Egregio Avvocato
Pubblicato il 2 dic. 2021 · tempo di lettura 9 minuti
La libertà di riunione è disciplinata dalla Costituzione all’interno dell’art. 17 in cui si sancisce che: “i cittadini hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi”.
La libertà di riunione deve confrontarsi e compenetrarsi con la tutela dell’ordine pubblico e deve essere esercitata nel rispetto della sicurezza e dell’incolumità di persone e cose. Per questo, laddove la riunione perda il suo carattere pacifico, trascendendo in disordini e violenze, può essere sciolta dalla forza pubblica.
Esempio concreto di ciò è quanto accaduto a Trieste in occasione delle manifestazioni contro l’obbligo del green pass nei luoghi di lavoro. La situazione che ne è scaturita offre l’opportunità di una riflessione sul sottile equilibrio che si viene a creare tra il diritto, costituzionalmente garantito, della libertà di riunione e il presentarsi contestualmente di varie forme di prevaricazione o violenza che metta in pericolo la pubblica incolumità di persone e cose coinvolte.
1 - Definizione di libertà di riunione
Per definire il diritto alla libertà di riunione è necessario definire cosa s’intende per riunione.
Per “riunione” si intende la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo. E’ proprio la volontà di stare insieme per uno scopo comune che può avere la natura più varia, distingue la riunione dalle altre forme di assembramento.
Sono considerabili come riunioni, quindi, sia i cortei che sono delle riunioni itineranti, sia le manifestazioni spontanee e non organizzate, ma riunioni sono da ritenersi anche le assemblee, i comizi e i convegni che scaturiscano da una preventiva e motivata
2 - Tipologie di riunioni e preavviso
A seconda del luogo in cui si svolgono, le riunioni si distinguono in riunioni in luogo privato, riunioni in luogo aperto al pubblico e riunioni in luogo pubblico.
Le riunioni in luogo privato sono quelle che si svolgono nei luoghi destinati al godimento esclusivo dei privati, ossia il domicilio di una persona, come può essere la casa, la sede di un circolo o di un’azienda, in queste occasioni la libertà di riunione, si salda con la libertà di domicilio.
I luoghi aperti al pubblico sono quelli in cui l’accesso del pubblico è soggetto a modalità determinate da chi ne ha la disponibilità, come un cinema, un teatro o l’aula di un’università.
I luoghi pubblici sono infine quelli ove ognuno può transitare liberamente, come le strade e le piazze. E’ in questo caso che la libertà di riunione può entrare in conflitto con un'altra libertà, quella di circolazione, come nel caso in cui la manifestazione si traduca in un blocco stradale, ossia quando si ostacola o si impedisce la circolazione su strade o linee ferroviarie (situazione che è stata oggetto di riforma attraverso il decreto sicurezza 113/2018).
Solo per le riunioni in pubblico, l’art. 17. 2 Cost., prevede l’obbligo del preavviso, che deve essere dato in forma scritta almeno tre giorni prima al questore, quale rappresentante dell’autorità locale che dirige la pubblica sicurezza, con indicazione del luogo, dell’ora e dell’oggetto della riunione e delle generalità di coloro che sono designati a prendere la parola.
Si tratta di preavviso e non di autorizzazione. Il preavviso è un onere posto a carico dei promotori della riunione ma non è una condizione di legittimità della stessa, come invece potrebbe esserlo l’autorizzazione.
Le riunioni saranno legittime anche senza il preavviso ma in questo caso i promotori risponderanno penalmente per non aver assolto l’onere agli stessi richiesto dalla legge.
La ratio del preavviso è di mettere le autorità in grado di adottare le misure necessarie a tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica, nonché a risolvere i problemi che la manifestazione può creare per la circolazione; potendo il questore vietare la riunione in modo preventivo nel caso in cui sussistano comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica, non altre ragioni possono indurre l’autorità a vietare preventivamente la riunione, se non un pericolo diretto e immediato da valutare rispetto alle circostanze specifiche del caso.
3 - Condizioni di legittimità e scioglimento delle riunioni
La condizione essenziale richiesta dalla Costituzione affinché si abbia una valida riunione è che la stessa si svolga “pacificamente e senza armi”. L’interesse da tutelare è quello dell’ordine pubblico “in senso materiale”, quindi l’incolumità fisica delle persone e delle cose.
Riunione che potrà essere sciolta dalla forza pubblica nel caso in cui prenda una piega violenta contro le cose o contro le persone.
Questo è quanto di recente avvenuto a Roma, il 10 ottobre 2021, in occasione di una manifestazione contro l’utilizzo del green pass, degenerata in violenza contro le forze dell’ordine. In particolare, la sede della sindacato CGIL è stata devastata da alcuni facinorosi partecipanti, che a causa degli eccessi e delle violenze di cui si sono resi protagonisti, sono stati individuati per l’esecuzione di diverse ordinanze cautelari, con l’accusa di “devastazione e saccheggio aggravato” oltre che “violenza e resistenza a pubblico ufficiale”.
In particolare, gli articoli 22, 23 e 24 del T.u.l.p.s. (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), disciplina le modalità di scioglimento delle riunioni.
Si prevede che: “quando occorre disciogliere una riunione pubblica … le persone riunite… sono invitate a disciogliersi dagli ufficiali di pubblica sicurezza o in loro assenza, dagli ufficiali o dai sottoufficiali dei carabinieri”.
All’interno del T.u.l.p.s. è ordinato lo scioglimento, nel caso in cui l’invito rimanga senza effetto, con tre distinte formali intimazioni, che ancora oggi, si richiede siano precedute ognuna di esse da uno squillo di tromba.
Nel caso in cui, le tre intimazioni rimangano senza effetto, ovvero queste non siano eseguite in caso di contrasto per opposizione dei partecipanti, gli ufficiali di pubblica sicurezza o i carabinieri: “ordinano che la riunione o l’assembramento siano disciolti con la forza”.
Il fatto che qualcuno dei partecipanti sia armato non è di per sé causa di scioglimento della riunione ma, al più, determina l’allontanamento dell’interessato.
Sul punto, occorre ricordare come il concetto di armi improprie, che non raramente compaiono nelle manifestazioni ( questo il caso di spranghe volte al sostentamento di bandiere o striscioni), sia stato precisato dalla Corte Costituzionale, dovendosi considerare: “arma impropria solo gli strumenti chiaramente utilizzabili, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa della persona”, vietando altresì anche l’uso di caschi protettivi e di altri mezzi che rendano difficoltoso il riconoscimento della persona.
4 - Il caso di Trieste: dove risiede il punto di equilibrio fra i contrapposti interessi?
In tempi recenti, molte sono state le manifestazioni, i sit-in, ed i cortei in tutta Italia, in segno di protesta contro l’utilizzo del green pass, strumento adottato dal governo per incoraggiare la vaccinazione di massa.
Oltre al violento episodio avvenuto a Roma ad inizio ottobre, precedentemente citato, un altro avvenimento che ha destato preoccupazione e clamore mediatico è stato quello relativo alla manifestazione promossa dai no-green pass a Trieste, in particolare contro l’obbligo di vaccinazione necessario per accedere al luogo di lavoro.
Degna di nota è stata la resistenza dei manifestanti che sono stati per giorni a presidiare il varco 4 del Molo 7 del Porto di Trieste e che, infine, sono stati costretti ad allontanarsi con idranti e lacrimogeni. La vicenda ha scatenato le ire e il malcontento di buona parte del paese, in particolare per l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine, nonostante la manifestazione risultasse essersi svolta in modo pacifico e quindi in pieno rispetto dell’art. 17 della Costituzione.
C’è da precisare che lo sgombero è stato deciso dalla Prefettura di Trieste che aveva già paventato l’imminente intervento delle Autorità ai manifestanti, adducendo come motivazione il rallentamento e in molti casi l’interruzione delle attività lavorative visto che il presidio impediva il normale svolgimento delle stesse.
