Art. 649 cp: punibilità dei reati contro il patrimonio commessi a danno dei congiunti

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Pubblicato il 22 apr. 2021 · tempo di lettura 7 minuti

Art. 649 cp: punibilità dei reati contro il patrimonio commessi a danno dei congiunti | Egregio Avvocato
Quando un reato non violento contro il patrimonio è commesso ai danni di un congiunto, il legislatore esclude la punibilità e quindi l’irrogazione della sanzione penale ritenendo prevalente, sull’istanza di punizione dello Stato, il sentimento familiare.
L’art. 649 co. 1 c.p. prevede la non punibilità di alcuni reati contro il patrimonio quando siano commessi in danno del coniuge non legalmente separato, della parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso, di un ascendente o discendente, di un affine in linea retta, dell’adottante o dell’adottato o, infine, di un fratello o di una sorella che siano conviventi con l’autore del fatto.


  1. Art. 649 c.p.: profili generali
  2. La causa di non punibilità di cui all’art. 649 co. 1 c.p.
  3. La procedibilità a querela prevista dall’art. 649 co. 2 c.p.
  4. Disciplina 


1 - Art. 649 c.p.: profili generali


L’ordinamento penale conosce delle ipotesi di c.d. “reati senza pena”: si tratta di situazioni in cui il legislatore – a fronte di un fatto integrante reato perché tipico, antigiuridico e colpevole – compie un bilanciamento di valori in forza del quale la tutela penalistica del bene giuridico protetto soccombe in favore di valori di estrema rilevanza nell’ordinamento. 

Si tratta delle c.d. “cause di esclusione della punibilità in senso stretto” o “esimenti”, che rientrano, insieme alle cause di giustificazione e alle scusanti, nella più ampia categoria delle “cause di esclusione della pena” di cui all’art. 59 c.p.

Fra le cause di esclusione della punibilità in senso stretto o esimenti rientra l’art. 649 c.p., rubricato “Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti”. La norma prevede due diverse previsioni di favore nei confronti dell’autore di alcuni delitti contro il patrimonio, a seconda dell’intensità del rapporto familiare: la forma più intensa (co. 1) prevede la non punibilità, mentre quella meno intensa (co. 2) introduce il regime di procedibilità a querela della persona offesa. 

L’art. 649 c.p. opera, in particolare, quando è commesso un delitto contro il patrimonio non caratterizzato da violenza: a titolo esemplificativo si pensi al furto, al danneggiamento, alla truffa, all’appropriazione indebita

Il fondamento di questa norma risiede in un bilanciamento di interessi che viene compiuto a monte dal legislatore: sull’istanza di punizione dello Stato prevale il sentimento familiare, poiché l’irrogazione della pena andrebbe a pregiudicare l’interesse della famiglia, ritenuto prevalente rispetto all’interesse patrimoniale della persona offesa. 

Questa ratio di tutela dei rapporti familiari si giustifica fin tanto che venga cagionata un’offesa alla sola sfera patrimoniale della persona offesa. Di conseguenza, tornano ad operare sia la punibilità sia la procedibilità d’ufficio in presenza di fatti che hanno un contenuto offensivo che va oltre la sfera patrimoniale: l’art. 649 co. 3 c.p., infatti, prevede espressamente la non applicabilità delle disposizioni dei commi 1 e 2 quando siano commessi i reati di rapina (art. 628 c.p.), estorsione (art. 629 c.p.) e di sequestro a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) nonché tutti gli altri delitti contro il patrimonio commessi con violenza alle persone. 

L’interesse dell’ordinamento alla stabilità del nucleo familiare retrocede, infatti, di fronte alla lesione di interessi personali, ritenuti preminenti.


2 - La causa di non punibilità di cui all’art. 649 co. 1 c.p.


La forma più intensa di favor prevista dal legislatore a tutela della famiglia è prevista dall’art. 649 co. 1 c.p., secondo il quale non è punibile chi ha commesso il delitto contro il patrimonio in danno:

1) del coniuge non legalmente separato;

1-bis) della parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso;

2) di un ascendente (genitori, nonni, bisnonni) o di un discendente (figli, nipoti) o di un affine in linea retta (suoceri), dell’adottante o dell’adottato;

3) di un fratello o sorella conviventi.

