Permessi per familiari portatori di handicap e congedo straordinario

Avv. Elisa Calviello

Avv. Elisa Calviello

Pubblicato il 17 gen. 2022 · tempo di lettura 4 minuti
Permessi per familiari portatori di handicap e congedo straordinario | Egregio Avvocato
I lavoratori dipendenti possono usufruire di speciali permessi retribuiti o congedi per la cura e l’assistenza dei loro familiari portatori di handicap in presenza di determinate condizioni.
La tutela riguarda i familiari di coloro i quali presentano una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva grave, in grado da ridurre l’autonomia personale e rendendo necessaria un’assistenza permanente continuativa e globale.
L’accertamento dello stato di gravità della minorazione viene effettuato da un’apposita commissione Asl.


  1. Chi può beneficiare e quali sono le condizioni per beneficiare dei permessi retribuiti?
  2. È possibile il cumulo dei permessi?
  3. Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?
  4. Cos’è il congedo straordinario?


1 – Chi può beneficiare dei permessi retribuiti?


Ai sensi dell’articolo 33 della L. 104/92, i genitori naturali, adottivi ed affidatari e determinati familiari (partenti ed affini entro il 2° grado) di portatori di handicap, nel momento in cui sono lavoratori dipendenti, possono beneficiare dei c.d. permessi retribuiti. 


Generalmente, tali permessi vengono riconosciuti a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno presso strutture ospedaliere o simili pubbliche o private che assicurino assistenza sanitaria continuativa.

Tuttavia, però, i permessi vengono concessi anche in caso di ricovero a tempo pieno: a) del disabile quando sono i sanitari stessi a certificare il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare; b) del disabile in stato vegetativo persistente.

I permessi vengono concessi quando il disabile deve recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite specialistiche e/o terapie certificate. In questo caso si interrompe il tempo pieno del ricovero e c’è l’affidamento del disabile all’assistenza del familiare.

Sarà onere del lavoratore, per ogni mese in cui fruisce dei permessi, di produrre sia la documentazione che dimostri l’avvenuto accesso presso la struttura esterna specializzata, sia la dichiarazione della struttura ospitante che attesti che la persona disabile è stata affidata al familiare per tutta la durata della sua assenza dal lavoro. 


2 - È possibile il cumulo dei permessi?


Generalmente il permesso può essere utilizzato per l’assistenza di una sola persona disabile, tuttavia il lavoratore ha diritto ad assistere più persone disabili e quindi di cumulare i relativi permessi a condizione che si tratti del coniuge o affine entro il primo grado.

Il cumolo è consentito quando la presenza del lavoratore è disgiuntamente necessaria per l’assistenza di ciascun disabile; è pertanto escluso quando altre persone possono fornire l’assistenza o quando lo stesso lavoratore può, per la durata della disabilità, sopperire congiuntamente alle necessità assistenziali nel corso dello stesso periodo. 

L’assistenza si considera disgiunta quando la prestazione nei confronti di due o più soggetti disabili può essere assicurata solo con modalità e in tempi diversi.

Il richiedente deve presentare tante domande quanti sono i soggetti per i quali chiede i permessi a cui vanno allegate le idonee certificazioni relative alla particolare natura della disabilità.  


3 - Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?


Il trattamento economico a favore delle persone beneficiarie è riconosciuto dall’Inps mediante il meccanismo dell’anticipazione del datore di lavoro, che provvede poi al recupero mediante il flusso UniEmens.

Solo nei confronti di alcune particolari categorie di lavoratori, come ad esempio gli operatori agricoli, lavoratori stagionali, domestici, ed in particolari ipotesi di mancata anticipazione da parte del datore di lavoro l’Inps provvede al pagamento diretto. 

Per poter usufruire dei permessi è necessario presentare domanda all’Inps in modalità esclusivamente telematica allegando i documenti che provano la disabilità.

I familiari decadono dal diritto di fruire dei permessi se il datore di lavoro o l’Inps accertano l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per il godimento degli stessi.


