricorso per cassazione presentato dal difensore dell’imputato contro la sentenza emessa dalla Corte di appello che aveva dato integrale conferma alla condanna alla pena di giustizia resa, in esito a giudizio abbreviato, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale nei confronti del ricorrente, ritenuto responsabile dei maltrattamenti realizzati nell’arco di tempo nonché per più fatti di lesione aggravati ai sensi degli artt. 576, nn. 1 e 5, e 577, comma 1, c.p. realizzati ai danni della convivente.Il gravame si basava sul difetto di motivazione e vizi di legge.La sentenza:Nell’esaminare il motivo inerente la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia la Corte richiama una pronuncia della Corte Costituzionale (Cort. Cost., 15.05.2021, n. 98) in tema di divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici che ha affermato il principio impongono, nell’applicazione dell’art. 572 c.p., di intendere i concetti di famiglia e di convivenza nell’accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d’affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, in caso di rapporti more uxorio, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua.La coabitazione, dunque, può non essere continuativa ma resta il primo passaggio imprescindibile per giungere ad una definizione della convivenza da valorizzare nell’ottica dei maltrattamenti.I due profili restano comunque distinti.Muovendo dalla coabitazione, occorrerà sempre verificare la presenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità: lungi dall’essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve, infatti, essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita.In definitiva la coabitazione, seppur non necessariamente continuativa, è condizione necessaria ma non sufficiente alla contestualizzazione in termini di maltrattamenti delle condotte abitualmente vessatorie ascritte all’imputato.In assenza di tale presupposto, la mera presenza di una relazione affettiva in occasione della quale vengano a radicarsi eventuali condotte di matrice vessatoria, non costituisce un valido substrato cui ancorare la configurabilità dei maltrattamenti in famiglia, potendosi semmai riscontrare, in un’ottica unitaria e complessiva, gli estremi dell’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612-bis, comma 2, c.p.-Soluzione questa da privilegiare anche in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro dopo che sia finita la coabitazione proprio perché, cessato tale momento di condivisione, viene di fatto meno anche uno dei pilatri sui quali si fondava la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento che sostenevano convivenza. Non sarebbe, dunque, più configurabile l’ipotesi dei maltrattamenti, risultando, piuttosto, prospettabile – come evidenziato – il concorso tra questa fattispecie e quella di cui all’art. 612-bis c.p., in presenza di condotte di matrice vessatoria che, manifestatesi nel corso della convivenza, si siano protratte anche successivamente al cessare della stessa.La Suprema corte ha quindi annullato la sentenza con rinvio alla Corte d’appello la quale dovrà verificare che per le condotte realizzate nel corso della coabitazione, ferma l’incontrovertibile sussistenza della relazione sentimentale occorsa tra l’imputato e la persona offesa, vieppiù consolidata dal concepimento, verifichi la configurabilità dei maltrattamenti in tale più definito contesto temporale, precisando, alla luce delle superiori indicazioni di principio, frequenza, intensità e afflittività dei ritenuti contegni vessatori; in caso riscontri gli estremi dell’ipotesi di reato di cui all’art. 572 c.p., valuti le conseguenze che ne derivano in relazione al trattamento sanzionatorio da irrogare, alla luce del diverso perimetro temporale destinato a fondare la relativa responsabilità, diverso da quello coperto dall’imputazione, apprezzato dalla condanna contrastata dal ricorso e, per le condotte successive alla coabitazione, accerti la possibile configurabilità di ipotesi di reato diverse da quella contestata, se del caso in termini di concorso con i maltrattamenti (se questi ultimi vengono confermati, seppur ristretti ai soli contegni realizzati nel corso della coabitazione) e gli altri reati descritti dai capi di imputazione per i quali il relativo giudizio di responsabilità deve ritenersi ormai definitivo, fermi, in tale ipotesi, i limiti di pena definiti dalla sentenza di primo grado.Prof. Dr. Giovanni Moscagiuro Studio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativo Diritto Penale , Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente di Diritto Penale e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, Editori e Giornalisti European news Agencyemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.com
Continua a leggere
11 apr. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