L’autore del delitto contro il patrimonio commesso senza violenza contro i soggetti appena indicati sarà assolto, ai sensi dell’art. 530 co. 1 c.p.p., con la formula “perchè il reato è stato commesso da una persona non punibile”. Ciò significa che il giudice riconosce che l’imputato ha commesso un fatto penalmente illecito, ma lo dichiara esente da pena: si tratta, in ogni caso, di una formula sfavorevole, perché afferma che un reato è stato commesso. Rimane ferma, come vedremo a breve, la possibilità per la persona offesa di ottenere il risarcimento del danno.


3 - La procedibilità a querela prevista dall’art. 649 co. 2 c.p.


La seconda forma di favor, meno intensa, è prevista dall’art. 649 co. 2 c.p., che prevede la procedibilità a querela quando i delitti contro il patrimonio a sfondo non violento siano commessi in danno:

1) del coniuge legalmente separato;

2) della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui sia stata manifestata la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile e non sia intervenuto lo scioglimento della stessa;

3) del fratello o sorella che non convivano con l’autore del fatto;

4) dello zio o nipote o affine in secondo grado conviventi con l’autore del fatto.

In questo caso, considerata l’assente o, almeno, meno intensa confusione di sostanze e di beni fra i soggetti coinvolti, il legislatore lascia alla persona offesa la facoltà di scegliere se innescare il processo penale, introducendo un’ipotesi di procedibilità a querela: ciò significa che il processo penale prenderà avvio solo se la persona offesa presenterà querela nel termine di 3 mesi dalla conoscenza del fatto. In questo caso, qualora venga riconosciuta la responsabilità penale del congiunto-autore del fatto, la punibilità non sarà esclusa ma fonderà l’eventuale sentenza di condanna e la conseguente irrogazione della pena, detentiva e/o pecuniaria nonché il risarcimento del danno.


4 - Disciplina


Come si è anticipato, l’istituto disciplinato dall’art. 649 co. 1 c.p. rientra nella categoria dalle cause di esclusione della punibilità in senso stretto o esimenti. 

Il fondamento di questo istituto, che risiede nella tutela del sentimento familiare, ha delle precise conseguenze in punto di disciplina della causa di non punibilità.

In primo luogo, l’esimente fa venire meno esclusivamente la possibilità di irrogare la sanzione in relazione a un fatto, che è comunque accertato come reato in tutti i suoi elementi costitutivi: rimane, quindi, impregiudicata la possibilità per la persona offesa di agire in giudizio nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del danno

Inoltre, l’art. 649 c.p., è una norma eccezionale, per il fatto stesso di escludere la pena in presenza di un fatto tipico antigiuridico e colpevole. Di conseguenza, non può essere applicata in via analogica: ciò significa che trova applicazione solo nei casi espressamente previsti e alle condizioni previste dalla legge. Questa caratteristica è stata utilizzata, ad esempio, per negare l’applicabilità dell’art. 649 c.p. ai conviventi more uxorio (da ultimo, Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 37873/2019): in assenza di una esplicita previsione di legge, la convivenza di fatto non è idonea a fondare l’esclusione della punibilità né la procedibilità a querela.

In terzo luogo, le cause di non punibilità in senso stretto rilevano oggettivamente, ai sensi dell’art. 59 co. 1 c.p., nel senso che operano anche se non conosciute dall’autore del fatto. Come si è detto, il fondamento delle esimenti è l’opportunità di non irrogare la sanzione in presenza di determinate situazioni di fatto: ciò che rileva è il fatto che sussista quella circostanza, cioè che il bene sia del familiare, anche se l’autore del fatto lo ignora. L’ignoranza, in questo caso, non fa venire meno la valutazione di inopportunità della pena, perché, a prescindere dalla conoscenza dell’autore del fatto, l’interesse familiare viene comunque leso.