4 - Cos’è il congedo straordinario?


L’articolo 42 del D. Lgs 151/2001 prevede il diritto per i lavoratori dipendenti familiari di persona gravemente disabile di usufruire del c.d. congedo straordinario.

Il congedo spetta a condizione che la persona assistita non sia ricoverata a tempo pieno presso istituti specializzati secondo il seguente ordine di priorità: 1) coniuge o parte dell’unione civile; 2) genitori (naturali, adottivi o affidatari); 3) figli; 4) fratelli o sorelle, 5) parenti o affini entro il 3° grado.


Se i due genitori sono lavoratori dipendenti il congedo spetta in via alternativa alla madre o al padre, se fruito alternativamente da entrambi i genitori, essi non possono contemporaneamente fruire di altri benefici previsti dalla legge per i genitori dei soggetti disabili.


Il congedo ha la durata massima complessiva di due anni nell’arco dell’intera vita lavorativa del richiedente per ciascuna persona portatrice di handicap.

I periodi di congedo straordinario rientrano nel limite massimo globale spettante a ciascun lavoratore per gravi e documentati motivi familiari.


Per i genitori affidatari il congedo non può durare oltre la fine del periodo di affidamento.

Durante il periodo di congedo il richiedente ha diritto a un’indennità economica a carico dell’Inps che viene anticipata dal datore di lavoro e recuperata mediante il flusso UniEmens, fatti salvi i casi di pagamento diretto da parte dell’Inps.

L’indennità è pari alla retribuzione percepita nell’ultimo mese di lavoro che precede il congedo e durante il congedo il lavoratore ha diritto a richiedere l’accredito della contribuzione figurativa.


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Egregio Avvocato

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8 set. 2024 tempo di lettura 13 minuti