In questo caso è opportuno evidenziare due concetti che sono stati in precedenza esaminati: le intimazioni a disciogliere la riunione e il reato di blocco stradale, casistica che risulta contemplata dal modificato dal decreto sicurezza nel 2018.
Per quel che riguarda il primo aspetto, ovvero quello delle intimazioni a sciogliere la riunione, come fatto notare dalla stessa Prefettura di Trieste, nei giorni successivi all’inizio della riunione, nonostante il carattere pacifico di questa, molte volte gli agenti delle forze dell’ordine intimavano ai manifestanti di sgomberare la strada in vista del normale proseguimento delle attività portuali. Ciò non accadeva e, da tale mancanza di ascolto, conseguiva prima l’utilizzo degli idranti e dei lacrimogeni e, infine, le cariche delle forze dell’ordine, anche con l’utilizzo dei manganelli.
Come specificato dal T.u.l.p.s., a seguito delle tre intimazioni, intervenute prima dell’uso degli idranti, nel caso in cui l’invito rimanga inascoltato, gli agenti delle forze dell’ordine possono utilizzare la forza pubblica per disciogliere la riunione.
Per quel che riguarda il reato di blocco stradale, le modifiche apportate dal decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, hanno permesso l’introduzione dell’art. 1 bis, il quale prevede che: “Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 4.000. La medesima sanzione si applica ai promotori ed agli organizzatori”.
Si tratta di un illecito amministrativo, il quale deve essere immediatamente contestato ai soggetti che ostruiscono la libera circolazione su strada pubblica.
Proprio ciò è accaduto a Trieste. In particolare, quando il comportamento illecito sopraindicato si inserisce all’interno di una manifestazione organizzata o promossa da persone fisiche o giuridiche, la sanzione prevista per l’autore materiale dell’illecito si applica anche ai promotori e agli organizzatori.
Come, infatti, affermato anche dal Prefetto di Trieste, la manifestazione era oltremodo presentata come sciopero e quindi non convalidata risultando, quindi, una manifestazione non autorizzata. In particolare, si era già fatto notare come la manifestazione stesse impedendo l'accesso dei lavoratori al porto e bloccando l'attività, configurandosi come interruzione di pubblico servizio, quindi perseguibile.
Si può affermare quindi, che l’illecito di blocco stradale è stato reiteratamente commesso da parte dei manifestanti a Trieste, nonostante i precedenti avvertimenti e le conseguenti intimazioni a sciogliere la manifestazione in atto da parte delle forze dell’ordine, proprio per aver bloccato o comunque ostruito la strada, in particolar modo il varco 4 del Molo 7 del Porto di Trieste, impedendo, quindi, il normale svolgimento delle attività lavorative.
Di talché, si può evidenziare che nonostante la manifestazione fosse pacifica, almeno nella sua fase iniziale, la stessa è trascesa in disordini e violenze, non permettendo il regolare svolgimento delle attività lavorative nel porto di Trieste e, comportando la commissione dell’illecito amministrativo previsto all’interno del reato di blocco stradale.
Come stabilito prioritariamente dalla Costituzione, a seguito delle condizioni elencate, la manifestazione di Trieste, minacciando l’ordine pubblico, a seguito delle continue intimazioni, è stata legittimamente sciolta, anche con l’utilizzo della forza, in quanto risultava in aperto contrasto con l’art. 17. 2 Cost e il T.u.l.p.s.
Editor: dott. Giuseppe Sferrazzo.
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Egregio Avvocato
7 feb. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Definire l’ambiente e, conseguentemente, il diritto ambientale è certamente un compiuto arduo. Prendendo in prestito le parole del Prof. Avv. Andrea Sticchi Damiani, primo relatore del Corso di Formazione di Alta Specializzazione in Diritto Ambientale organizzato dall’Associazione Nazionale Forense di Taranto nel 2019, «il diritto dell’ambiente può configurarsi come quella scienza giuridica che studia la ricerca del luogo migliore in cui l’uomo possa vivere, garantendogli lo spazio ideale in cui concretizzare la sua corsa verso la felicità».Storicamente, sebbene non si possa delineare con assoluta certezza, la nascita del diritto dell’ambiente è riconducibile alle controversie internazionali sorte tra il XIX e il XX secolo e risolte da convenzioni bilaterali e decisioni arbitrali e giurisdizionali. Va da sé, pertanto, che, nonostante si trattasse di accordi convenzionali e decisioni giurisdizionali prettamente ispirate da uno scopo utilitaristico ed economico e non dal sentimento di protezione ambientale, fondamentale è stato l’apporto degli operatori giuridici.Secondo gli studi di autorevoli autori – fra tutti si ricorda il giurista e professore universitario tedesco Peter Heinz Sand – l’evoluzione del diritto dell’ambiente, nella sua branca internazionalistica che ha, poi, ispirato e condizionato le scelte legislative interne della maggior parte degli Stati, è suddivisibile in quattro fasi storiche: 1) la prima fase è stata caratterizzata dalle già citate convenzioni e decisioni arbitrali; 2) il secondo periodo ha come fulcro la nascita dell’ONU e termina con la prima Conferenza delle Nazioni Unite in materia, tenutasi a Stoccolma nel 1972; 3) la terza fase è rappresentata dall’intervallo di tempo intercorso tra la Conferenza di Stoccolma e la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992; 4) la quarta fase è quella più recente e comprendente la Conferenza di Rio del 2012 e gli Accordi di Parigi. Di pari passo con l’enunciazione dei fondamentali principi in materia che involge, in prima battuta, gli ordinamenti nazionali chiamati a recepirli, è maturata esponenzialmente, negli ultimi mesi, la consapevolezza ecologista del “comune cittadino”. Ciò anche, se non soprattutto, per merito dell’ormai famosa “ragazzina con le treccine”, Greta Thunberg, giovane attivista ambientale svedese che, con i suoi “scioperi” scolastici davanti al Parlamento svedese ogni venerdì, ha smosso le coscienze planetarie. Proprio questo movimento mondiale – Fridays for Future – potrebbe ben costituire una nuova fase evolutiva del diritto ambientale. Ed è qui che potrebbero, anzi dovrebbero entrare in gioco gli operatori del diritto, in particolare i più giovani, attraverso una spinta verso una definizione sempre più chiara, lineare ed accurata della normativa a tutela dell’ambiente. Inoltre, in un mercato quasi saturo, come quello dell’avvocatura, la figura dell’avvocato ambientale ben potrebbe rappresentare uno sbocco lavorativo, con la possibilità di differenziazione dalla platea del resto dei colleghi.Difatti, il diritto ambientale italiano è stato ed è tuttora caratterizzato da un continuo susseguirsi di norme, spesso non emanate in vista di un disegno unitario e, conseguentemente, in contraddizione tra loro. Il giurista ambientale, quindi, può certamente assumere un ruolo essenziale nella gestione delle problematiche ambientali, a sostegno dei privati e della pubblica amministrazione. Ovviamente è fondamentale una intensa formazione che garantisca una preparazione globale sulla materia. Lungimirante ed intuitiva è stata l’idea di questo corso di specializzazione in diritto ambientale, specialmente nel nostro territorio tarantino, da sempre al centro della questione ambientale.Certamente, per noi giovani che ci stiamo affacciando alla professione forense, il percorso non è privo di insidie ed è facile sentirsi piccoli. Ma, come sostenuto dalla giovanissima Greta, «non sei mai troppo piccolo per fare la differenza» e quindi anche noi possiamo farla!«Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare» (Ernest Hemingway – Per chi suona la campana).