Viceversa, la punibilità torna ad operare se l’autore del fatto ritiene per errore che il bene sia di un congiunto. Generalmente, ai sensi dell’art. 59 c.p., è assegnata rilevanza al “putativo”, cioè le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’autore del fatto, che le ritenga, erroneamente, esistenti. Tuttavia, poiché alla base delle cause di non punibilità in senso stretto vi è una valutazione di inopportunità della pena legata alla oggettiva esistenza di una determinata situazione, è evidente che non si può applicare l’art. 59 laddove dà rilevanza all’errore: la circostanza deve esistere oggettivamente, perché se il bene non è del familiare non vi è l’esigenza di tutela dell’interesse familiare che è alla base del favor di cui all’art. 649 c.p. 


Infine, dal momento che la causa di non punibilità dipende da un rapporto personale tra l’autore del fatto e la vittima, non si estende ai concorrenti nel reato. Ciò significa che se il congiunto commette il reato insieme ad altre persone che non hanno nulla a che fare con il suo nucleo familiare, l’esimente opera solo a favore del congiunto: ad es. se gli autori del furto sono il fratello e un amico della persona offesa, solo il fratello potrà andare esente da pena, perché con riferimento all’amico non sussiste l’esigenza di salvaguardare l’interesse familiare.


Editor: dott.ssa Elena Pullano

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Si vuole evitare in questo modo una inopportuna ingerenza in relazione all’attività parlamentare, e alla funzione legislativa stessa. Alla luce di tali garanzie, ci si chiede, quindi, se è configurabile il reato di corruzione in capo al soggetto che svolge tale attività parlamentare.Le garanzie costituzionali per il parlamentareIl reato di corruzione e i suoi presuppostiL’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareConclusioni 1 - Le garanzie costituzionali per il parlamentareL’attività parlamentare è espressione di uno dei principali poteri previsti dall’ordinamento, quale il potere legislativo. 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Appare quindi ormai pacifico che anche il parlamentare possa essere considerato quale pubblico ufficiale: dal momento che l’art. 357 c.p. fa espresso riferimento alla attività legislativa, si ritiene che senza dubbio possa rientrare nella definizione anche il parlamentare. Peraltro, si ritiene che debba essere considerato tale anche quando svolge funzioni diverse (come attività di indirizzo e controllo), non potendo sostenere che sia pubblico ufficiale solo in relazione a certi atti specifici, e non ad altri. Infine, si pone l’accento sull’art. 322 bis n.1, che estende le norme sulla corruzione anche al parlamentare europeo, considerandolo quindi pubblico ufficiale. Sarebbe irrazionale considerare pubblico ufficiale il parlamentare europeo, e non invece quello nazionale.3 - L’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareIl problema si pone quando il parlamentare si accorda con un privato: l’accordo prevede che da un lato il privato promette al parlamentare denaro o altra utilità, e dall’altro lato il parlamentare promette al privato di porre in essere un determinato atto del suo ufficio (es. votare in un certo modo).Nonostante la possibilità di considerare il parlamentare quale pubblico ufficiale, nel corso della evoluzione giurisprudenziale non è stata affatto scontata la configurabilità del reato di corruzione in capo allo stesso.Secondo una prima tesi, infatti, non è possibile applicare le norme sulla corruzione in relazione all’attività parlamentare: se si consentisse al giudice penale di valutare la liceità degli accordi, si permetterebbe allo stesso di sindacare sia l’attività stessa, sia il voto del singolo parlamentare. In questo modo verrebbe del tutto violato l’art. 68 Cost., che prevede la sfera di immunità per i voti dati; non verrebbe in alcun modo garantita l’autonomia e la indipendenza che la Carta costituzionale considera indispensabile per l’esercizio dell’attività parlamentare stessa. Peraltro, è stato evidenziato che la funzione svolta dal parlamentare sia per antonomasia una attività di compromesso, alla luce della quale inevitabilmente si arriva a degli accordi per poter operare. Ciò rende particolarmente difficile individuare una linea di confine tra quel che è lecito e ciò che non lo è, attribuendo al giudice penale un eccessivo potere di giudizio, del tutto arbitrario.Una differente tesi, invece, che appare oggi prevalente in giurisprudenza, ritiene che a date condizioni si possono applicare le norme sulla corruzione anche all’attività del parlamentare.Infatti, è vero che la Costituzione prevede una serie di garanzie a tutela dell’attività legislativa e a tutela del parlamentare, ma tali garanzie non sono affatto previste al fine di permettere al singolo di vendere la propria funzione: tali garanzie non possono in alcun modo legittimare un asservimento della carica o della funzione a fini privati. Una lettura di tal genere, infatti, finirebbe per tradire la ragion d’essere delle stesse garanzie, che devono operare solo se riguardano uno svolgimento lecito dell’attività parlamentare. L’art. 68 Cost., infatti, non prevede una immunità totale e assoluta, che possa consentire un eccessivo privilegio al parlamentare, ma si pone solo a tutela della attività legislativa legittimamente svolta. Peraltro, sarebbe irrazionale applicare le norme sulla corruzione al parlamentare europeo, come previsto dall’art. 322 bis n. 1 c.p., e non anche al parlamentare nazionale.Ulteriore argomento invocato dalla recente giurisprudenza è anche quello secondo cui la stessa Corte costituzionale, nel corso di una questione attinente ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha evidenziato che se un fatto coinvolge anche dei beni che non fanno parte della vita parlamentare e che non è adeguatamente disciplinato dai regolamenti parlamentari con proporzionate sanzioni o adeguati rimedi, allora ben si può ricorrere all’ordinamento generale. 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Egregio Avvocato

