Emergenza Covid e divieto di licenziamento

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Pubblicato il 14 gen. 2021 · tempo di lettura 3 minuti

Emergenza Covid e divieto di licenziamento | Egregio Avvocato
Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. 



  1. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?
  2. Quali licenziamenti restano possibili?
  3. Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?
  4. Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.


1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?

L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare:  

  • è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; 
  • sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 


2 - Quali licenziamenti restano possibili?

Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: 

  • licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); 
  • licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); 
  • licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. 

Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale.  


3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?

Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 


4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.

Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. 


Editor: dott. Giovanni Fabris

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L’infortunio in itinere tra tutele e limiti

9 dic. 2021 tempo di lettura 6 minuti

Con la Legge n. 80 del 1898 fu introdotta, per la prima volta, l’assicurazione sociale per gli infortuni sul lavoro, cui fece seguito l’assicurazione per le malattie professionali e il Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria.Questa complessa disciplina è intervenuta a regolare il c.d. rischio professionale, vale a dire il rischio correlato all’attività lavorativa.  Con l’avvento dell’assicurazione sociale si è, sostanzialmente, trasferita la titolarità di questo rischio – prevista dall’art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro – da quest’ultimo all’istituto previdenziale che, in caso di lesioni incorse al lavoratore, lo indennizza.Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela al lavoratore si è sempre più estesa, non limitandosi solamente agli infortuni occorsi sul luogo di lavoro, ma prendendo in esame anche i c.d. infortuni in itinere.L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaInfortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaGli adempimenti da compiere I limiti alla tutela1 - L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?L’infortunio sul lavoro può essere definito come il danneggiamento all’integrità psico – fisica di un individuo che si verifica a causa di un fattore esterno durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto, almeno inizialmente, la tutela previdenziale veniva riconosciuta solamente a coloro i quali, considerate mansioni svolte e posizioni ricoperte, fossero esposti a rischio durante il proprio orario lavorativo. Con le modifiche intervenute al Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia, ha assunto rilevanza anche il c.d. infortunio in itinere.Ma cosa s’intende per infortunio in itinere? In base alla lettera dell’art. 12 del Decreto Legislativo n. 38/2000 è possibile definirlo una tipologia di infortunio che si verifica lungo il normale percorso che il lavoratore compie spostandosi: a) dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa; b) da un primo luogo di lavoro ad un altro laddove il lavoratore sia impegnato in differenti rapporti lavorativi; oppure c) dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa.2 - Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaSi parla, quindi, di “normale percorso” che il lavoratore compie. Ma cosa si deve intendere con questa “formula”?Sul punto la dottrina ha interpretato la norma considerando “normale percorso” quello più breve e diretto, vale a dire quello che normalmente o, quanto meno, abitualmente il lavoratore compie ma, anche, quello non abituale ma che sia giustificato da concrete situazioni che impongano di percorrerlo in una data occasione.Ne consegue che, almeno teoricamente, tutte le eventuali variazioni effettuate nei tragitti abituali, se non sono la diretta conseguenza di necessità improrogabili, non farebbero rientrare un eventuale infortunio tra quelle da annoverare come avvenuto in itinere.Le variazioni per far permanere la tutela al lavoratore in caso di infortunio devono essere effettuate per adempiere a un ordine impartito dal datore di lavoro oppure scaturire da cause di forza maggiore o esigenze improrogabili o per adempiere a obblighi penalmente rilevanti.Le condizioni per l’operatività