Le ultime Sentenze e Ordinanze della Cassazione hanno visto mutare il termine "Mobbing" in Stress da conflittualità lavorativa. Difatti, gli annullamenti dei ricorsi per mobbing della Cassazione sezione lavoro della Suprema Corte, con riferimento allo specifico tema del mobbing, sono ben sei ordinanze (19 gennaio 2024, n. 2084; 31 gennaio 2024, n. 2870; 12 febbraio 2024, n. 3791;12 febbraio 2024, n. 3822; 12 febbraio 2024, n. 3856;16 febbraio 2024, n. 4279) pronunciate quasi tutte dallo stesso collegio; ordinanze che, nell’arco di poco meno di un mese, hanno consolidato -portandolo a maturazione- un orientamento che incide in modo importante sulle vessazioni lavorative e, più in generale, sulla conflittualità all’interno dei luoghi di lavoro. Il denominatore è comune a tutte le pronunce: ricorrono in Cassazione lavoratrici e lavoratori, lamentando il mancato accoglimento in appello delle domande risarcitorie per le vessazioni lavorative (recte mobbing) subite sul posto di lavoro ad opera dei rispettivi datori. Le doglianze dei ricorrenti scontano già in partenza un vizio di fondo, dovuto al linguaggio “monocorde” di chi ne ha veicolato le ragioni: è il lessico del “panmobbismo”, logoro modello interpretativo che tende a costringere qualsiasi disfunzione lavorativa (fosse anche una singola sanzione disciplinare o un’isolata aggressione) nella “camicia di forza” del mobbing che, proprio in ragione di ciò, ha da tempo perso ogni credibilità nelle aule dei tribunali italiani (eloquenti a tal proposito sono le statistiche pubblicate in un recente studio promosso da OIL, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, p. 7 e ss., reperibile sul seguente link Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana (ilo.org). La risposta degli Ermellini è corale: lo scrutinio del giudice di merito non può limitarsi soltanto al mancato accertamento dell’elemento oggettivo o soggettivo alla base dell’invocato mobbing (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822), giungendo in questo modo a un tanto automatico quanto comodo rigetto della domanda, che rientra peraltro nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Al contrario, proprio alla luce del ben più ampio perimetro delineato dall’art. 2087 c.c. (che mira a proteggere ogni pregiudizio alla salute e alla personalità morale dei lavoratori e delle lavoratrici, cfr. Cass. 16 febbraio 2023, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3856,cit.), il Giudice di merito ha l’obbligo di “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 4.4; Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 4.2; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.2). Il mutamento di prospettiva è netto, essendo rivolto com’è all’analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali attraverso la “norma di chiusura” dell’art. 2087 c.c., che consente di tradurre la responsabilità del datore di lavoro per le condotte lesive della personalità morale del prestatore anche nel mantenimento di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 6 e par. 7; di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia” parla Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 10).  Siamo dinanzi ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, teso “ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo “stressogeno” e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (cfr. Corte dei Conti Trentino-Alto Adige, sez. giurisdiz., 16 gennaio 2024, n. 1). La formula tralatizia, ormai quasi “ossificata” in molteplici pronunce di legittimità (tra cui le ordinanze in commento) statuisce come “illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c. (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692).  Il che si traduce, con riguardo allo specifico ambito della conflittualità lavorativa, nel rilievo dell’ “inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870, cit., par. 13; conf. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, con nota di ROSIELLO, TAMBASCO, Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in ISL, 5/2023, p. 247 e ss.). Il risultato finale è un diretto corollario dei principi enunciati, che impatta anche sul riparto degli oneri probatori, ormai svincolato dalla prova -quasi penalistica- dell’intento persecutorio o della specifica volontà di emarginazione: “in caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest’ultimo grava l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 5; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 4; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 5).   