Egregio Avvocato
Pubblicato il 8 feb. 2022 · tempo di lettura 1 minuti
L’art. 39 della Costituzione, che regolamenta l’organizzazione sindacale, non è stato mai applicato nel nostro ordinamento, salvo il primo comma che sancisce la libertà di organizzazione sindacale.
La Costituzione, infatti, prefigura un modello specifico di organizzazione sindacale, che ricorda lontanamente le corporazioni del periodo fascista: ovvero un sindacato che viene registrato, acquista la personalità giuridica e può entrare in rappresentanze unitarie che stipulano contratti collettivi di lavoro con efficacia normativa, poiché vincolanti per tutti gli appartenenti alla categoria.
I sindacati però si sono sempre rifiutati di dare attuazione alla norma. Pertanto, gli attuali sindacati sono semplici associazioni di diritto privato e i contratti che stipulano non sono fonti dell’ordinamento generale, ma hanno valore vincolante solo per i soggetti contraenti e per i loro iscritti.
Lo sciopero è la sospensione collettiva temporanea delle prestazioni di lavoro rivolta alla tutela di un particolare interesse dei lavoratori: è un diritto riconosciuto e, infatti, chi sciopera non può subire conseguenze negative sul piano penale, civile o disciplinare (a parte la sospensione della retribuzione).
Lo sciopero tutelato dall’art. 40 Cost., però, è solo quello che i lavoratori dipendenti attuano per interessi, anche non economici, di categoria, e non anche quello politico o quello attuato dai datori di lavoro (c.d. serrata) o dai liberi professionisti. Tuttavia anche queste manifestazioni sono libere e consentite, anche se non dall’art. 40 Cost., attraverso altre libertà costituzionalmente garantite, come quella di riunione.
L’art. 40 Cost., rinvia alle leggi la regolazione e i limiti del diritto di sciopero.
Ma anche questa disposizione è priva di attuazione, in quanto non è mai stata approvata una disciplina generale del diritto di sciopero: esiste solo la disciplina del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, con la L. 146/1990, cioè la sanità, la giustizia, i trasporti pubblici e così via, nei quali devono comunque essere garantite le prestazioni indispensabili.
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Egregio Avvocato
31 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Il codice penale punisce alcune condotte, considerate reati “contro la fede pubblica”, tali perché ledono la fiducia che la collettività ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (come monete, emblemi e documenti) ai quali l’ordinamento attribuisce un valore significativo.Il falso, tuttavia, non è quasi mai fine a stesso, costituendo invece il mezzo per realizzare un altro obiettivo, lesivo della sfera giuridica di qualche altro soggetto.Per questo si ritiene che oltre all’offesa alla fede pubblica, il reato di falso debba avere un’ulteriore e potenziale attitudine offensiva, la quale può rivelarsi concreta in presenza di alcuni presupposti, considerandosi la reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto (che sarebbe anche persona offesa del reato). Sulla base di queste considerazioni, la giurisprudenza esclude la rilevanza penale di alcuni tipi di falso per difetto di offensività, qualora manchi l’effettiva lesione di uno dei citati interessi, protetti dalla norma.È il caso del c.d. falso “grossolano”, cioè il falso che si presenta così evidente da risultare inidoneo a ingannare qualsiasi soggetto; ciò vale quando la falsità è macroscopica e percepibile “icto oculi”. In questi casi, il fatto non è idoneo a ingannare la collettività e pertanto è giudicato inoffensivo rispetto al bene della fede pubblica.Nel caso di falso “innocuo”, invece, il falso è inoffensivo perché inidoneo in concreto ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati. È il caso, ad esempio, in cui vengano alterate o contraffatte parti di un documento irrilevanti ai fini della funzione probatoria del documento.La non punibilità può affermarsi anche se il falso fosse idoneo a ingannare il pubblico (e quindi non grossolano), ma comunque non abbia inciso sulla sfera giuridica di nessun soggetto, proprio perché manca una delle offese che deve necessariamente verificarsi ai fini della configurazione del reato.
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Egregio Avvocato
16 feb. 2022 • tempo di lettura 2 minuti
Il codice civile prevede all’art. 1571 la definizione generale del contratto di locazione, nell’ambito della disciplina dei contratti tipici, in base alla quale, si può classificare come “locazione” quel negozio giuridico con il quale una parte, detta locatore o concedente, si obbliga a far utilizzare una cosa per un certo periodo di tempo ad un altro soggetto, detto, a seconda dei casi, conduttore o inquilino o concessionario o affittuario, in cambio di un corrispettivo, usualmente denominato canone.All’interno di questa categoria generale si possono distinguere: le locazioni di beni mobili (ad esempio dei macchinari o mezzi di trasporto), quelle di beni immobili urbani, le più frequenti, cui il legislatore dedica una diversa disciplina a seconda che siano ad uso abitativo o ad uso diverso (ad esempio adibiti ad attività commerciali o professionali). A queste ultime, in particolare, è dedicata copiosa legislazione speciale, volta a bilanciare le esigenze della proprietà con quelle abitative. Unitamente, sono previste anche le locazioni di beni immobili non urbani, come nel caso dei fabbricati rurali.Diversamente, il vero e proprio contratto di affitto, a discapito della diffusione che tale termine ha nel linguaggio comune, tecnicamente fa riferimento alla sola locazione di beni produttivi mobili o immobili, quali ad esempio fondi rustici, aziende, alberghi. L’affitto è pertanto una species del genus della locazione, alla quale peraltro la legge dedica una disciplina specifica perché correlata al fatto che la cosa locata è una res produttiva. Ne deriva, ad esempio, che l’affittuario deve curare la gestione della cosa, conformemente alla sua destinazione economica, e che se quest’ultima viene mutata o v’è inosservanza delle regole di buona tecnica, il concedente può chiedere la risoluzione del contratto. Inoltre, all’affittuario spettano i frutti e le altre utilità tratte dalla res, oltre che la facoltà di prendere iniziative che comportino un aumento del reddito della stessa, purché non comportino obblighi per il locatore.