della tutela sono essenzialmente tre. Difatti, affinché operi la tutela assicurativa, lo spostamento, oltre che esser compiuto lungo il “normale percorso” deve avere fini lavorativi e deve sussistere un nesso causale tra il tragitto e l’attività lavorativa.3 - Infortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaSe è vero che le condizioni per l’operatività della tutela sono tre, è altrettanto vero che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si debba prendere in considerazione anche la modalità di spostamento impiegata dal lavoratore per coprire il normale percorso.Innanzitutto, basandosi sui chiarimenti forniti dalla stessa INAIL in vari circolari si può tranquillamente affermare che, in presenza delle tre condizioni già citate, laddove il tragitto sia percorso con le “ordinarie modalità” di spostamento, opera senza dubbio la copertura assicurativa.In altri termini, saranno indennizzati tutti quegli infortuni avvenuti spostandosi a piedi o a bordo di mezzi pubblici. Sembrerebbe, quindi, che non ci sia invece spazio per indennizzare gli infortuni occorsi a bordo di mezzi propri. Tuttavia, la normativa stabilisce che l’assicurazione infortuni sul lavoro opera anche nel caso si utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Stando all’interpretazione giurisprudenziale, il requisito della necessità va valutato attraverso differenti fattori e, in via ragionevole, si considera giustificato l’uso del mezzo privato quando: a) il mezzo è fornito dal datore di lavoro per esigenze lavorative, b) non esistono mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro o non vi è coincidenza di orari, c) il risparmio di tempo, utilizzando il mezzo privato, sia pari o superiore a un’ora per tragitto.Cosa accade, però, se il mezzo utilizzato non è a motore? Considerata la sempre maggior diffusione nell’utilizzo della bicicletta, l’INAIL aveva inizialmente interpretato estensivamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 38/2000, stabilendo che l’infortunio occorso a bordo di un velocipede, percorrendo una strada aperta al traffico di veicoli a motore, dovesse essere indennizzato solo in presenza delle condizioni necessarie per rendere necessitato l’uso della bicicletta, mentre si potesse prescindere dalle condizioni di necessità qualora l’infortunio si fosse verificato in un tratto di percorso protetto come ad esempio una pista ciclabile.Sul punto sono intervenuti anche il legislatore e la giurisprudenza, espressamente stabilendo che l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro debba sempre considerarsi “necessitato”.4 - Gli adempimenti da compiere Una volta occorso il sinistro, il lavoratore ha l’obbligo per legge di avvisare o far avvisare il proprio datore di lavoro. Comunicazione che deve essere immediata poiché non ottemperando a tale obbligo si perde il diritto alle prestazioni INAIL per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio.Una volta appresa la notizia, il datore di lavoro deve inviare, a seconda dei casi, la comunicazione o la denuncia dell’infortunio stesso all’INAIL.In particolare, la comunicazione di infortunio va presentata nell’ipotesi di prognosi e assenza del lavoratore per almeno un giorno successivo a quello dell’evento oppure per assenza prolungata sino a tre giorni. Essa va presentata telematicamente entro 48 ore da quando è stato inviato il certificato medico ed è meramente fini informativi.La denuncia di infortunio, invece, va presentata nel caso in cui vi sia una prognosi che vada oltre i 3 giorni successivi all’evento. In queste ipotesi, il datore di lavoro dovrà inoltrare la denuncia all’INAIL entro 48 ore dal momento della conoscenza dell’infortunio o entro 24 ore per i casi più gravi.5 - I limiti alla tutelaIn linea teorica, in caso di infortunio in itinere accaduto per colpa del lavoratore, gli aspetti soggettivi della condotta – negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di norme – non assumono rilevanza ai fini della indennizzabilità, poiché si ritiene che la colpa del lavoratore non interrompa il nesso causale tra il rischio lavorativo e l’infortunio, a meno che non si configurino comportamenti talmente eccessivi da rientrare nel c.d. rischio elettivo.Il rischio elettivo, secondo la Corte di Cassazione, è definibile come una deviazione arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 19081/2013).Ne deriva che la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere non copre quegli infortuni avvenuti a causa: di deviazioni o soste effettuate per esigenze personali, di deviazioni effettuate per scelta del lavoratore, dell’abuso di sostanze alcoliche, stupefacenti, psicotrope, della violazione del Codice della Strada.Editor: avv. Marco Mezzi