La responsabilità amministrativa degli enti

11 apr. 2022 tempo di lettura 5 minuti

Il d.lgs. 231/2001 detta la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi a suo interesse o vantaggio da un soggetto apicale oppure da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi. Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaPresuppostiReati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiSanzioni1 - Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaLa responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato è un tipo di responsabilità che possiede caratteristiche proprie della responsabilità penale e della responsabilità amministrativa.Sotto il primo punto di vista, la responsabilità scaturisce dalla commissione da parte di soggetti apicali dell’ente o di soggetto a loro gerarchicamente subordinati dei reati previsti dal decreto ed è la manifestazione della cosiddetta “colpa di organizzazione” dell’ente. L’accertamento della responsabilità, inoltre, è demandata alla competenza del giudice penale. Sotto il secondo punto di vista, quando è accertata la responsabilità, l’ente è soggetto a sanzioni di natura amministrativa (come la confisca).Ai sensi dell’art. 1 d. lgs. 231/2001, la responsabilità può essere imputata a:enti forniti di personalità giuridica;società e associazioni anche prive di personalità giuridica.Non possono essere chiamati a rispondere, invece, lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.L’ente si costituisce in giudizio tramite un legale rappresentante individuato nello statuto o nell’atto costitutivo. 2 - PresuppostiAi sensi dell’art. 5 del decreto, l’ente risponde per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da:soggetti in posizione apicale: si tratta di chi riveste “funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale” nonché di chi esercita, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso;soggetti sottoposti all’altrui direzione. L’ente, quindi, non è responsabile quando l’autore del reato ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. A questo proposito, la giurisprudenza afferma che, qualora i soggetti agenti abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, viene meno lo schema di immedesimazione organica: di conseguenza, l’illecito commesso, pur tornando a vantaggio dell’ente, non può più ritenersi come fatto suo proprio, ma un vantaggio fortuito, non attribuibile alla volontà della persona giuridica.L’ente, in secondo luogo, non è responsabile in altri due casi. Se il reato è commesso da un soggetto in posizione apicale, l’ente va esente da responsabilità se dimostra:di aver adottato il modello di organizzazione e gestione dei reati della specie di quello verificatosi; di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; che le persone che hanno commesso il reato lo hanno fatto eludendo fraudolentemente il modello di organizzazione e di gestione;che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo preposto alla stessa. Tale ultima eventualità è sempre esclusa se l’ente ha adottato efficacemente il modello. A questo fine, i parametri per valutare l’efficacia del modello sono esplicitati all’art. 7 co. 4 del decreto: a titolo esemplificativo, il modello deve essere sottoposto a veridica periodica e deve essere elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie a quanto prescritto.Se il reato è commesso da uno dei soggetti sottoposti all’altrui direzione, l’ente non è responsabile ove dimostri:che la commissione del reato non è stata permessa dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza;di avere, prima della commissione del reato, adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.Nei casi in cui l’ente risponde, la sua responsabilità è autonoma rispetto a quella della persona fisica (art. 8 del decreto): l’ente risponde, infatti, anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è punibile e se il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.  3 - Reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiLa responsabilità amministrativa degli enti è soggetta, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 231/2001, al principio di legalità: l’ente risponde del reato commesso dalla persona fisica solo se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.A questo scopo, gli artt. 24 ss. d. lgs. 231/2001 contengono un fitto catalogo di reati che, se commessi, sono presupposto oggettivo di responsabilità amministrativa degli enti. Ricordiamo a titolo esemplificativo: Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, di un ente pubblico o dell’Unione europea o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture;Delitti di criminalità organizzata, con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d’ufficio;Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili e delitti contro la personalità individuale (ad es. prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico); Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro;Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonchè autoriciclaggio e delitti in materia di violazione del diritto d´autore.4 - SanzioniUna volta che viene accertata la commissione del reato da parte delle persone fisiche, quando sussistono i presupposti affinché anche l’ente sia ritenuto responsabile, quest’ultimo risponde di una delle seguenti sanzioni amministrative (art. 9 del decreto):sanzione pecuniaria;confisca;sanzioni interdittive (ai sensi dell’art. 9 co. 2, si tratta dell’interdizione dall’esercizio dell’attività; della sospensione o della revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; del divieto di contrattare con la p.a.; dell’esclusione di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi; del divieto di pubblicizzare beni o servizi);pubblicazione della sentenza.Le prime due sanzioni sono volte ad incidere direttamente sul patrimonio dell’ente, che risponde, secondo il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 27 del decreto, con il suo stesso patrimonio o con il fondo comune. Le altre due sanzioni hanno lo scopo di disincentivare la commissione di illeciti da parte degli enti. Le sole sanzioni interdittive possono non essere applicate se, ai sensi dell’articolo 17 del decreto, prima che venga dichiarata l’apertura del dibattimento nel primo grado di giudizio, l’ente dimostra di:aver risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero di essersi efficacemente adoperato in tal senso;aver eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l´adozione e l´attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;aver messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.Editor: dott.ssa Elena Pullano