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7 feb. 2021 • tempo di lettura 33 minuti
Articolo redatto con la collaborazione di Alessandra Ceddia, Bruna Graziano, Fausta Pasanisi e Rachele Ramellini e pubblicato sulla rivista AmbienteDirittoPremessaDefinire l’ambiente e, conseguentemente, il diritto ambientale è certamente un compito arduo, specie in virtù della sua sovrabbondanza e della sua mutevolezza[1].Orbene, sebbene si cerchi di uniformare la disciplina in materia ambientale, ancora oggi gli operatori del diritto muovono passi incerti sul punto.Un faro che indichi la via potrebbe essere la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, seppur non senza limiti e qualche critica, ha più volte statuito in tema di diritto ambientale.Con la sentenza del 24 gennaio 2019 – sentenza Cordella – la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sulla questione relativa all’impatto sulla popolazione residente delle emissioni provenienti dallo stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto e sulla lamentata inerzia dello Stato italiano nell’adottare provvedimenti incisivi.Il “caso Ilva”, noto alle cronache e alle aule di giustizia, nella dimensione della pronuncia succitata ha permesso di affrontare a livello europeo il tema della tutela dell’ambiente quale diritto fondamentale individuale.La sentenza è stata emessa all’esito di un procedimento instaurato con due ricorsi presentati nel 2013 e nel 2015, successivamente riuniti, da centottanta abitanti del territorio tarantino che contestavano allo Stato italiano la mancata adozione di misure idonee a salvaguardare l’ambiente dalle emissioni inquinanti dell’acciaieria e, conseguentemente, la mancata tutela della salute e del benessere dei residenti della zona.La Corte di Strasburgo ha affrontato la questione dal punto di vista dell’art. 8 della Convenzione EDU (diritto alla vita privata), riconoscendo esplicitamente l’impatto negativo delle emissioni sul benessere della popolazione tarantina e, di fatto, la violazione della Convenzione da parte dello Stato italiano.Tuttavia, la Corte non ha riconosciuto un risarcimento economico ai ricorrenti, sostenendo che la sola constatazione della violazione costituisse, di per sé, una riparazione sufficiente per il danno morale subìto.La Corte ha ribadito, a più riprese, l’inesistenza di un autonomo diritto fondamentale ad un ambiente sano, questione dibattuta tanto a livello internazionale quanto nella giurisprudenza nostrana.Nel proseguito saranno trattate le diverse responsabilità dello Stato italiano per la questione ambientale, con un accenno anche ai riflessi del “caso Ilva” sulla giustizia italiana; saranno analizzati gli artt. 2 e 8 della Convenzione EDU e l’opportunità della codificazione di un autonomo diritto ad un ambiente salubre, nonché i riflessi di questa mancanza sulla nozione di “vittima” nella giurisprudenza di Strasburgo e sulle peculiari scelte risarcitorie adottate nel caso di specie.1. La responsabilità dello Stato per la violazione di diritti fondamentaliLa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 gennaio 2019, scaturita dai ricorsi n. 54414/2013 e n. 54254/2015, ha offerto una prospettiva nuova sull’annoso problema dei danni alla salute da esposizione a sostanze tossiche, ravvisando una responsabilità dello Stato in una materia che, sino ad ora, in Italia è stata prevalentemente oggetto di procedimenti penali avviati nei confronti dei privati gestori.Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili mostrano una grave situazione ambientale e sanitaria nell’area di Taranto interessata dalle emissioni dello stabilimento siderurgico (ex) Ilva S.p.A.Tale situazione è stata determinata, o comunque non adeguatamente fronteggiata, dalle politiche ambientali italiane che, nel corso degli anni, si sono mostrate incapaci di trovare un bilanciamento tra l’interesse della società produttiva e il benessere e la qualità della vita dei residenti delle aree interessate.In tema di inquinamento atmosferico, la nuova direttiva 2008/50 CE “Qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa”, recepita con D. Lgs. n. 115/2010, impone una revisione generale dei criteri di valutazione delle emissioni in atmosfera per determinate sostanze, prevedendo più stringenti procedimenti di pianificazione per la qualità dell’aria.Il D. Lgs. 152/2006[2] definisce l’inquinamento atmosferico come «ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere oda costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente».Tale nozione va, poi, collegata a quella di emissioni che il legislatore definisce, in generale, come «qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell’atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico».I diritti fondamentali della persona umana, ancorché primari e inalienabili, sono soggetti alle relativizzazioni derivanti dal bilanciamento con altri diritti o interessi di rango costituzionale e la mancata previsione di un diritto all’ambiente, sia in ambito comunitario sia nazionale, non ha impedito il delinearsi di una giurisprudenza di legittimità che, sulla base di una creativa interpretazione del combinato disposto degli artt. 2 (riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo), 9 (tutela del paesaggio) e 32 (tutela della salute) della Costituzione, garantisce tutela al c.d. diritto ad un ambiente salubre.In questa prospettiva, la vicenda Ilva di Taranto rappresenta un caso emblematico di come il risultato scaturente dal bilanciamento tra i diritti fondamentali della persona umana, benché primari e inalienabili, e altri diritti o interessi di rango costituzionale possa dar vita a contrastanti orientamenti giurisprudenziali.L’impianto Ilva di Taranto (ora Arcelor Mittal) è il più grande complesso di acciaierie industriali in Europa, che copre un’area di 1.550 ettari e conta circa 11.000 dipendenti.Malgrado le numerose vicende giudiziarie abbiano accertato che la produzione realizzata all’interno del colosso siderurgico tarantino fosse svolta con violazione della normativa a tutela dei diritti alla salute e della proprietà, oltre che dell’ambiente, l’attività inquinante – sversamento polveri e altre sostanze oltre i limiti tollerabili e consentiti – è proseguita, senza soluzione di continuità, per tutti gli anni successivi sino ad oggi, tanto che, sempre presso il Tribunale di Taranto, è pendente un altro procedimento penale[3].Sull’impatto delle emissioni dell’impianto sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale sono stati condotti diversi studi da cui sono emersi rapporti scientifici allarmanti.Tra questi, il Rapporto Sentieri[4] del 22 ottobre 2012 redatto a cura dell’Istituto Superiore di Sanità su richiesta del Ministero della Salute, formulò raccomandazioni per gli intervenenti di sanità pubblica sulla base dei dati riguardanti le cause di mortalità nei siti di bonifica di interesse nazionale (c.d. SIN) per il periodo 1995 – 2009. Da tale rapporto emerse l’esistenza di un legame causale tra l’esposizione ambientale alle sostanze cancerogene inalabili prodotte della società Ilva e lo sviluppo di tumori polmonari, pleurici e di patologie cardiovascolari nelle persone residenti nelle aree colpite, così dimostrando che i decessi di uomini, donne e bambini che risiedevano nelle aree interessate per tumori, malattie del sistema circolatorio e altre patologie, erano numericamente superiori alla media regionale e nazionale.Uno studio del 2016 condotto dal dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario della Regione Lazio, dall’ARPA, dal Centro Salute e Ambiente Puglia e dalla Agenzia Sanitaria Locale di Taranto – riguardante 321.356 persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2010 – dimostrò l’esistenza di un nesso causale tra l’esposizione a PM10 (polveri sottili) e al SO2 (diossido di zolfo) derivanti dall’attività produttiva dell’Ilva e l’aumento della mortalità per cause naturali, tumori, malattie renali e cardiovascolari nella popolazione di Taranto.Ed è proprio in relazione a questi dati che si registrano dibattuti contrasti giurisprudenziali.Invero, la Corte costituzionale, con sentenza n. 85/2013, statuì che, non esistendo una gerarchia dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione – dovendo questi, in caso di conflitto, essere bilanciati ragionevolmente – il diritto all’ambiente