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Egregio Avvocato
15 dic. 2021 • tempo di lettura 2 minuti
Ai sensi dell’art. 43 D.P.R. 445/2000, le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47 D.P.R. 445/2000.Le tipologie di dichiarazioni sostitutive di cui al D.P.R. 445/2000 sono due: quelle sostitutive di certificazione e quelle sostitutive di atto di notorietà: 1 - Dichiarazione sostitutiva di certificazione (art. 46 D.P.R. 445/2000)Si tratta della dichiarazione, anche contestuale all’istanza, sottoscritta dallo stesso interessato, delle informazioni indicate nello stesso art. 46 e quindi sostitutiva delle normali certificazioni (questo il caso della data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, godimento dei diritti civili e politici, stato di famiglia, situazione reddituale, qualifica professionale o il non aver riportato condanne penali e così via...)2 - Dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (art. 46 D.P.R. 445/2000)Tale dichiarazione concerne, invece, altri stati, qualità personali o fatti, non rientranti nell’elencazione di cui all’art. 46 che siano comunque a diretta conoscenza dell’interessato. Inoltre, la stessa può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti, di cui il dichiarante abbia piena conoscenza.La dichiarazione che dovrà essere resa e sottoscritta dall’interessato, ex. art. 38 D.P.R. 445/2000, in presenza del dipendente addetto, ovvero presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore.Per garantire effettiva applicazione da parte delle amministrazioni delle norme contenute nel D.P.R. 445/2000, il legislatore espressamente qualifica come comportamenti costituenti violazione dei doveri di ufficio:la richiesta e l’accettazione di certificati o atti di notorietà;il rifiuto da parte del dipendente addetto di accertare l’attestazione di stati, qualità personali e fatti medianti l’esibizione di un documento di riconoscimento;la richiesta e la produzione, da parte rispettivamente degli ufficiali di stato civile e dei direttori sanitari, del certificato di assistenza al parto ai fini della formazione dell’atto di nascita;il rilascio di certificati non conformi a quanto previsto dall’art. 40, 2 comma ( certificazioni da produrre ai soggetti privati).
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Egregio Avvocato
29 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Il patteggiamento è un rito speciale previsto nel codice di procedura penale, il quale comporta che il giudice applichi con sentenza la pena che è stata indicata da una richiesta concorde del Pubblico Ministero e dell’imputato. In tal caso, si ottiene una notevole semplificazione del processo, poiché viene eliminata l’assunzione delle prove e l’utilizzazione dei verbali redatti in sede di indagine. La sentenza, inoltre, non può essere appellata ed è solo ricorribile in Cassazione, peraltro per limitati motivi specificamente individuati dalla legge. Essa, invece, non ha effetto di giudicato ai (soli) fini degli effetti civili.La legge incentiva l’imputato a tale accordo, soprattutto a fini deflattivi, prevedendo che nella determinazione della pena debba essere prevista una diminuzione fino a un terzo.Tali aspetti individuano le significative differenze col rito abbreviato.In tale secondo caso, l’imputato rinuncia al dibattimento, accettando che la pronuncia del giudice avvenga all’esito dell’udienza preliminare, acconsentendo a che vengano utilizzati gli atti segreti compiuti durante le indagini, eventualmente condizionando la richiesta ad una integrazione probatoria e indicando le prove di cui ritenga necessaria l’ammissione. Questi rinuncia cosi al pieno contraddittorio nella formazione della prova e ai diritti che gli spettano in dibattimento.Nel caso di giudizio abbreviato, l’imputato non conosce l’esito del giudizio (cioè se verrà assolto o condannato), né l’entità della pena base che il giudice sceglierà e in relazione alla quale parimenti beneficerà di una riduzione pari a un terzo. Nel caso di patteggiamento, invece, l’imputato sa in anticipo la pena che gli verrà inflitta – oltre che l’esito, appunto, di condanna. Può evidenziarsi, quindi, che in tale caso il sacrificio del diritto alla prova è compensato dal fatto che l’imputato, con l’accordo, incide direttamente sia sulla qualità, sia sulla quantità della pena, così potendo valutare in concreto se gli convenga abbandonare le garanzie del dibattimento.
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Egregio Avvocato
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