Il d.lgs. 231/2001 detta la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi a suo interesse o vantaggio da un soggetto apicale oppure da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi. Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaPresuppostiReati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiSanzioni1 - Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaLa responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato è un tipo di responsabilità che possiede caratteristiche proprie della responsabilità penale e della responsabilità amministrativa.Sotto il primo punto di vista, la responsabilità scaturisce dalla commissione da parte di soggetti apicali dell’ente o di soggetto a loro gerarchicamente subordinati dei reati previsti dal decreto ed è la manifestazione della cosiddetta “colpa di organizzazione” dell’ente. L’accertamento della responsabilità, inoltre, è demandata alla competenza del giudice penale. Sotto il secondo punto di vista, quando è accertata la responsabilità, l’ente è soggetto a sanzioni di natura amministrativa (come la confisca).Ai sensi dell’art. 1 d. lgs. 231/2001, la responsabilità può essere imputata a:enti forniti di personalità giuridica;società e associazioni anche prive di personalità giuridica.Non possono essere chiamati a rispondere, invece, lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.L’ente si costituisce in giudizio tramite un legale rappresentante individuato nello statuto o nell’atto costitutivo. 2 - PresuppostiAi sensi dell’art. 5 del decreto, l’ente risponde per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da:soggetti in posizione apicale: si tratta di chi riveste “funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale” nonché di chi esercita, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso;soggetti sottoposti all’altrui direzione. L’ente, quindi, non è responsabile quando l’autore del reato ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. A questo proposito, la giurisprudenza afferma che, qualora i soggetti agenti abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, viene meno lo schema di immedesimazione organica: di conseguenza, l’illecito commesso, pur tornando a vantaggio dell’ente, non può più ritenersi come fatto suo proprio, ma un vantaggio fortuito, non attribuibile alla volontà della persona giuridica.L’ente, in secondo luogo, non è responsabile in altri due casi. Se il reato è commesso da un soggetto in posizione apicale, l’ente va esente da responsabilità se dimostra:di aver adottato il modello di organizzazione e gestione dei reati della specie di quello verificatosi; di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; che le persone che hanno commesso il reato lo hanno fatto eludendo fraudolentemente il modello di organizzazione e di gestione;che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo preposto alla stessa. Tale ultima eventualità è sempre esclusa se l’ente ha adottato efficacemente il modello. A questo fine, i parametri per valutare l’efficacia del modello sono esplicitati all’art. 7 co. 4 del decreto: a titolo esemplificativo, il modello deve essere sottoposto a veridica periodica e deve essere elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie a quanto prescritto.Se il reato è commesso da uno dei soggetti sottoposti all’altrui direzione, l’ente non è responsabile ove dimostri:che la commissione del reato non è stata permessa dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza;di avere, prima della commissione del reato, adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.Nei casi in cui l’ente risponde, la sua responsabilità è autonoma rispetto a quella della persona fisica (art. 8 del decreto): l’ente risponde, infatti, anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è punibile e se il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia. 3 - Reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiLa responsabilità amministrativa degli enti è soggetta, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 231/2001, al principio di legalità: l’ente risponde del reato commesso dalla persona fisica solo se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.A questo scopo, gli artt. 24 ss. d. lgs. 231/2001 contengono un fitto catalogo di reati che, se commessi, sono presupposto oggettivo di responsabilità amministrativa degli enti. Ricordiamo a titolo esemplificativo: Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, di un ente pubblico o dell’Unione europea o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture;Delitti di criminalità organizzata, con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d’ufficio;Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili e delitti contro la personalità individuale (ad es. prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico); Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro;Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonchè autoriciclaggio e delitti in materia di violazione del diritto d´autore.4 - SanzioniUna volta che viene accertata la commissione del reato da parte delle persone fisiche, quando sussistono i presupposti affinché anche l’ente sia ritenuto responsabile, quest’ultimo risponde di una delle seguenti sanzioni amministrative (art. 9 del decreto):sanzione pecuniaria;confisca;sanzioni interdittive (ai sensi dell’art. 9 co. 2, si tratta dell’interdizione dall’esercizio dell’attività; della sospensione o della revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; del divieto di contrattare con la p.a.; dell’esclusione