La conflittualità lavorativa nel nuovo orientamento di legittimità Il novum delle ordinanze in esame, che porta ad affermare come le stesse non si limitino a far ripetizione di principi ormai invalsi nella giurisprudenza di legittimità, ma al contrario contribuiscano ad una significativa evoluzione del diritto vivente, è rappresentato proprio dal tema della conflittualità lavorativa. C’è da premettere che fino ad oggi, con l’eccezione di alcune isolate pronunce di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, in MAZZAMUTO, Mobbing, Milano, 2004, p. 180 e ss.), la giurisprudenza dominante ha sempre mantenuto ferma l’ontologica distinzione tra conflitto e vessazione, categorie che fanno riferimento, rispettivamente, alla natura bilaterale o unilaterale dello scontro sviluppatosi nell’ambiente di lavoro; se nel conflitto abbiamo infatti due “contendenti”, nella vessazione invece i protagonisti sono un aggressore e una vittima (cfr. Corte d’Appello di Bologna, sez. lav., 28 aprile 2010, n. 107).  Questa distinzione ha portato la giurisprudenza di merito e di legittimità, in modo unanime, a sostenere che non è configurabile la fattispecie persecutoria -e quindi la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.- nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi, poiché gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere l’intento persecutorio, elemento fondamentale per integrare la fattispecie mobbizzante (ex multis, Cass. 3 giugno 2022, n. 17974; Cass., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., 11 dicembre 2019, n. 32381; nel merito, cfr. Trib. Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, est. Sanlorenzo). In termini più semplici, se non c’è mobbing (quindi in assenza di una dinamica persecutoria), la conflittualità lavorativa, anche se colpevolmente ignorata dal datore di lavoro e nonostante possa essere fonte di danno alla salute, non rileva minimamente ai fini della responsabilità ex art. 2087 c.c.  Questo almeno fino alle ordinanze n. 3791 del 12 febbraio 2024 e n. 4279 del 16 febbraio 2024, con cui la Cassazione segna “un punto di svolta”, ponendo al centro del proprio scrutinio i fattori organizzativi e ambientali, ed ascrivendo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. la condotta del datore di lavoro che non abbia prevenuto né rimosso un “clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279,cit, par. 4) e un “contesto di conflittualità all’interno dell’istituto” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.3).  Si tratta di un autentico “cambio di paradigma”, che consente di giudicare con più equità situazioni non esauribili nella semplicistica alternativa vessazione/conflittualità. Se infatti poniamo mente alla realtà concreta, il datore di lavoro che ignori colposamente l’esistenza di rapporti conflittuali nei luoghi di lavoro fino al punto di rendere l’ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e fonte di concreti pregiudizi psico-fisici a danno dei dipendenti, è ugualmente censurabile rispetto al caso in cui realizzi scientemente delle vessazioni.  Proprio su questi presupposti, una risalente e illuminata pronuncia di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, cit.) aveva già valorizzato l’ambiente di lavoro caratterizzato da continue liti e da scontri reciproci (nel caso di specie, uno scontro tra primario e aiuto primario, caratterizzato da “modi di intendere la propria attività in termini di assoluta incompatibilità”), affermando che il datore di lavoro ha il dovere di intervenire, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di mobbing o molestie o discriminazioni, facendo riferimento agli obblighi prescritti dall’art. 2087 c.c., dall’art. 41 comma 2 Cost. (l’iniziativa economica privata non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana) e dall’art. 97 Cost. (l’organizzazione dei pubblici uffici deve assicurare il “buon andamento”).  Le recentissime ordinanze della Corte Suprema in commento sono andate addirittura oltre il principio affermato dalla citata sentenza del Tribunale di Forlì, dando rilievo al dovere del datore di lavoro, enucleabile dalla norma di chiusura dell’art. 2087 c.c., non solo di rimuovere ma anche di prevenire la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ambiente lavorativo (Cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.), nell’alveo di quel filone giurisprudenziale che da tempo afferma l’obbligo datoriale di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative (cfr. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684).  