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Egregio Avvocato

Se il ladro fugge con l’auto risponde del delitto di furto o rapina?

11 nov. 2024 tempo di lettura 2 minuti

Prima di rispondere al quesito odierno è necessario preliminarmente tracciare una linea di confine tra il delitto di rapina di cui all’art. 628 c.p. ed il delitto di furto di cui all’art. 624 c.p..Ebbene, si tratta di due fattispecie caratterizzate dai medesimi elementi costitutivi, ovvero “sottrazione della res ed impossessamento”, il cui discrimen va individuato nelle modalità della condotta, essendo necessario, ai fini dell’integrazione del delitto di rapina, che la stessa si realizzi mediante violenza o minaccia.In particolare, l’art. 629 c.p. disciplina due ipotesi di rapina: la rapina propria, se la violenza e la minaccia sono poste in essere prima della sottrazione della res, allo scopo di coartare la volontà della persona offesa; e la rapina impropria, quando la condotta violenta o minacciosa viene realizzata successivamente alla sottrazione della res, al fine di scoraggiare la reazione del soggetto passivo ed assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità.Tornando al quesito odierno, una questione molto dibattuta nelle aule giudiziarie è se la fuga con l’auto da parte del ladro, che tenta di sottrarsi alle forze di polizia, possa integrare gli estremi della violenza impropria e quindi giustificare un mutamento in pejus della fattispecie contestata, ovvero dal reato di furto a quello di rapina impropria.Orbene, secondo la Corte di Cassazione, costituendo la mera fuga una forma di resistenza passiva, affinché possa assumere rilievo penale è necessario che si realizzi attraverso manovre tali da creare una situazione di generale e oggettivo pericolo (Cass 2019/44860).Alla luce di un tale orientamento, molti giuristi e non si sono chiesti se anche la mera violazione del Codice della Strada possa ritenersi sufficiente ad integrare una situazione di oggettivo pericolo. A fugare ogni dubbio è un risalente orientamento giurisprudenziale della Cassazione che, pronunciandosi su un caso di resistenza a p.u., ha chiarito che “il fuggitivo che passa con il rosso, sia pur a forte velocità, non commette il reato di resistenza a p.u,, non essendo sufficiente la mera violazione di una o più norme del codice della strada (Cass. 2002/35448).In definitiva, sarà sempre necessario accertare in concreto se la condotta posta in essere dal reo abbia determinato un effettivo pericolo per l’incolumità di terzi o della persona offesa. In assenza di un tale presupposto, potrà dirsi integrato il meno grave delitto di furto, ex art. 624 c.p..