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Riders: lavoratori autonomi o subordinati?

21 dic. 2020 tempo di lettura 3 minuti

Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti.  Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?La recente sentenza del Tribunale di PalermoLe tutele: obiettivo raggiunto?1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders. 2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 3 - La recente sentenza del Tribunale di PalermoSe il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.   Editor: dott. Giovanni Fabris 

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Il contratto di lavoro a tempo determinato

25 mar. 2021 tempo di lettura 3 minuti

Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine. La durata massimaLe causaliQuali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? Le proroghe e i rinnoviI divietiIl diritto di precedenza1 - La durata massimaIn generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi. Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi. Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente. 2 - Le causaliLe causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima?  In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato.  4 - Le proroghe e i rinnoviIl contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi. Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo.   5 - I divietiL’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (sul punto esistono però alcune eccezioni); presso unità produttive nelle quali sono in corso procedure di cassa integrazione che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato; da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.  6 - Il diritto di precedenzaSalvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine. Editor: Giovanni Fabris 

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Permessi per familiari portatori di handicap e congedo straordinario

17 gen. 2022 tempo di lettura 4 minuti

I lavoratori dipendenti possono usufruire di speciali permessi retribuiti o congedi per la cura e l’assistenza dei loro familiari portatori di handicap in presenza di determinate condizioni.La tutela riguarda i familiari di coloro i quali presentano una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva grave, in grado da ridurre l’autonomia personale e rendendo necessaria un’assistenza permanente continuativa e globale.L’accertamento dello stato di gravità della minorazione viene effettuato da un’apposita commissione Asl.Chi può beneficiare e quali sono le condizioni per beneficiare dei permessi retribuiti?È possibile il cumulo dei permessi?Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?Cos’è il congedo straordinario?1 – Chi può beneficiare dei permessi retribuiti?Ai sensi dell’articolo 33 della L. 104/92, i genitori naturali, adottivi ed affidatari e determinati familiari (partenti ed affini entro il 2° grado) di portatori di handicap, nel momento in cui sono lavoratori dipendenti, possono beneficiare dei c.d. permessi retribuiti. Generalmente, tali permessi vengono riconosciuti a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno presso strutture ospedaliere o simili pubbliche o private che assicurino assistenza sanitaria continuativa.Tuttavia, però, i permessi vengono concessi anche in caso di ricovero a tempo pieno: a) del disabile quando sono i sanitari stessi a certificare il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare; b) del disabile in stato vegetativo persistente.I permessi vengono concessi quando il disabile deve recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite specialistiche e/o terapie certificate. In questo caso si interrompe il tempo pieno del ricovero e c’è l’affidamento del disabile all’assistenza del familiare.Sarà onere del lavoratore, per ogni mese in cui fruisce dei permessi, di produrre sia la documentazione che dimostri l’avvenuto accesso presso la struttura esterna specializzata, sia la dichiarazione della struttura ospitante che attesti che la persona disabile è stata affidata al familiare per tutta la durata della sua assenza dal lavoro. 2 - È possibile il cumulo dei permessi?Generalmente il permesso può essere utilizzato per l’assistenza di una sola persona disabile, tuttavia il lavoratore ha diritto ad assistere più persone disabili e quindi di cumulare i relativi permessi a condizione che si tratti del coniuge o affine entro il primo grado.Il cumolo è consentito quando la presenza del lavoratore è disgiuntamente necessaria per l’assistenza di ciascun disabile; è pertanto escluso quando altre persone possono fornire l’assistenza o quando lo stesso lavoratore può, per la durata della disabilità, sopperire congiuntamente alle necessità assistenziali nel corso dello stesso periodo. L’assistenza si considera disgiunta quando la prestazione nei confronti di due o più soggetti disabili può essere assicurata solo con modalità e in tempi diversi.Il richiedente deve presentare tante domande quanti sono i soggetti per i quali chiede i permessi a cui vanno allegate le idonee certificazioni relative alla particolare natura della disabilità.  3 - Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?Il trattamento economico a favore delle persone beneficiarie è riconosciuto dall’Inps mediante il meccanismo dell’anticipazione del datore di lavoro, che provvede poi al recupero mediante il flusso UniEmens.Solo nei confronti di alcune particolari categorie di lavoratori, come ad esempio gli operatori agricoli, lavoratori stagionali, domestici, ed in particolari ipotesi di mancata anticipazione da parte del datore di lavoro l’Inps provvede al pagamento diretto. Per poter usufruire dei permessi è necessario presentare domanda all’Inps in modalità esclusivamente telematica allegando i documenti che provano la disabilità.I familiari decadono dal diritto di fruire dei permessi se il datore di lavoro o l’Inps accertano l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per il godimento degli stessi.4 - Cos’è il congedo straordinario?L’articolo 42 del D. Lgs 151/2001 prevede il diritto per i lavoratori dipendenti familiari di persona gravemente disabile di usufruire del c.d. congedo straordinario.Il congedo spetta a condizione che la persona assistita non sia ricoverata a tempo pieno presso istituti specializzati secondo il seguente ordine di priorità: 1) coniuge o parte dell’unione civile; 2) genitori (naturali, adottivi o affidatari); 3) figli; 4) fratelli o sorelle, 5) parenti o affini entro il 3° grado.Se i due genitori sono lavoratori dipendenti il congedo spetta in via alternativa alla madre o al padre, se fruito alternativamente da entrambi i genitori, essi non possono contemporaneamente fruire di altri benefici previsti dalla legge per i genitori dei soggetti disabili.Il congedo ha la durata massima complessiva di due anni nell’arco dell’intera vita lavorativa del richiedente per ciascuna persona portatrice di handicap.I periodi di congedo straordinario rientrano nel limite massimo globale spettante a ciascun lavoratore per gravi e documentati motivi familiari.Per i genitori affidatari il congedo non può durare oltre la fine del periodo di affidamento.Durante il periodo di congedo il richiedente ha diritto a un’indennità economica a carico dell’Inps che viene anticipata dal datore di lavoro e recuperata mediante il flusso UniEmens, fatti salvi i casi di pagamento diretto da parte dell’Inps.L’indennità è pari alla retribuzione percepita nell’ultimo mese di lavoro che precede il congedo e durante il congedo il lavoratore ha diritto a richiedere l’accredito della contribuzione figurativa.

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