salubre e alla salute non erano da considerarsi prevalenti rispetto al diritto al lavoro.Ma, successivamente, la Corte riconobbe espressamente che quella disciplina era stata imposta da una situazione «grave ed eccezionale» e solo la temporaneità delle misure adottate poteva farle ritenere compatibili coi principi costituzionali, in quanto circoscritte entro un orizzonte temporale limitato di trentasei mesi decorrenti dal 3 dicembre 2012.Difatti, con sentenza n. 58/2018[5] la Suprema Corte affermò che l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva non dovesse giungere sino al punto di trascurare diritti costituzionalmente inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa, ai quali è indissolubilmente connesso al diritto al lavoro in un ambiente sicuro e non pericoloso.Orbene, con la pronuncia del 24 gennaio 2019 la Corte di Strasburgo giunge al punto di riconoscere la responsabilità diretta dello Stato italiano per violazione dell’articolo 8 della Convenzione EDU – diritto al rispetto della vita privata e familiare – poiché le Autorità Nazionali non sono state in grado di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la salute dei ricorrenti e, più in generale, il loro diritto alla vita e il rispetto alla vita privata e familiare.Ciò che i numerosi ricorrenti lamentavano era proprio l’inerzia dello Stato italiano nell’impedire la lesione dei diritti fondamentali dei cittadini a fronte delle immissioni nocive provenienti dall’impianto siderurgico e, conseguentemente, l’impatto delle stesse sulla salute e sull’ambiente.La Corte, ritenendo che lo Stato italiano non abbia adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute dei cittadini, ha riconosciuto un’equa riparazione agli stessi, raccomandando allo Stato di far fronte a dette misure entro breve termine, soprattutto mediante la definitiva implementazione del piano nazionale ambientale sino ad ora non compiutamente attuato.Inoltre, la Corte ha attribuito al Comitato dei Ministri – organo decisionale del Consiglio d’Europa – il compito di indicare al Governo italiano le misure da assumere per garantire l’esecuzione della sentenza della Corte EDU, sottolineando l’urgenza dei lavori di bonifica delle aree colpite dall’inquinamento ambientale e l’importanza di approvare, nel minor tempo possibile, un piano ambientale.Da un’attenta disanima delle disposizioni e delle statuizioni contenute nella pronuncia della Corte si evince chiaramente la grande portata e l’incidenza della sentenza, la quale ha dato voce a numerose persone che hanno visto – e tuttora vedono – la propria salute passare in secondo piano in nome di uno stato di “emergenza” decretato a partire dal 2012, facendo luce su questioni di rilevanza nazionale rimaste lungamente nell’ombra.La cattiva gestione dei rischi ambientali e sanitari, che ha caratterizzato le politiche dello sviluppo italiano dal dopoguerra ad oggi, ha portato con sé tragedie umane le cui responsabilità sono state, finora, attribuite ai singoli gestori delle private imprese, accusati di omicidi, lesioni personali e disastri ambientali.Ciò che è mancato è, non solo un controllo, ma anche un “esame di coscienza istituzionale” che portasse a chiedersi per quale ragione produzioni notoriamente tossiche siano state considerate lecite per molti anni.La c.d. sentenza Cordella ha compiuto un grande passo in avanti, ponendo in primo piano il problema degli obblighi positivi di tutela dell’uomo e delle risorse naturali, gravanti innanzitutto sulle istituzioni nazionali, e ha permesso di individuare, grazie agli studi epidemiologici, la sussistenza di un nesso di causalità fra l’esposizione ambientale ad agenti cancerogeni e lo sviluppo di malattie tumorali nella popolazione.Merito straordinariamente innovativo della sentenza Cordella è l’aver richiamato lo Stato italiano alla propria responsabilità nella definizione del modello di sviluppo da adottare, il quale deve aver riguardo, specialmente, dei diritti fondamentali dei singoli e non solamente dell’interesse generale ad una prosperosa economica.2. L’applicabilità degli articoli 2 e 8 Convenzione EDU: il caso IlvaLa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nel corso degli anni, ha sviluppato un’interpretazione sempre più evolutiva della applicabilità degli articoli 2 e 8 della Convenzione EDU in materia ambientale.L’articolo 2 tutela il bene giuridico della vita, il cui diritto è ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo, che può essere minacciato o danneggiato dal pericolo di morte. Difatti, prevede che il diritto alla vita di ogni individuo debba essere tutelato dalla legge e nessuno può esserne privato, salvo che in esecuzione di una sentenza emessa da un Tribunale.L’articolo 8, invece, disciplina il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, nonché il divieto di ingerenza nell’esercizio di tale diritto, salvo che la legge disponga diversamente. Tutela, altresì, il “benessere e la qualità della vita” – intesa come salute, tranquillità personale, e così via – che possono essere compromessi da attività inquinanti di diverso genere, quali industrie siderurgiche e circolazione di veicoli.Fra le due disposizioni citate esiste un principio di sussidiarietà. Mentre l’art. 2 contempla i casi in cui il soggetto sia deceduto o la cui vita sia esposta a grave pericolo, l’art. 8 disciplina le offese all’integrità psico – fisica le quali, sebbene di rilevante entità, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2.Entrambi i diritti devono ricevere una tutela assoluta da parte dello Stato, a cui è riconosciuto il potere di condurre delle indagini dirette ad individuare gli aggressori ingiustificati di tali diritti e, conseguentemente, il potere di applicare tutte le relative sanzioni.Una rilevante applicazione di questi principi si rinviene nel caso Ilva di Taranto. La Corte di Strasburgo ha, infatti, constatato che dallo stabilimento in questione, sin dagli anni ’70 del secolo scorso, derivano emissioni inquinanti con effetti gravemente nocivi per l’ambiente e per la salute umana.La Corte EDU ha, quindi, condannato l’Italia per la violazione del diritto alla vita privata e del diritto al “benessere” dei residenti nelle zone limitrofe allo stabilimento siderurgico tarantino, a causa della totale mancanza di misure finalizzate a proteggere l’ambiente dalle emissioni contaminanti dell’acciaieria.Come accennato pocanzi, in merito sono state effettuate numerose indagini epidemiologiche da cui è emerso un aumento del tasso di mortalità ed un accertato pericolo di sviluppare patologie oncologiche per tutti gli abitanti di Taranto.La Corte EDU, nella sentenza Cordella, ha attribuito ai predetti studi epidemiologici un importante valore probatori per tutti i ricorrenti, pur in assenza di qualsivoglia patologia letale.È evidente, dunque, che sussiste uno squilibrio fra il diritto alla vita privata dei singoli individui e l’interesse della collettività all’esercizio dell’attività lavorativa, proprio in ragione della totale assenza di misure adeguate a fronteggiare il pericolo di morte e a ridurre i rischi nocivi per la vita umana.I gravi danni arrecati all’ambiente sono idonei a compromettere, oltre che il benessere, anche la qualità della vita dei residenti tarantini.A tal proposito va precisato che non esiste una definizione di qualità di vita, atteso che è ancora oggi un concetto prevalentemente soggettivo. Sul punto, la Corte non ha altra scelta che quella di basarsi, sebbene non esclusivamente, sulle conclusioni delle giurisdizioni e delle altre autorità interne competenti[6].Il caso in esame consente di comprendere la difficoltà della gestione di una situazione caratterizzata da un accertato rischio oncologico, quale conseguenza della produzione di uno stabilimento di importanza significativa per l’economica del Paese e dall’accertata violazione del diritto alla vita privata. In questo scenario, all’interno del quale le sanzioni dovrebbero rappresentare una reazione dell’ordinamento alle offese arrecate al “bene vita”, sarebbe opportuna una prospettiva di cambiamento fondata su una delimitazione dei vari interessi, su un corretto agire dello Stato e su un’effettiva tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.3. Il “diritto a un ambiente sano”La Convenzione Europea sulla salvaguardi dell’Uomo e delle libertà fondamentali