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Concorso di colpa del pedone negli incidenti stradali: quando rileva?

5 ago. 2021 tempo di lettura 6 minuti

Nell’ambito della circolazione stradale, la regola generale è che il concorso di colpa del pedone investito è configurabile solo se la sua condotta è imprevedibile.In questa materia, infatti, il “principio dell’affidamento” perde di centralità e finisce per essere, solo in parte, compensato dal “principio della prevedibilità”: la circostanza che i pedoni attraversino la strada improvvisamente, o si attardino nell’attraversare, non vale ad escludere la responsabilità del guidatore per omicidio o lesioni colpose stradali, perché costituisce un rischio tipico e, di conseguenza, prevedibile nella circolazione stradale. Il principio dell’affidamento in materia di circolazione stradaleTemperamento al principio dell’affidamento: la prevedibilità del comportamento del pedone da parte dell’automobilistaAlcuni indici rilevanti ai fini del giudizio di prevedibilità  1 - Il principio dell’affidamento in materia di circolazione stradaleIl principio dell’affidamento afferma che, in relazione ad attività pericolose svolte da una pluralità di persone, ciascun agente deve poter confidare sul fatto che il comportamento dell’altro sia conforme alle regole di diligenza, prudenza e perizia. Più in particolare, a ciascuna persona è consentito fare affidamento sull'altrui diligenza, da intendersi come osservanza delle regole cautelari proprie del contesto in cui la stessa opera. Tale facoltà è espressione della natura personale e rimproverabile della responsabilità colposa, che viene circoscritta entro limiti ragionevoli al fine di evitare che, a causa del timore della sanzione, vengano paralizzate quelle azioni i cui effetti dipendono anche dal comportamento altrui. Il problema è proprio stabilire se, e in che misura, la diligenza del singolo soggetto debba estendersi sino alla valutazione ed alla previsione delle condotte incaute altrui.Si tratta di un tema centrale perché interessa, fra le altre, attività rischiose come quella medico-chirurgica e la circolazione stradale, che qui interessa.  Quanto al versante dell’attività medico-chirurgica, il principio di affidamento trova pacifica affermazione e riconoscimento: nel coordinato svolgimento di attività complesse e plurisoggettive, che implicano l’esercizio di conoscenze multidisciplinari, quali quelle della medicina di équipe, ciascun operatore deve poter confidare sul fatto che gli altri specialisti si comportino in modo appropriato. Il principio dell’affidamento trova limitazione solo nei casi in cui siano presenti errori altrui che siano macroscopici, evidenti e non specialistici, tali cioè da poter essere governati dal professionista dotato delle comuni competenze.Sul versante della circolazione stradale, invece, si registra la tendenza a contenere l’applicabilità del principio di affidamento, fin quasi ad escluderlo. Le norme sulla circolazione stradale, infatti, impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili: per questo motivo, la fiducia di un conducente nel fatto che gli altri si attengano alle prescrizioni comandate dal Codice della Strada, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente. Lo stesso Codice della Strada contiene norme che sembrano estendere al massimo gli obblighi di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari: art. 191: deve essere serbata la massima prudenza nei confronti dei pedoni, quando si trovino sugli appositi attraversamenti ma anche quando abbiano comunque già iniziato l'attraversamento della carreggiata;art. 141: la velocità deve essere regolata in relazione a tutte le condizioni rilevanti, in modo da evitare ogni pericolo per la sicurezza e da mantenere condizioni di controllo del veicolo idonee a fronteggiare ogni “ostacolo prevedibile”; art. 145: nell'impegnare un incrocio deve essere osservata massima prudenza.Seguendo questo orientamento, la Cassazione, ad esempio, ha ritenuto un guidatore responsabile per l’omicidio colposo di un pedone che, sceso dalla portiera anteriore dell'autobus in sosta lungo il lato destro della carreggiata, era passato davanti all'automezzo ed era stato investito dall'imputato, che, pur rispettando il limite di velocità, non aveva provveduto a moderarla in ragione delle condizioni spazio-temporali di guida, caratterizzate dalla presenza in sosta del pullman (Sent. n. 12260 del 09/01/2015 - dep. 24/03/2015). 