Se anche la conflittualità può quindi generare responsabilità ex art. 2087 c.c. soprattutto nei casi in cui sia rilevabile la colpevole inerzia datoriale, essa si differenzia tuttavia dalla persecuzione vera e propria non solo sul piano della fattispecie, ma anche e soprattutto dal punto di vista delle conseguenze risarcitorie.  Su questo piano, infatti, è di particolare importanza il principio enunciato proprio da una delle pronunce in esame che, nel definire le coordinate del potere equitativo del giudice nella liquidazione del compendio risarcitorio, ha sottolineato come il giudice debba comunque tenere in debita considerazione il fatto che “la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento” (Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 9; conf. Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101, cit.).  Lo spettro della quantificazione risarcitoria dovrà muoversi, pertanto, tra i due poli degli ii) illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (quale ad esempio la colpevole inerzia nel caso di tolleranza della generica conflittualità lavorativa) e delle i) condotte persecutorie connotate da sistematicità ed intenzionalità (mobbing, straining, stalking occupazionale etc.), che segneranno rispettivamente il limite minimo e quello massimo del risarcimento.  Conclusioni Tutte le ordinanze in commento si pongono nell’ambito delle discrepanze tra organizzazione e rapporti interpersonali sul luogo di lavoro, formula che fa riferimento ad una delle tre articolazioni in cui si sostanzia la nozione “polifunzionale” di stress lavorativo (cfr. ROSIELLO, TAMBASCO, Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all’orizzonte, in Il Giuslavorista, 8 novembre 2022). Più precisamente, il fil rouge che lega le pronunce in esame è l’adozione di una prospettiva sistemica e obiettiva che, nell’ampliare il raggio operativo dell’art. 2087 c.c., consente di dare rilievo e conseguentemente di riconoscere adeguata tutela rispetto agli ambienti lavorativi nocivi e stressogeni.  Come abbiamo già accennato, questo mutamento di prospettiva comporta un autentico “cambio di paradigma” dalle rilevanti conseguenze pratiche, i cui riflessi sono rappresentati dai recenti e numerosi annullamenti disposti dalla Suprema Corte.  Soprattutto sul piano dell’onere probatorio, infatti, la declinazione “oggettiva” dello scrutinio giudiziale, incentrato sulla violazione datoriale dei doveri atipici sottesi alla fattispecie dell’art. 2087 c.c., comporta un recupero dell’originario riparto previsto dalla responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., in cui alla prova della nocività dell’ambiente di lavoro, del danno e del nesso causale a carico del lavoratore fa da contrappeso l’onere datoriale di avere adottato “tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. 18 agosto 2023, n. 24804; conf., ex multis, Cass. 28 novembre 2022, n. 34968; Cass. 10 novembre 2022, n. 33239; Cass. 25 ottobre 2021, n.29909).  Siamo di fronte alla responsabilità colposa del datore di lavoro, lontana “anni luce” dalla torsione soggettivistica che aveva assunto l’invalsa interpretazione dell’art. 2087 c.c. in materia di condotte persecutorie, giunta a richiedere addirittura la prova di un non meglio precisato dolo specifico (cfr. Trib. Palermo, 14 ottobre 2021, n. 3800; Trib. Venezia, 3 novembre 2020, n. 310) dal sapore squisitamente penalistico.      In conclusione, la centralità dello stress lavorativo come fattore di rischio, già codificata dal legislatore attraverso l’obbligo di preventiva valutazione dei rischi delineato dall’art. 28 primo comma del d.lgs. 81/2008, comporta oggi sul piano operativo un notevole ampliamento dei doveri di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. Ampliamento che la Suprema Corte suggella con il riconoscimento della responsabilità contrattuale per la mancata prevenzione e rimozione della conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, in violazione dell’ormai cogente obbligo datoriale di intervenire per garantire ed eventualmente ripristinare la serenità necessaria al corretto espletamento delle prestazioni lavorative.     Ultime Cassazioni: Cass., ordinanza 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass., ordinanza 31 gen- naio 2024, n. 2870; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., ordinanza 12 febbraio 2022, n. 3822; Cass., ordinanza 16 febbraio 2024, n. 4279PMArticoliDiritto penaleDiritto dell'esecuzione penaleCorte Suprema di Cassazione - Sezione Prima Penale - Sentenza n. 9432 del 5 marzo 2024Avv. Prof. Dott. 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Licenziamento per g.m.o.: è ancora possibile la tutela indennitaria?