di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi; del divieto di pubblicizzare beni o servizi);pubblicazione della sentenza.Le prime due sanzioni sono volte ad incidere direttamente sul patrimonio dell’ente, che risponde, secondo il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 27 del decreto, con il suo stesso patrimonio o con il fondo comune. Le altre due sanzioni hanno lo scopo di disincentivare la commissione di illeciti da parte degli enti. Le sole sanzioni interdittive possono non essere applicate se, ai sensi dell’articolo 17 del decreto, prima che venga dichiarata l’apertura del dibattimento nel primo grado di giudizio, l’ente dimostra di:aver risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero di essersi efficacemente adoperato in tal senso;aver eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l´adozione e l´attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;aver messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.Editor: dott.ssa Elena Pullano
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
24 feb. 2022 • tempo di lettura 3 minuti
Con lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle nuove modalità di comunicazione online, negli ultimi anni, si è assistito ad un considerevole sviluppo di nuove condotte di violenza online o “cyber violenza”, tra le quali “cyber stalking”, “cyber bullismo” e “revenge porn”.L’articolo 612 ter c.p. è stato introdotto con la L.69/2019 per andare a contrastare il fenomeno del c.d. revenge porn, ma in realtà offre una protezione più ampia della privacy sessuale. Collocato significativamente a fianco del reato di stalking (art. 612 bis c.p.) la fattispecie è stata introdotta per andare a punire quella particolare forma d’interferenza nella vita privata, consistente nella pubblicazione arbitraria d’immagini o video a carattere sessuale del proprio partner (porn), come forma di ritorsione per l’interruzione della relazione sentimentale (revenge). La norma si compone di cinque commi distinti: i primi due descrivono le caratteristiche della diffusione illecita di materiali sessualmente espliciti, a seguire i commi 3 e 4 individuano delle aggravanti specifiche, chiude il gruppo la disposizione che regola la procedibilità del reato.Quale condotta viene punita?Chi è il soggetto attivo e la persona offesa?Qual è l’elemento soggettivo del reato?Come avviene la procedibilità?1 – Quale condotta viene punita?La norma in esame punisce due condotte distinte che si differenziano per le modalità con le quali il soggetto attivo è entrato in possesso delle immagini inviate, consegnate, cedute, pubblicate o diffuse.In sostanza, si punisce qualsiasi comportamento capace di trasmettere ad altri immagini o video sessualmente espliciti. Commettono il reato, infatti, le persone che alternativamente: a) realizzano o sottraggono (oppure contribuiscono a farlo) le immagini o i video; b) hanno ricevuto o acquisito in altro modo tali materiali intimi (c.d. secondi distributori). A seconda delle modalità di acquisizione cambia l’elemento soggettivo del reato.Le condotte punibili sono abbastanza ampie e comprendono sia le ipotesi di trasferimento delle immagini tra due persone, anche senza l’utilizzo della rete internet, sia la pubblicazione di fotografie o video su siti internet, social network e altre piattaforme online. La diffusione può spaziare dalla semplice iniziale cessione a una cerchia di amici o conoscenti fino alla distribuzione a un’ampia platea di destinatari tramite chat di messaggistica istantanea. Per integrare il reato è richiesta l’esplicita connotazione sessuale del materiale: occorre, infatti, che le foto e i video siano stati creati in un contesto di riservatezza. 2 - Chi è il soggetto attivo e la persona offesa?Soggetto attivo del reato può essere chiunque, mentre, la persona offesa è il soggetto rappresentato nelle immagini o nel video e senza il cui consenso tale materiale viene fatto circolare. Se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, la pena è aumentata.Se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza, la pena è aumentata da un terzo alla metà.3 - Qual è l’elemento soggettivo del reato?In caso di realizzazione o sottrazione del materiale è sufficiente il dolo generico ovvero che il soggetto attivo compia consapevolmente tale condotta.Nell’ipotesi di ricezione e acquisizione in altro modo dei dati sensibili di natura sessuale invece è richiesta espressamente la volontà di arrecare danno alla persona rappresentata nelle immagini o nei video, è richiesto quindi il dolo specifico.4 - Come avviene la procedibilità?Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di 6 mesi.Si procede d’ufficio nei seguenti casi: a) la persona offesa è in condizione di inferiorità fisica o psichica oppure una donna in stato di gravidanza; b) il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere di ufficio.La remissione della querela può essere soltanto processuale: ciò evita che la vittima possa essere indotta a rimettere la querela attraverso minacce o inedite pressioni.La volontà della persona offesa deve essere effettivamente valutata dal pubblico ufficiale al quale dichiara di voler rimettere la querela.
Continua a leggere
Scritto da:
Non ci sono commenti