non riconosce un diritto dell’uomo all’ambiente sano, pur prevedendo varie norme che hanno consentito lo sviluppo di una giurisprudenza della Corte EDU sulle tematiche ambientali.La Corte e la Convenzione, infatti, hanno dato prova, anche in tal campo, di essere insieme uno «strumento vivente da interpretare alla luce delle concezioni prevalenti nella società»[7].La Corte di Strasburgo, attraverso un percorso indiretto, similare a quello attuato dalla Corte di Cassazione italiana, ha inteso tutelare l’ambiente in quanto percepito quale “valore” che richiede tutela ed interventi da parte degli Stati.Anche in Italia l’ambiente non è oggetto di tutela immediata. Tuttavia, la Corte di Cassazione, sulla base di un’interpretazione del combinato disposto degli artt. 32, 9 e 2 Cost., ha garantito tutela al c.d. «diritto ad un ambiente salubre»[8] quale mezzo per assicurare il rispetto dei diritti inviolabili dell’individuo.Sostanzialmente anche se nella Convenzione non vi sono norme in cui il diritto all’ambiente sano sia espressamente sancito, la necessità di protezione dell’ambiente si è affermata come nuovo valore[9].La tutela, però, dovrà essere attuata attraverso un equo bilanciamento tra l’esercizio dei diritti umani, espressamente riconosciuti dalla Convenzione, e il principio generale del rispetto dell’individuo, anch’esso consacrato nella Convenzione EDU[10].Operando un’interpretazione ermeneutica dei diritti già esistenti in chiave ambientalistica, la Corte EDU ha aperto un filone giurisprudenziale riconducendo la tutela di tutte le questioni inerenti ai danni ambientali, alla vita e alla salute, a quella dei diritti fondamentali di “prima generazione” e dei diritti economici, sociali e culturali di “seconda generazione”, ponendo quale riferimento normativo soprattutto la violazione degli artt. 8 e 2 della Convenzione, ma anche degli artt. 6, 10, 11 e 13[11].Questo indirizzo della Corte è in linea con il sentire europeo e planetario. Infatti, sebbene, come già detto, la Convenzione non sancisce il diritto ad un ambiente sano, l’art. 37 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita: «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».Dal Protocollo di Kyoto emerge che il problema ambientale ha una dimensione sovranazionale, dato che l’inquinamento non conosce frontiere.Questa attenzione planetaria logicamente converge con la tutela dei diritti umani.Pertanto, essendo la Convenzione “strumento vivo” che si evolve continuamente, adattandosi alle nuove esigenze sociali dovute ai cambiamenti attraverso l’interpretazione della CEDU[12], la Corte, sulla scorta dell’interpretazione delle norme in chiave ambientalistica, ha imposto obblighi positivi attraverso la previsione di interventi di protezione e/o risanamento e la mancata predisposizione di tali misure è stata ritenuta una violazione della Convenzione, comportando il risarcimento del danno alle vittime.Le questioni ambientali hanno iniziato ad interessare la Corte di Strasburgo dai primi anni Novanta, in particolar modo con la sentenza Lopez Ostra c. Spagna del 1994. In essa, per la prima volta, è stata riconosciuta la violazione dell’art. 8 della Convenzione in riferimento all’impedimento del pieno godimento della propria vita privata e familiare e si è attuata una tutela indipendentemente da un danno alla salute, ma riconoscendo una compromissione del proprio benessere.Com’è noto, la legittimazione attiva dinanzi alla Corte di Strasburgo spetta esclusivamente ai soggetti direttamente colpiti dalla violazione, non essendo ammessa l’actio popularis; ma è indubbio che, in tale ambito, la tutela individuale abbia dei riflessi su tutta la società, incidendo sulla protezione ambientale. Si è dato così il via ad una serie di azioni che si pongono molto al limite tra i diritti individuali e gli interessi collettivi[13].Nella sentenza Cordella, infatti, la Corte osserva che «l’inquinamento ambientale dell’Ilva ha posto in pericolo sia la salute dei ricorrenti, sia, più in generale, quella dell’intera popolazione esposta».I Giudici di Strasburgo, nella sentenza in esame, hanno accertato la violazione del diritto alla vita privata, sancito dall’art. 8 ed il diritto ad un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13, che negli strumenti italiani di fatto non offriva alcun rimedio.Lo Stato italiano, secondo la Corte, «non ha saputo trovare un punto di equilibrio tra l’interesse dei singoli al benessere ed alla qualità della vita e quello della società alla prosecuzione della produzione».Il diritto all’ambiente salubre rappresenta, anche qui, solo una rielaborazione ermeneutica di diritti già esistenti, poiché non può parlarsi di diritto all’integrità dell’ambiente tout - court[14].In questa sua dimensione “green” la giurisprudenza della Corte EDU ha dovuto, però, affrontare due problematiche.La prima è relativa al contemperamento del diritto alla vita e quello alla vita privata nella dimensione ecologica.La seconda questione, invece, riguarda l’incompletezza della tutela offerta dalla Convenzione per ciò che riguarda i rapporti tra ambiente e salute umana.4. I riflessi delle valutazioni nel merito sulla nozione di “vittima”Con la sentenza Cordella e altri c. Italia la Corte di Strasburgo ha ribadito alcuni principi in tema di danno ambientale mirando, almeno apparentemente, all’apertura dei confini sinora tracciati in tema di tutela dei diritti individuali e tutela dell’ambiente.La sentenza è stata emessa a seguito della proposizione negli anni 2013 e 2015 di due ricorsi, successivamente riuniti in un unico procedimento, da parte di centottanta residenti a Taranto o in comuni limitrofi. I ricorrenti lamentavano la violazione da parte dello Stato italiano degli artt. 2-8-13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per le emissioni nocive dello stabilimento siderurgico tarantino ex ILVA S.p.A., che avevano delle gravissime ripercussioni sulla salute degli abitanti della zona. In particolare, veniva contestata la mancata adozione da parte dello Stato di misure normative idonee a proteggere la salute degli individui e l’ambiente, nonché l’omissione di informazioni sui livelli di inquinamento della zona e sui conseguenti rischi per la salute degli abitanti. I Comuni che già dal 1990 erano stati individuati dal Consiglio dei ministri come “ad elevato rischio di crisi ambientale” erano quelli di Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte.A fondamento delle loro doglianze i ricorrenti presentavano le risultanze di rapporti istituzionali e studi scientifici pubblicati nell’arco temporale tra il 1997 e il 2007, dai quali emergeva l’indiscutibile esistenza di un nesso eziologico tra le emissioni nocive dell’acciaieria e l’aumento dell’insorgenza di patologie cardiovascolari, tumorali, respiratorie e digestive nella popolazione esposta.In particolare, dal rapporto SENTIERI del 2012, redatto a cura dell’Istituto Superiore di Sanità su richiesta del Ministero della salute, emergeva che il numero di decessi per le patologie succitate di uomini e donne che risiedevano nella zona interessata erano superiori alla media nazionale.Come già evidenziato, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 della Convenzione, rammentando che «i danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata»[15].Tralasciando le questioni inerenti al mancato riconoscimento di un risarcimento per il danno morale subìto dai ricorrenti, che saranno trattate di seguito, ciò che viene in rilievo è il fatto che nella sentenza venga rimarcata a più riprese l’inesistenza di un autonomo “diritto ad un ambiente sano” codificato all’interno della Convenzione. Il danno ambientale è affrontato dal punto di vista delle tutele approntate dagli artt. 2 e 8 della Convenzione, poiché i pregiudizi derivanti da un ambiente inquinato possono tradursi in violazioni del diritto alla vita e diritto alla vita privata, entrambi positivizzati[16].La mancanza evidenziata ha influito anche nel modo in cui la Corte Europea ha affrontato una delle questioni preliminari sollevate dallo Stato italiano sulla ricevibilità dei ricorsi.Facendo un breve passo indietro: il Governo costituendosi in giudizio aveva sollevato una serie di eccezioni preliminari, con cui aveva anche contestato la qualità di vittime dei ricorrenti. Secondo il resistente, i promotori del ricorso avevano