2 - Temperamento al principio dell’affidamento: la prevedibilità del comportamento del pedone da parte dell’automobilistaA tale ampia configurazione della responsabilità è stato apposto il limite della prevedibilità: il principio dell'affidamento trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui solo se questo rientri nel limite della prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa.Per quanto puntuali, le norme del Codice della Strada non possono essere lette in modo tanto estremo da farvi discendere un obbligo generale di prevedere e governare sempre e comunque il rischio da altrui attività illecita: tale soluzione contrasterebbe con il principio della personalità della responsabilità, perché prescriverebbe obblighi talvolta inesigibili, e potrebbe indurre gli utenti “deboli” della strada a pensare di poter restare impuniti in presenza di gravi violazioni cautelari. Secondo il principio della prevedibilità, allora, il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità per l’investimento del pedone quando la condotta della vittima configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, da sola sufficiente a produrre l’evento.Tale circostanza si configura ove il conducente, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, si sia trovato nell’impossibilità oggettiva di notare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo inatteso, rapido e imprevedibile. Il principio della prevedibilità impone di valutare se, nelle condizioni date, l’agente dovesse e potesse realisticamente prevedere e, di conseguenza, se egli si potesse concentrare sulla possibile violazione da parti di altri delle dovute regole di cautela. Non deve, però, trattarsi di una prevedibilità astratta ma concreta, rapportata alle circostanze del singolo caso: occorre, in altre parole, che le circostanze di ciascuna situazione mostrino segni o indizi, anche tenui, che consentano di rendere concretamente non insignificante la probabilità di condotte inosservanti.La responsabilità penale del conducente è stata esclusa, ad esempio, in un caso in cui il pedone, un anziano signore, attraversava la strada fuori dalle strisce pedonali, fra due veicoli fermi (l’autobus alla fermata e un autoarticolato in sosta) per giungere al cordolo spartitraffico ed immettersi nella successiva corsia (Uff. Ind. Prel. 8 gennaio 2014, n. 724). In questo caso, la colpa grave del pedone nell’attraversamento della strada, non solo fuori dalle strisce pedonali ma anche in uno spazio tale da non consentirne l’avvistamento, ha escluso la responsabilità dell’investitore.3 - Alcuni indici rilevanti ai fini del giudizio di prevedibilitàCome abbiamo visto, occorre svolgere, in sede processuale, una ricostruzione dei fatti per stabilire se, in concreto, la condotta imprudente da parte del pedone possa escludere la responsabilità penale del conducente per la morte o le lesioni riportate proprio dal pedone.In particolare, l’indagine può avere ad oggetto:la distanza dell’attraversamento dalle strisce pedonali: il pedone deve attraversare sulle strisce, a meno che queste distino più di 100 metri. Attraversare a pochi metri dalle strisce pedonali è una condotta ritenuta, generalmente, prevedibile che non esonera il conducente dall’usare la normale diligenza nella guida;la velocità di attraversamento della strada: tanto più l’attraversamento del pedone è fulmineo, tanto meno esso è visibile ed evitabile anche per una persona accorta e prudente;la visibilità della strada: attraversare in un luogo buio, con la nebbia o di notte può sollevare l’automobilista da una parte della responsabilità. Editor: dott.ssa Elena Pullano

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