Egregio Avvocato
Pubblicato il 17 mag. 2021 · tempo di lettura 5 minuti
Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validità
1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istituto
L’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”.
Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti.
Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. Sez. lav. n. 9790/2020).
Il patto può essere inserito direttamente nel contratto di lavoro o, in alternativa, essere contenuto in una lettera separata, ciò non rileva ai fini della validità del patto medesimo, essendo richiesto unicamente che la sua redazione avvenga in forma scritta, con la conseguenza che qualsivoglia intesa orale diretta a limitare la futura collocazione del lavoratore sul mercato, è radicalmente nulla per difetto di forma.
Altro elemento imprescindibile ai fini della validità del patto è il suo oggetto: infatti, nonostante la generale formulazione della norma civilistica, si ritiene pacificamente che il patto di non concorrenza, seppur possa comprendere anche attività non propriamente rientranti nelle mansioni svolte dal dipendente, non debba comunque essere di “ampiezza tale da comprimere la esplicazione concreta della professionalità del lavoratore in limiti che compromettano ogni potenzialità reddituale” (Cass. Sez. lav., sent. 13282/2003).
L’oggetto, pertanto, può anche essere esteso al di là delle mansioni espletate dal dipendente che ha sottoscritto il patto, ma il sacrificio richiesto a quest’ultimo non può essere tale da impedirgli di immettersi nuovamente sul mercato del lavoro una volta cessato il rapporto lavorativo con il precedente datore.
Rispetto alle modalità di pagamento l’art. 2125 c.c. non prevede una apposita disciplina, ed infatti, parte della giurisprudenza ritiene che il corrispettivo possa essere corrisposto sia al termine del rapporto di lavoro ma anche in costanza di rapporto. In relazione a tale ultima modalità di pagamento, è stato ritenuto che la stessa non inficia la validità del patto e che il corrispettivo possa anche essere solo determinabile, poiché l’art. 2125 c.c. lascia alle parti ampia autonomia nella determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo, cosicché l’erogazione del corrispettivo potrà essere validamente pattuita sotto forma di percentuale sulla retribuzione o di somma da corrispondersi in costanza di rapporto (Trib. Milano, sent. 21 luglio 2005, in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Pescara con la recente sentenza 10 luglio 2020, n. 267). In relazione a tale aspetto, si è tuttavia registrato anche un orientamento contrario secondo cui il pagamento del corrispettivo del patto in costanza di rapporto violerebbe l’art. 2125 c.c., introducendo una “variabile legata alla durata del rapporto stesso”, con conseguente aleatorietà del patto stesso.
2 - Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione
Avuto proprio riguardo al corrispettivo, si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 5540 del 1° marzo 2021. Con tale pronuncia, la Cassazione ha stabilito che la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo (quale vizio del requisito di cui all’art. 1346 c.c.) e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” (ovvero sia simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato), operano su piani giuridicamente distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione.
Pertanto – stabilisce l’ordinanza – “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale”. In altri termini, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la congruità del corrispettivo deve essere ricondotta unicamente all’alveolo dell’art. 2125 c.c. non dovendosi, quindi, confondere tale giudizio con la previsione di cui all’art. 1346 c.c. relativa alla determinatezza ovvero determinabilità riferibile al corrispettivo, giacché altrimenti si rischierebbe di dar vita ad una “sovrapposizione indebita che genera incertezza nell’iter logico seguito per il convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento”.
Editor: avv. Francesca Retus
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Egregio Avvocato
30 set. 2021 • tempo di lettura 5 minuti
Per mobbing si intende l’insieme dei comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di emarginare il soggetto che ne è vittima.Sebbene non esista una legge esplicitamente dedicata a questo fenomeno, l’ordinamento comunque offre diversi strumenti di tutela.Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi? Qual è la normativa di riferimento?È previsto il risarcimento del danno? Vi sono altri strumenti per difendersi?1 - Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi?Da diverso tempo il termine mobbing è entrato a far parte del vocabolario comune per indicare una serie di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare il soggetto che ne è vittima.Pur mancando un’espressa disciplina in merito, la giurisprudenza ha definito il fenomeno del mobbing come “una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo”.Da questa definizione ne consegue che le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più svariate: ad esempio il lavoratore potrebbe ritrovarsi relegato in una postazione scomoda, essere escluso da riunioni, comunicazioni, progetti, essere assegnato a qualifica inferiori o dequalificanti, e così via.Come ha chiarito la giurisprudenza – sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione – gli elementi costitutivi del mobbing sono: a) una serie di comportamenti persecutori posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del lavoratore; c) il nesso di causalità tra le condotte e il pregiudizio; d) l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio.2 - Qual è la normativa di riferimento?Come già detto, nell’ordinamento italiano manca una disciplina specificatamente dedicata al fenomeno del mobbing. Tuttavia, diverse sono le norme che, tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori, consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che integrano il fenomeno del mobbing.Difatti, è possibile richiamare norme costituzionali – artt. 2, 3, 4, 32, 35, 41 della Costituzione –, norme del codice civile – in particolare artt. 2087, 2103, 1175, 1375, 2043, 2049 codice civile –, ma anche altre fonti, quali la Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), il D.Lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e il D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico per la sicurezza sul lavoro).3 - È previsto il risarcimento dei danni?