adito la Corte Europea per difendere la violazione di un interesse generale e non la violazione di un diritto individuale, condizione, quest’ultima, imprescindibile per la presentazione di un ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo. Il riferimento era all’art. 34 della Convenzione che al primo paragrafo sancisce: «La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi Protocolli. (...)» .Per comprendere l’eccezione sollevata dal Governo e la successiva valutazione della Corte è necessario dapprima definire la nozione di vittima[17].Nel contesto della CEDU il termine “vittima” si riferisce alla persona interessata dalla violazione del diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione, ricomprendendo anche tutti quei soggetti, le vittime “indirette”, che sarebbero danneggiate dalla violazione o che avrebbero un interesse valido e personale alla sua cessazione[18]. La definizione non è rigida, ma suscettibile di evoluzione alla luce dei mutamenti della società contemporanea[19]; gode di una autonomia interpretativa rispetto alle norme di diritto interno relative all’interesse e alla capacità di agire; non esige l’esistenza di un pregiudizio e può essere sufficiente ad integrare una violazione anche un atto che abbia effetti giuridici temporanei[20].Secondo la Giurisprudenza CEDU un ricorrente può essere una vittima anche solo potenziale[21], purché provi ragionevolmente e concretamente, senza affidarsi a meri sospetti o congetture, il verificarsi di una violazione che inciderà personalmente su di lui[22].Le aperture e l’elasticità riconosciute alla qualità di “vittima” del ricorrente non possono sconfinare però in una actio popularis, ossia in un’azione proposta al solo fine di tutelare interessi generali di particolare rilevanza interpretando i diritti garantiti dalla Convenzione[23] senza che vi sia una effettiva violazione delle norme codificate che abbia colpito i proponenti del ricorso; questo in quanto la Corte di Strasburgo ha competenza di Giudice dei diritti fondamentali individuali.Nel caso di specie, secondo il Governo italiano il fatto che i procedimenti avviati riguardassero la ripercussione sulla salute pubblica delle contaminazioni ambientali causate dagli effluvi dell’acciaieria tarantina avrebbe attribuito loro la natura di actio popularis, soprattutto in virtù del fatto che la maggior parte dei ricorrenti risultava risiedere in Comuni differenti dalla città di Taranto, unica zona, a loro dire, interessata dall’inquinamento ambientale (§95-96-97).La Corte Europea, nell’esaminare l’eccezione preliminare, ha ribadito a sua volta l’inammissibilità della actio popularis e ha affermato che né l’art. 8, né qualsiasi altra disposizione della Convenzione garantiscono una protezione generale dell’ambiente in quanto tale (§99).La questione viene però superata prendendo in considerazione quale “elemento cruciale” al fine di stabilire se il danno ambientale lamentato dai ricorrenti abbia comportato la violazione dell’art. 8 della Convenzione «l’esistenza di un effetto nefasto sulla sfera privata e familiare di una persona e non semplicemente il degrado generale dell’ambiente» (§100).La Corte ha aggirato la questione preliminare rilevando che, se è vero che i rapporti e gli studi presentati a fondamento dei ricorsi mostrano l’esistenza di un nesso causale tra l’attività produttiva dell’Ilva di Taranto e la compromissione della situazione sanitaria, tale da avere conseguenze deleterie sul benessere dei ricorrenti, gli interessati devono essere individuati con riferimento alla residenza nelle zone classificate come a rischio e incluse nei siti di bonifica di interesse nazionale (SIN) con decreto del Ministero dell’Ambiente del 10 gennaio 2000: Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte. In forza di tali considerazioni, la Corte ha stralciato la posizione di diciannove ricorrenti residenti in comuni differenti da quelli indicati, accogliendo in questa misura l’eccezione del Governo e respingendola per tutti gli altri ricorrenti.Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, il pericolo che l’inquinamento di un determinato settore diventi potenzialmente pericoloso per la salute e il benessere di coloro che vi sono esposti è una mera presunzione e i ricorrenti nei cui confronti è stata dichiarata l’irricevibilità non hanno offerto elementi sufficienti a dimostrare di essere stati personalmente colpiti dalla situazione di degrado ambientale denunciata.La decisione può ritenersi coerente con il sistema della tutela dei diritti individuali in presenza di danni ambientali delineato dalla Convenzione.È inutile nascondere, però, che la peculiarità della materia assottiglia notevolmente il confine tra la violazione di un diritto individuale e il far valere un interesse generale collettivo: risulta impossibile non considerare i “riflessi erga omnes” delle pronunce in materia ambientale[24] che vanno ad incidere su delicate questioni quali la protezione delle risorse naturali[25].Di questo la Corte sembrerebbe essere pienamente consapevole: infatti nel dichiarare la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dapprima afferma che «non può che prendere atto del protrarsi di una situazione di inquinamento ambientale che mette in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella di tutta la popolazione residente nelle zone a rischio» (§171) ma soprattutto constata che non è stato rispettato «da una parte l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme».Vi è quindi una chiara ammissione del fatto che la mancanza di un adeguato sistema di protezione dagli effetti nocivi dell’inquinamento espone a rischi sul piano della salute da cui bisogna essere tutelati a prescindere dalla possibilità di dimostrare la compromissione effettiva del “benessere”. Queste affermazioni potrebbero rappresentare un tentativo di sfondamento di quel muro imposto dalla mancanza di un vero e proprio “diritto ad un ambiente sano”, la cui esistenza avrebbe permesso il superamento delle questioni di ricevibilità sollevate nel caso di specie e reso legittima, a fronte di un adeguato assolvimento di tutti gli oneri probatori, la posizione di tutti i ricorrenti.Il riconoscimento di un autonomo diritto ad un ambiente salubre permetterebbe di ricomprendere nella nozione di “vittima” tutti coloro che pur vivendo una situazione di degrado ambientale, non sono messi nelle condizioni di dimostrare la riconduzione della loro situazione all’interno delle violazioni dei diritti sostanziali positivizzati nella Convenzione.Tale ampliamento della tutela necessiterebbe, a sua volta, il tracciamento di ulteriori confini che definiscano i limiti entro i quali il diritto ad un ambiente salubre potrebbe essere legittimamente sacrificato in nome dei diritti sociali ed economici, auspicando anche un riflesso in questo senso sui meccanismi nazionali. La fissazione di punti fermi è necessaria anche al fine di arginare le possibilità di un abuso degli strumenti di tutela processuale dei diritti fondamentali.5. Le “mancanze” della sentenza Cordella: sentenza pilota e risarcimento del danno non patrimonialeIl diritto ad un ambiente salubre e il relativo tema della risarcibilità di una sua eventuale lesione hanno subìto un’evoluzione incerta e confusionaria.In Italia, tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso si è formato un duplice indirizzo.Il primo trova il proprio fondamento nel leading case in materia di diritto ambientale, costituito dalla celebre sentenza della Corte di Cassazione nel caso Cassa per il Mezzogiorno c. Langiano, Masino e Donadio, n. 5172/1979[26], con cui la Suprema Corte ha sottolineato che il diritto alla salute non rileva tanto come diritto alla vita e/o all’incolumità fisica del singolo cittadino, quanto come diritto all’ambiente salubre che trova il proprio fondamento negli articoli 2 e 32 della Costituzione, azionabile da parte di qualsiasi cittadino ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.Viceversa, il secondo indirizzo, di contrario avviso e sostenuto, in particolar modo, dalla Corte dei Conti[27], considera il danno all’ambiente quale danno erariale, pubblicistico e tutelabile esclusivamente da parte dello Stato.