Egregio Avvocato
Pubblicato il 25 mar. 2021 · tempo di lettura 3 minuti
Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine.
1 - La durata massima
In generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi.
Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi.
Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente.
2 - Le causali
Le causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in:
3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima?
In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato.
4 - Le proroghe e i rinnovi
Il contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi.
Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo.
5 - I divieti
L’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa:
6 - Il diritto di precedenza
Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine.
Editor: Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
30 set. 2021 • tempo di lettura 5 minuti
Per mobbing si intende l’insieme dei comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di emarginare il soggetto che ne è vittima.Sebbene non esista una legge esplicitamente dedicata a questo fenomeno, l’ordinamento comunque offre diversi strumenti di tutela.Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi? Qual è la normativa di riferimento?È previsto il risarcimento del danno? Vi sono altri strumenti per difendersi?1 - Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi?Da diverso tempo il termine mobbing è entrato a far parte del vocabolario comune per indicare una serie di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare il soggetto che ne è vittima.Pur mancando un’espressa disciplina in merito, la giurisprudenza ha definito il fenomeno del mobbing come “una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo”.Da questa definizione ne consegue che le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più svariate: ad esempio il lavoratore potrebbe ritrovarsi relegato in una postazione scomoda, essere escluso da riunioni, comunicazioni, progetti, essere assegnato a qualifica inferiori o dequalificanti, e così via.Come ha chiarito la giurisprudenza – sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione – gli elementi costitutivi del mobbing sono: a) una serie di comportamenti persecutori posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del lavoratore; c) il nesso di causalità tra le condotte e il pregiudizio; d) l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio.2 - Qual è la normativa di riferimento?Come già detto, nell’ordinamento italiano manca una disciplina specificatamente dedicata al fenomeno del mobbing. Tuttavia, diverse sono le norme che, tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori, consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che integrano il fenomeno del mobbing.Difatti, è possibile richiamare norme costituzionali – artt. 2, 3, 4, 32, 35, 41 della Costituzione –, norme del codice civile – in particolare artt. 2087, 2103, 1175, 1375, 2043, 2049 codice civile –, ma anche altre fonti, quali la Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), il D.Lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e il D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico per la sicurezza sul lavoro).3 - È previsto il risarcimento dei danni?È previsto il risarcimento dei danni per le vittime di mobbing, ma le modalità per ottenerlo variano a seconda del tipo di responsabilità che il lavoratore danneggiato intende far valere in giudizio. In effetti, le condotte di mobbing possono dar luogo a profili di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.Si può parlare di responsabilità contrattuale nei casi in cui il danneggiato lamenti l’inadempimento di un’obbligazione preesistente. Nel caso del mobbing, quindi, ad essere inadempiuta è un’obbligazione che trova la propria fonte direttamente nella legge, ossia nell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore – e al datore di lavoro in generale – di adottare tutte le misure più idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.Nel far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing deve indicare e provare i comportamenti vessatori subìti, dando prova del danno patito e del relativo nesso causale. Non dovrà, invece, provare l’atteggiamento psicologico (dolo o colpa) di colui che, col suo inadempimento, ha provocato il danno. Difatti, in ambito contrattuale, l’ordinamento presume la colpa della parte inadempiente e spetterà a quest’ultima provare che l’inadempimento sia dovuto a fatti a lei non imputabili.Questa, per così dire, “agevolazione probatoria” si scontra, tuttavia, con la circostanza per cui uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio il dolo del mobber, ossia l’intento persecutorio (elemento psicologico che, in quanto tale, è difficile da dimostrare). Sul punto, in ogni caso, è intervenuta la giurisprudenza che, per non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, ha chiarito che quest’ultimo possa limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta subìta. Va detto, infine, che l’azione di responsabilità contrattuale è soggetta a un termine prescrizionale di dieci anni.Ricorre, invece, ipotesi di responsabilità extracontrattuale qualora un soggetto danneggi ingiustamente altro soggetto al quale non era legato da vincolo obbligatorio. Per quel che riguarda il mobbing, ciò accade quando la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, sebbene diversi dal datore di lavoro.Per intraprendere azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dar prova di tutti gli elementi previsti dall’articolo 2043 c.c., ossia il fatto dannoso, il danno patito, il nesso causale tra fatto e danno e l’elemento psicologico del dolo del danneggiante.L’azione di responsabilità extracontrattuale è soggetta a un termine di prescrizione di cinque anni e consente di invocare il risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta. 4 - Vi sono altri strumenti per difendersi?Anche in questo caso la risposta è affermativa.Difatti, oltre al risarcimento del danno, il lavoratore vittima di mobbing ha a disposizione altri strumenti di tutela con cui cercare di arginare le condotte vessatorie.Ad esempio, in primo luogo, considerato l’obbligo di protezione dell’incolumità dei lavoratori che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro, una prima azione proponibile dal lavoratore vittima di mobbing è quella di adempimento, al fine di costringere il datore di lavoro ad adottare le misure adeguate di contrasto e prevenzione rispetto alle condotte mobbizzanti perpetrate da altri lavoratori sottoposti alla sua autorità.L’inadempimento dell’obbligo di protezione incombente sul datore di lavoro potrebbe, in base all’art. 1460 c.c., consentire al lavoratore di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione lavorativa sino al momento in cui non siano adottate le misure in grado di arginare il fenomeno dannoso.L’ultimo, e certamente più radicale rimedio, è quello delle dimissioni per giusta causa, in seguito alle quali il lavoratore ha il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, vale a dire una somma di denaro pari alla retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.Editor: avv. Marco Mezzi
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Egregio Avvocato
21 dic. 2020 • tempo di lettura 3 minuti
Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti. Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?La recente sentenza del Tribunale di PalermoLe tutele: obiettivo raggiunto?1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders. 2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 3 - La recente sentenza del Tribunale di PalermoSe il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
11 set. 2024 • tempo di lettura 1 minuti
La legge 76/2016 istituisce le unioni civili tra persone dello stesso sesso.Tale novità comporta alcuni importanti risvolti di natura giuslavoristica:1-la disciplina in materia di congedo matrimoniale, per cui viene concessa sia l'indennità a carico del datore di lavoro sia quella erogata dall'Inps;2-vengono riconosciuti permessi in caso di lutto ed eventi particolari;3-la disciplina in materia di nullità del recesso datoriale comunicato nel periodo in cui vige la tutela, così come disciplinata dall'articolo 35 del dlgs 198/2006, ossia entro l'anno dalla celebrazione della unione civile;4-vi è il diritto di prelazione nella trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per assistere il coniuge affetto da patologie oncologiche;5-in caso di morte del lavoratore, il tfr dovrà essere corrisposto al coniuge dell'unione civile, così come spetta il 40% del tfr in caso di divorzio, in rapporto agli anni di unione.Infine, si sottolinea che l'INPS con messaggio 5172 del 2016 ha precisato che a decorrere dal 05 giugno 2016, ai fini del riconoscimento del diritto alle prestazioni pensionistiche e previdenziali (es pensione ai superstiti, integrazioni al trattamento minimo, maggiorazione sociale ecc)... il componente dell'unione civile è equiparato al coniuge, quindi, la parte superstite dell'unione civile può beneficiare del riconoscimento della pensione di reversibilità o della pensione indiretta.
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14 gen. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?Quali licenziamenti restano possibili?Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare: è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 2 - Quali licenziamenti restano possibili?Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. Editor: dott. Giovanni Fabris
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