È previsto il risarcimento dei danni per le vittime di mobbing, ma le modalità per ottenerlo variano a seconda del tipo di responsabilità che il lavoratore danneggiato intende far valere in giudizio. In effetti, le condotte di mobbing possono dar luogo a profili di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.Si può parlare di responsabilità contrattuale nei casi in cui il danneggiato lamenti l’inadempimento di un’obbligazione preesistente. Nel caso del mobbing, quindi, ad essere inadempiuta è un’obbligazione che trova la propria fonte direttamente nella legge, ossia nell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore – e al datore di lavoro in generale – di adottare tutte le misure più idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.Nel far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing deve indicare e provare i comportamenti vessatori subìti, dando prova del danno patito e del relativo nesso causale. Non dovrà, invece, provare l’atteggiamento psicologico (dolo o colpa) di colui che, col suo inadempimento, ha provocato il danno. Difatti, in ambito contrattuale, l’ordinamento presume la colpa della parte inadempiente e spetterà a quest’ultima provare che l’inadempimento sia dovuto a fatti a lei non imputabili.Questa, per così dire, “agevolazione probatoria” si scontra, tuttavia, con la circostanza per cui uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio il dolo del mobber, ossia l’intento persecutorio (elemento psicologico che, in quanto tale, è difficile da dimostrare). Sul punto, in ogni caso, è intervenuta la giurisprudenza che, per non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, ha chiarito che quest’ultimo possa limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta subìta. Va detto, infine, che l’azione di responsabilità contrattuale è soggetta a un termine prescrizionale di dieci anni.Ricorre, invece, ipotesi di responsabilità extracontrattuale qualora un soggetto danneggi ingiustamente altro soggetto al quale non era legato da vincolo obbligatorio. Per quel che riguarda il mobbing, ciò accade quando la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, sebbene diversi dal datore di lavoro.Per intraprendere azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dar prova di tutti gli elementi previsti dall’articolo 2043 c.c., ossia il fatto dannoso, il danno patito, il nesso causale tra fatto e danno e l’elemento psicologico del dolo del danneggiante.L’azione di responsabilità extracontrattuale è soggetta a un termine di prescrizione di cinque anni e consente di invocare il risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta. 4 - Vi sono altri strumenti per difendersi?Anche in questo caso la risposta è affermativa.Difatti, oltre al risarcimento del danno, il lavoratore vittima di mobbing ha a disposizione altri strumenti di tutela con cui cercare di arginare le condotte vessatorie.Ad esempio, in primo luogo, considerato l’obbligo di protezione dell’incolumità dei lavoratori che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro, una prima azione proponibile dal lavoratore vittima di mobbing è quella di adempimento, al fine di costringere il datore di lavoro ad adottare le misure adeguate di contrasto e prevenzione rispetto alle condotte mobbizzanti perpetrate da altri lavoratori sottoposti alla sua autorità.L’inadempimento dell’obbligo di protezione incombente sul datore di lavoro potrebbe, in base all’art. 1460 c.c., consentire al lavoratore di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione lavorativa sino al momento in cui non siano adottate le misure in grado di arginare il fenomeno dannoso.L’ultimo, e certamente più radicale rimedio, è quello delle dimissioni per giusta causa, in seguito alle quali il lavoratore ha il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, vale a dire una somma di denaro pari alla retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.Editor: avv. Marco Mezzi
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Egregio Avvocato
27 set. 2021 • tempo di lettura 4 minuti
In caso di morte del pensionato o del lavoratore in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, i familiari superstiti hanno diritto ad un trattamento pensionistico erogato dall’Inps.È necessario distinguere tra la pensione di reversibilità, che viene liquidata in seguito alla morte del pensionato, e la pensione indiretta, che viene liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione. La domanda di pensione ai superstiti può essere inoltrata all’Inps esclusivamente in via telematica attraverso il sito web, il telefono (tramite il contact center integrato) e i patronati. In presenza di quali presupposti ed a chi spetta la pensione? ed in quale misura?Chi sono i beneficiari della pensione?In che misura spetta la pensione?Da quando decorre il diritto alla pensione?Quando cessa il diritto alla pensione?1 – Chi sono i beneficiari della pensione?Presupposto per ottenere il trattamento pensionistico è la vivenza a carico del lavoratore al momento del decesso di determinati soggetti.Hanno diritto alla pensione i seguenti soggetti individuati dall’art. 13 RDL 636/39: a) coniuge o parte di un’unione civile; b) figli di età non superiore a 18 anni o di qualunque età se inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto; c) in manca dei soggetti individuati al punto a), i genitori; d) in mancanza anche dei genitori, fratelli celibi e sorelle nubili. Quanto al coniuge superstite del pensionato o del lavoratore assicurato deceduto ha diritto automaticamente alla reversibilità del trattamento pensionistico.Tale diritto è riconosciuto anche