È emersa, pertanto, una sostanziale differenza tra danno ambientale collettivo e danno ambientale individuale[28], per quanto già la citata sentenza della Corte di Cassazione avesse ben stabilito sul tema, sancendo che «non può essere negata tutela a chiunque sia interessato in relazione a un bene giuridicamente protetto per la sola ragione che questo non appare attribuito né attribuibile a lui in m odo esclusivo. La prospettiva secondo la quale vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclusivo fra un bene (o una frazione di esso) ed un solo determinato individuo o un gruppo personificato – e quindi assimilato all’individuo – è condizionata da un’impostazione di tipo patrimoniale della giuridicità e rischia di mortificare in ragione del condizionamento l’irresistibile tendenza all’azionabilità delle pretese che è cardine della nostra Costituzione».Sul punto, purtuttavia, sorgono differenti criticità.In particolare, ci si domanda se effettivamente esista una via per la risarcibilità, individuale, della lesione al diritto ad un ambiente salubre.Difatti, anche nel caso Cordella, la Corte di Strasburgo ha sì condannato l’Italia per aver violato l’art. 8 CEDU, in quanto non ha adottato misure idonee a proteggere l’ambiente dalle emissioni dello stabilimento ex Ilva, non tutelando il benessere[29] degli abitanti dei quartieri limitrofi allo stabilimento stesso, ma non ha assegnato alcun risarcimento ai ricorrenti.Certamente, uno degli obiettivi del procedimento giudiziario instaurato è stato quello di far accertare alla Corte di Strasburgo l’esistenza di una violazione sistemica della Convenzione EDU da parte dello Stato italiano.Conseguentemente se, da un lato, la pronuncia della Corte EDU ha accertato la violazione dei diritti dei ricorrenti, dall’altro non si può non nutrire dubbi sulla scelta di non applicare la procedura della sentenza pilota[30], pur sollecitata dagli stessi ricorrenti.Tuttavia, la Corte non ha ritenuto necessario applicare la procedura della sentenza pilota[31], limitandosi a riconoscere la responsabilità dello Stato[32].Invero, è certamente positiva la scelta della Corte di Strasburgo di condannare lo Stato italiano all’adozione di tutte le misure necessarie per tutelare l’ambiente e la salute della popolazione interessata. Tale statuizione, infatti, potrebbe produrre due ordini di effetti positivi.In primo luogo, il riconoscimento della violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione fornisce un precedente per tutti i soggetti che vivano in zone degradate dal punto di vista ambientale, i quali possono azionare il proprio diritto ad un ambiente salubre, con ripercussioni dirette anche sulla giurisprudenza nazionale, tenuta ad uniformarsi all’interpretazione dei Giudici di Strasburgo.Inoltre, al fine di evitare ricorsi a catena e continue condanne da parte della Corte EDU, sarà preminente l’interesse dello Stato italiano – così come di tutti gli altri Stati sottoscrittori della Convenzione – ad adottare soluzioni rapide ed effettive in tema di protezione e tutela ambientale.A tali aspetti positivi fa, tuttavia, da contraltare la decisione, peraltro scarsamente motivata, di non riconoscere alcun risarcimento – eccezion fatta per € 5.000,00, per ciascun ricorrente, per le spese di giustizia – per i danni non patrimoniali. Invero, il collegio ha ritenuto che l’accertamento delle violazioni costituisse, di per sé, «un’equa compensazione sufficiente per il danno morale subìto»[33].La ratio alla base di tale soluzione si potrebbe rintracciare nella sottolineatura, da parte dei Giudici, che il petitum della causa non riguarda il nesso causale tra emissioni e malattia, ma l’incapacità dello Stato italiano di provvedere alla tutela della salute e dell’ambiente ed il conseguente obbligo positivo di attuare, quanto prima, il piano ambientale. [1] Sul punto, si veda Nespor, Diritto dell’ambiente e diritto allo sviluppo: le origini in L’ambiente e i nuovi diritti inserito nell’ “Aggiornamento ambiente”, Grandi opere UTET, 2014, secondo cui «parafrasando una metafora attribuita a Newton, ma risalente al filosofo francese del XII secondo Bernardo di Chartres, il diritto dell’ambiente è come un nano sulle spalle di giganti: può vedere più cose di loro e più lontane, ma non certo per l’altezza del suo corpo, ma per le varie discipline che lo sorreggono».[2] D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale” in G.U. n. 88 del 14 aprile 2006[3] Procedimento penale n. 938/2010, Corte d’Assise di Taranto – RIVA Nicola + 44, accusati di 34 capi d’accusa per reati commessi tra il 1995 e il 2013 e relativi a: 1) l’emissione di sostanze nocive per la salute e per l’ambiente che hanno comportato un grave rischio per la salute pubblica e hanno causato la morte e provocato patologie di morte persone residenti nelle aree adiacenti il sito di produzione dell’Ilva di Taranto; 2) la contaminazione delle acque, dei prodotti della terra e degli animali destinati all’alimentazione umana; 3) l’inquinamento ambientale dell’aria; 4) la diffusione di informazioni riservate da parte di funzionari del Ministero degli Affari esteri incaricati della concessione dell’AIA. Il 30 marzo del 2012, il G.I.P. di Taranto ordinò una perizia chimica ed epidemiologica al fine di valutare l’impatto delle emissioni dello stabilimento sulla salute delle persone e sull’ambiente. Dalla perizia emerse non solo che l’Ilva produceva gas e vapori pericolosi per la salute dei lavoratori e della popolazione locale, ma anche che le misure imposte per evitare la dispersione di fumi e particelle nocive non erano state rispettate e che i valori di benzopirene, di diossine e di altre sostanze pericolose per la salute non erano conformi ai requisiti previsti dalle disposizioni regionali, nazionali ed europee.[4] Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento[5] Con tale sentenza, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 D. L. n. 92/2015 recante «Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale», nonché degli artt. 1, comma II, e 21 – octies L. n. 132/2015 recante «Misure urgenti in materia fallimentare, civile, processuale civile e organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria». Le disposizioni di cui all’art. 3 D. L. n. 92/2015, concernenti misure urgenti per l’esercizio dell’attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario, erano state applicate con riferimento all’attività degli impianti Ilva (esso era uno dei c.d. Decreti salva Ilva). L’attività era proseguita con l’utilizzo dell’altoforno “Afo2”, nonostante il sequestro preventivo dello stesso altoforno, disposto ai sensi dell’art. 321, comma III bis c.p.p., nell’ambito del procedimento penale per la morte di un operaio avvenuta presso lo stabilimento siderurgico.[6] Sul punto si vedano le decisioni della Corte EDU nei casi Lediaïeva e altri c. Russia, nn. 53157/1999 e altri 3, § 90, 26 ottobre 2006, ma anche Jugheli e altri c. Georgia, n. 38342/2005, § 63, 13 luglio 2017[7] De Salvia, Ambiente e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo n. 2/1997[8] Baldassarre, voce Diritti sociali in Enciclopedia giuridica Treccani, XI, 1989; Modugno, I nuovi diritti nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, 1995[9] A riguardo si vedano: sentenza Corte EDU Kirstatos c. Grecia, sentenza Corte EDU Halton c. Regno Unito, sentenza Corte EDU Jughali c. Georgia [10] Colacino, La tutela dell’ambiente nel sistema della convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcuni elementi di giurisprudenza, in Diritto e gestione dell’ambiente n. 2/2001[11] Saccucci, La protezione dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani in Caligiuri, Cataldi, Napoletano, La tutela dei diritti umani in Europa: tra sovranità statale e ordinamenti sovranazionali, Cacucci, 2010; Pitea, Diritto internazionale e democrazia ambientale, ESI, 2013; Ruozzi, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, Jovene, 2011[12] Sentenza Corte EDU Tyrer c. Gran Bretagna[13] Zagrebelsky, chena, tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, II ed., Il Mulino, 2019; Harris, O’Boile, Warbick, Law of the European Convention on Human Rights, IV ed., Oxford, 2018; Ubertis, La tutela dei diritti dell’uomo davanti alla Corte di Strasburgo: Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, 2016[14] Grassi, Relazione introduttiva in Diritti umani e ambiente, ECP, 2000; Alpa, Il diritto soggettivo all’ambiente salubre: nuovo diritto o espediente tecnico, in AA.VV., Ambiente e diritto, 1999[15] Sentenza Cordella e altri c. Italia, § 156[16] La riconduzione dei pregiudizi derivanti dalle situazioni di contaminazione ambientale all’interno delle violazioni degli artt. 2 e 8 della Convenzione e, di conseguenza, degli artt. 6-10-11-13 è ormai quasi una prassi della Corte europea e trova la sua origine nella pronuncia degli anni ’90 Lopez Ostra c. Spagna [v.par.3][17] Il 90% dei ricorsi proposti dinanzi alla Corte di Strasburgo viene dichiarato irricevibile. Per questo motivo è stata stilata una vera e propria guida ai criteri di ammissibilità, reperibile sul sito della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che descrive i requisiti di ammissibilità di un ricorso e contenente anche la precisa definizione di vittima.