12 apr. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 59/2021, in caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del licenziamento, il giudice può ancora scegliere tra tutela indennitaria e reintegrazione in servizio?1.    Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenziale2.    Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorio3.    La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/20211 - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenzialeIl licenziamento per giustificato motivo oggettivo trova la sua base normativa nell’art. 3 della Legge n. 604/1966 alla stregua del quale il datore di lavoro può procedere al licenziamento del dipendente per “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta, pertanto, di ragioni di carattere oggettivo che prescindono da inadempimenti del lavoratore di obblighi contrattuali, tant’è che si è spesso soliti qualificare tale licenziamento come “economico”, in quanto strettamente connesso a ragioni di economicità del tutto scollegate da fattori inerenti la persona del lavoratore. Le ipotesi più frequenti di licenziamento per ragioni oggettive sono rappresentate dalla cessazione e/o dalla riduzione dell’attività aziendale. Peraltro, la riduzione dell’attività aziendale può anche derivare dalla decisione imprenditoriale, per ottenere una gestione più economica e conveniente dell’impresa, di affidare a terzi parte delle attività in precedenza svolte all’interno dell’impresa,Ancora, secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro è legittimato a procedere al licenziamento per ragioni oggettive nelle ipotesi di riorganizzazione ovvero di ristrutturazione dell’impresa nonché nei casi in cui decida di sopprimere la posizione lavorativa occupata dal dipendente. In tal caso, non occorre, ai fini della legittimità del licenziamento, che vengano soppresse tutte le mansioni affidate al dipendente essendo sufficiente la mera ridistribuzione di tali mansioni all’interno dell’organico aziendale.Negli ultimi anni la giurisprudenza è poi giunta a ritenere pienamente legittimo il licenziamento intimato per conseguire: “la migliore efficienza gestionale o anche l'esigenza d'incremento del profitto che si traducano in un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo da attuare mediante soppressione di una posizione lavorativa possono integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. (Cass. 25201/2016) chiarendo, quindi, che ai fini della legittimità del recesso, il datore di lavoro non è tenuto a dimostrare condizioni economiche sfavorevoli, giacché la norma di riferimento (art. 3 Legge n. 604/1966) non lo prevede.E’ bene precisare che le ragioni poste alla base di questo tipo di recesso, non sono sindacabili nel merito dall’autorità giudiziaria, in quanto espressione del principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., pertanto, il giudice potrà limitarsi a verificare la sussistenza delle ragioni che hanno condotto al licenziamento del dipendente, il cui onere della prova grava sul datore di lavoro, quest’ultimo dovrà dimostrare, oltre all’effettiva esistenza delle ragioni poste alla base del licenziamento, anche di non aver potuto proficuamente ricollocare il dipendente all’interno dell’organico aziendale (cd. “obbligo di repêchage”).2 - Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorioPrima dell’avvento della Legge n. 92/2012 (cd. “Riforma Fornero”), secondo l’art. 18 della Legge n. 300/1970 (cd. Statuto dei Lavoratori) la mancata dimostrazione delle ragioni poste alla base del recesso ovvero la loro insussistenza conduceva il giudice del lavoro a dichiarare illegittimo il licenziamento e ad ordinare la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato. Tuttavia, l’apparato sanzionatorio introdotto dal noto art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato profondamente modificato a seguito delle novelle introdotte dalla citata Legge n. 92/2012, riforma che ha inciso su tutte le sanzioni previste per le diverse tipologie di licenziamento individuale e collettivo. Per quanto concerne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il novellato comma VII dell’art. 18, applicabile per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in data anteriore al 7 marzo 2015 - valendo per gli assunti dopo tale data, il D.lgs. 23/2015 - nonché ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditore che rispettano il requisito dimensionale di cui al VIII comma, art. 18), prevede che nelle ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nonché nelle altre ipotesi in cui dovesse accertare che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, possa disporre la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato ovvero dichiarare risolto e condannare il datore di lavoro a pagare una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nella cui determinazione terrà conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma dell’art. 18 (vale a dire, il numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo), delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all’art. 7 Legge n. 604/1966 e successive modificazioni.3 - La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/2021Con la recentissima pronuncia n. 59/2021, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 18, comma VII, Legge n. 300/1970, laddove la disposizione consente al giudice di optare tra la reintegrazione in servizio ovvero, in luogo della tutela reintegratoria, di dichiarare definitivamente risolto il rapporto di lavoro e di condannare il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità. Ebbene, secondo la Corte Costituzionale la norma in questione è viziata di incostituzionalità nella parte in cui, nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, conceda al giudice di optare tra reintegrazione e tutela indennitaria, scelta che, al contrario, non è prevista per in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento intimato per giusta causa (e, quindi, per ragioni soggettive) . In questo caso, infatti, il giudice è sempre obbligato a disporre la reintegrazione in servizio. In particolare, secondo la Corte, una simile differenziazione di tutele si pone in contrasto con la Costituzione dal momento che: “in un sistema che per scelta consapevole del Legislatore attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria del lavoratore, si rivela disarmonico e lesivo del principio di uguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza addotta e dalla presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto”.Pertanto, alla luce della recente pronuncia della Corte Costituzionale, il giudice, in ipotesi di manifesta insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del recesso datoriale, non potrà più scegliere tra tutela indennitaria e reintegrazione dovendo, quindi, optare per la prima tutela. Editor: Avv. Francesca Retus

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Riders: lavoratori autonomi o subordinati?

21 dic. 2020 tempo di lettura 3 minuti

Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti.  Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?La recente sentenza del Tribunale di PalermoLe tutele: obiettivo raggiunto?1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders. 2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 3 - La recente sentenza del Tribunale di PalermoSe il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.   Editor: dott. Giovanni Fabris 

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