al componente superstite dell’unione civile.Di regola, il coniuge separato, anche con addebito, ha diritto alla pensione di reversibilità. Secondo un primo orientamento occorre che il coniuge superstite sia beneficiario dell’assegno di mantenimento o dell’assegno alimentare a carico del coniuge deceduto; secondo un’altra tesi il diritto alla pensione sussiste a prescindere della previsione in sede di separazione dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento o alimentare.La pensione ai superstiti spetta al coniuge divorziato in presenza di tutte le seguenti condizioni:a) perfezionamento in capo al coniuge deceduto dei requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge; b) inizio del rapporto assicurativo dell’assicurato o del pensionato precedente alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) titolarità dell’assegno di divorzio in forza di una sentenza del Tribunale; d) assenza di un successivo rapporto di coniugio.Se l’ex coniuge deceduto si è rispostato, la pensione spetta sia al coniuge divorziato sia al coniuge superstite, a condizione che entrambi ne abbiano i requisiti. La ripartizione in quote dell’unico trattamento viene effettuata dal Tribunale, tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Con riferimento ai figli, anche adottivi e minori affidati, hanno diritto alla pensione se al momento della morte del genitore sono in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) età fino ai 18 anni; b) età fino ai 21 anni, se studenti di scuola media o professionale, oppure fino a 26, se frequentanti corsi universitari, purchè siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino attività lavorativa retribuita; c) inabilità al lavoro e vivenza a carico del genitore al momento della morte.2 – In che misura spetta la pensione?La misura della pensione ai superstiti è stabilita in base alle aliquote indicate in una determinata tabella individuata dalla legge. La pensione ai superstiti non può, in ogni caso, essere complessivamente inferiore al trattamento minimo o superiore all’intero ammontare della pensione della quale era – o sarebbe stato – titolare il deceduto.La misura della pensione varia se il coniuge divorziato concorre con i seguenti soggetti: a) figli superstiti; b) genitori, fratelli o sorelle del pensionato o dell’assicurato: il coniuge divorziato esclude sia gli uni sia gli altri dal diritto alla pensione.3 - Da quando decorre il diritto alla pensione?La pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del pensionato o dell’assicurato, indipendentemente dalla data di presentazione della relativa domanda.La decorrenza è stabilita dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.Alla presentazione della domanda si applica la prescrizione ordinaria prevista dall’art. 2946 c.c., ciò vuol dire che trascorsi 10 anni dal decesso i ratei di pensione non riscossi cadono in prescrizione e non possono essere più domandati.4 - Quando cessa il diritto alla pensione?Il diritto alla pensione cessa: a) per il coniuge se contrae nuovo matrimonio; b) per i figli al compimento del 18° anno di età, se studenti in casa di interruzione o conclusione del corso di studi oppure inizio di un’attività lavorativa, se inabili al venir meno dello stato di inabilità; c) per i genitori, se prendono un’altra pensione; d) per i fratelli celibi e le sorelle nubili, qualora contraggono matrimonio. Editor: avv. Elisa Calviello
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11 set. 2024 • tempo di lettura 1 minuti
La legge 76/2016 istituisce le unioni civili tra persone dello stesso sesso.Tale novità comporta alcuni importanti risvolti di natura giuslavoristica:1-la disciplina in materia di congedo matrimoniale, per cui viene concessa sia l'indennità a carico del datore di lavoro sia quella erogata dall'Inps;2-vengono riconosciuti permessi in caso di lutto ed eventi particolari;3-la disciplina in materia di nullità del recesso datoriale comunicato nel periodo in cui vige la tutela, così come disciplinata dall'articolo 35 del dlgs 198/2006, ossia entro l'anno dalla celebrazione della unione civile;4-vi è il diritto di prelazione nella trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per assistere il coniuge affetto da patologie oncologiche;5-in caso di morte del lavoratore, il tfr dovrà essere corrisposto al coniuge dell'unione civile, così come spetta il 40% del tfr in caso di divorzio, in rapporto agli anni di unione.Infine, si sottolinea che l'INPS con messaggio 5172 del 2016 ha precisato che a decorrere dal 05 giugno 2016, ai fini del riconoscimento del diritto alle prestazioni pensionistiche e previdenziali (es pensione ai superstiti, integrazioni al trattamento minimo, maggiorazione sociale ecc)... il componente dell'unione civile è equiparato al coniuge, quindi, la parte superstite dell'unione civile può beneficiare del riconoscimento della pensione di reversibilità o della pensione indiretta.
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25 mar. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine. La durata massimaLe causaliQuali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? Le proroghe e i rinnoviI divietiIl diritto di precedenza1 - La durata massimaIn generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi. Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi. Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente. 2 - Le causaliLe causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. 4 - Le proroghe e i rinnoviIl contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi. Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo. 5 - I divietiL’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (sul punto esistono però alcune eccezioni); presso unità produttive nelle quali sono in corso procedure di cassa integrazione che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato; da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. 6 - Il diritto di precedenzaSalvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine. Editor: Giovanni Fabris
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