[18] Vallianatos e altri c. Grecia, §§ 47 cit. in: Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, Consiglio d’Europa / Corte europea dei diritti dell’uomo, 2014, p.14[19]Monnat c. Svizzera § 30-33, GorraizLizarraga e altri c. Spagna, § 38; Stukus e altri c. Polonia, § 35; Ziętal c. Polonia, §§ 54-59, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, p. 14[20] Brumărescu c. Romania, § 50; Monnat c. Svizzera, § cit., Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.14[21] Klass e altri c. Germania; Soering c. Regno Unito, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[22] Senator Lines GmbH c. quindici Stati membri dell’Unione europea, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[23] Aksu c. Turchia, § 50; Burden c. Regno Unito, § 33, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[24] Così Zirulia, Ambiente e Diritti Umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in Diritto penale contemporaneo, fasc. 3/2019 cit., p.147[25]Zirulia, Ambiente e Diritti Umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, cit.[26] Cass. Sez. un., 06.10.1979, n. 5172, in Foro It., 1979, I, 2302[27] In particolare, si veda Corte dei Conti, 18.09.1980 n. 868, in Foro It., 1981, III, 167[28] Sul tema, Mazzola, I nuovi danni, CEDAM, 2008; Fiale, Il risarcimento del danno ambientale e il regime della responsabilità, in giuristiambiente.it[29] «L’inquinamento ha avuto senza dubbio conseguenze nefaste sul benessere dei ricorrenti interessati», § 106.Ed ancora «La Corte rammenta che dei danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata», § 156[30] La procedura di sentenza pilota è la tecnica decisoria che consente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di accertare non solo l’inadempimento nel caso concreto, ma anche il sottostante problema strutturale e, quindi, l’esistenza, nell’ordinamento dello Stato responsabile, di una legislazione o di una prassi amministrativa o giudiziaria che causino violazione sistemica e continuativa della Convenzione EDU.[31]Caso Cordella e altri c. Italia, op. cit., § 177 - 179[32] In merito, Luzzi, Il “caso Ilva” nel dialogo tra le Corti (osservazioni a margine della sentenza Cordella e altri c. Italia della Corte EDU) in Consulta Online, II, 2019[33]Zirulia, Ambiente e diritti umani nella Sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, cit., p. 136.
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27 gen. 2022 • tempo di lettura 4 minuti
Quando si vende un’immobile o lo si vuole affittare viene richiesto al titolare di produrre un attestato di prestazione energetica, cd. APE. Cos’è? a quali finalità risponde? Le ragioni sottese sono più attuali di quanto si possa pensare!1. Cos'è l’APE - attestato di prestazione energetica2. Perché va prodotto l’attestato di prestazione energetica3. Chi lo rilascia e quanto dura l’attestato di prestazione energetica1 - Cos'è l’APE - attestato di prestazione energeticaL’attestato di prestazione energetica (A.P.E.), originariamente chiamato “attestato di certificazione energetica” (A.C.E.), è un documento redatto da un tecnico abilitato nel quale vengono descritte le caratteristiche energetiche di un edificio.L’attestato attribuisce all’edificio una determinata “classe energetica” (es. classe “A”) in base al consumo di energia speso per la climatizzazione invernale ed estiva, la ventilazione, la preparazione dell’acqua calda per usi igienici e così via. Pertanto, l’A.P.E. non può che essere redatto per i soli beni che garantiscono un “confort abitativo”, ad esempio appartamenti o villini ad uso abitativo e non per fondi, ruderi, box o cantine. 2 - Perché va prodotto l’attestato di prestazione energeticaIn un contesto di rinnovata consapevolezza sui temi del cambiamento climatico e dell’inquinamento ambientale, l’attestazione energetica svolge nella contrattazione immobiliare un suo, benché piccolo, ruolo.La certificazione energetica è stata introdotta nel nostro paese con il D.lgs. n. 192/2005, in attuazione della direttiva n. 2002/91/CE - nota anche come Direttiva EPBD "Energy Performance of Buildings Directive" - tra le prime misure comunitarie volte a migliorare l’efficienza energetica nel settore edilizio, diminuire i consumi energetici comunitari e ridurre le emissioni di CO2.In ottemperanza alla direttiva comunitaria predetta e a quelle che si sono susseguite fino ad oggi, il legislatore individua i criteri e le condizioni volte a migliorare le prestazioni energetiche degli edifici, che vengono accertate al rilascio dell’APE: gli esperti qualificati e indipendenti “attestano la prestazione energetica di un edificio attraverso l'utilizzo di specifici descrittori e forniscono raccomandazioni per il miglioramento dell'efficienza energetica”. Nella mente del legislatore comunitario, quindi, l’attestazione avrebbe lo scopo di fornire al cittadino uno strumento che gli consenta di valutare e confrontare più edifici, e scegliere, in via informata e consapevole, quello con il migliore rendimento energetico e bilancio costi/benefici.Ecco perché l’art. 6 co. 1, 2 e 3, del Dlgs. 192/2005, come modificato nel 2013, stabilisce:- che gli edifici di nuova costruzione e quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti devono essere dotati di attestato di prestazione energetica, prima del rilascio del certificato di agibilità; - che in caso di trasferimento di immobili a titolo gratuito o vendita o locazione tale attestato deve essere prodotto e reso disponibile alla controparte; - che in caso di trasferimenti a titolo oneroso (tra i quali la vendita e la locazione), oltre alla dotazione, l’attestato deve essere allegato all’atto negoziale, accompagnato dalla dichiarazione resa dall’acquirente o conduttore di aver ricevuto tutte le informazioni e la documentazione in ordine alla prestazione energetica dell’edificio.In caso di mancata allegazione o dichiarazione è prevista una sanzione pecuniaria da euro 3.000 ad euro 18.000. Per i contratti di locazione superiori ai tre anni è prevista una cornice inferiore da euro 1.000 a euro 4.000 (ridotta della metà se la durata del contratto è inferiore ai 3 anni). 3 - Chi lo rilascia e quanto dura l’ attestato di prestazione energeticaSe hai bisogno di un attestato di prestazione energetica puoi richiederlo, ad esempio, ad ingegneri, architetti o periti industriali nei settori edilizia, elettronica, meccanica, termotecnica, a geometri, ma verifica che siano tecnici abilitati.Sono “tecnici abilitati” i soggetti che sono in possesso di uno dei titoli di studio elencati al comma 3 dell’art. 2 del D.P.R. 75/2013, che sono iscritti ai relativi ordini e collegi professionali, ove esistenti, ed abilitati all'esercizio della professione relativa alla progettazione di edifici ed impianti, asserviti agli edifici stessi, nell'ambito delle competenze ad essi attribuite dalla legislazione vigente. Va segnalato, inoltre, che molte Regioni hanno provveduto a dettare specifiche norme in ordine ai requisiti dei soggetti certificatori ed a istituire appositi albi o registri di tecnici accreditati.N.B. che il certificato ha una durata di 10 anni dal rilascio!Recentemente si parla di “APE convenzionale”, null’altro che l’attestato di cui abbiamo trattato, richiesto al fine di verificare il “salto di classe energetica” necessario per la fruizione delle agevolazioni del Superbonus 110% (se sei interessato al tema leggi: Il Superbonus 110%: guida pratica). Editor: dott.ssa Flavia Carrubba
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Egregio Avvocato
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