Il contratto di lavoro a tempo determinato

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Pubblicato il 25 mar. 2021 · tempo di lettura 3 minuti

Il contratto di lavoro a tempo determinato | Egregio Avvocato
Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine. 




  1. La durata massima
  2. Le causali
  3. Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? 
  4. Le proroghe e i rinnovi
  5. I divieti
  6. Il diritto di precedenza


1 - La durata massima


In generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi

Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi

Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente. 


2 - Le causali


Le causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in: 


  1. esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  2. esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 


3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima?  


In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato.  


4 - Le proroghe e i rinnovi


Il contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi. 

Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo. 

  

5 - I divieti


L’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: 



  1. per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero
  2. presso unità produttive nelle quali, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (sul punto esistono però alcune eccezioni); 
  3. presso unità produttive nelle quali sono in corso procedure di cassa integrazione che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato; 
  4. da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.  


6 - Il diritto di precedenza


Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine. 


Editor: Giovanni Fabris 

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Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta?

17 mag. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validitàIl patto di non concorrenza: di cosa si tratta? Ricostruzione dell’istitutoIl corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione 1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istitutoL’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti. Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. 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Pensioni e indennità ai familiari superstiti

27 set. 2021 tempo di lettura 4 minuti

In caso di morte del pensionato o del lavoratore in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, i familiari superstiti hanno diritto ad un trattamento pensionistico erogato dall’Inps.È necessario distinguere tra la pensione di reversibilità, che viene liquidata in seguito alla morte del pensionato, e la pensione indiretta, che viene liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione. La domanda di pensione ai superstiti può essere inoltrata all’Inps esclusivamente in via telematica attraverso il sito web, il telefono (tramite il contact center integrato) e i patronati. In presenza di quali presupposti ed a chi spetta la pensione? ed in quale misura?Chi sono i beneficiari della pensione?In che misura spetta la pensione?Da quando decorre il diritto alla pensione?Quando cessa il diritto alla pensione?1 – Chi sono i beneficiari della pensione?Presupposto per ottenere il trattamento pensionistico è la vivenza a carico del lavoratore al momento del decesso di determinati soggetti.Hanno diritto alla pensione i seguenti soggetti individuati dall’art. 13 RDL 636/39: a) coniuge o parte di un’unione civile; b) figli di età non superiore a 18 anni o di qualunque età se inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto; c) in manca dei soggetti individuati al punto a), i genitori; d) in mancanza anche dei genitori, fratelli celibi e sorelle nubili. Quanto al coniuge superstite del pensionato o del lavoratore assicurato deceduto ha diritto automaticamente alla reversibilità del trattamento pensionistico.Tale diritto è riconosciuto anche al componente superstite dell’unione civile.Di regola, il coniuge separato, anche con addebito, ha diritto alla pensione di reversibilità. Secondo un primo orientamento occorre che il coniuge superstite sia beneficiario dell’assegno di mantenimento o dell’assegno alimentare a carico del coniuge deceduto; secondo un’altra tesi il diritto alla pensione sussiste a prescindere della previsione in sede di separazione dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento o alimentare.La pensione ai superstiti spetta al coniuge divorziato in presenza di tutte le seguenti condizioni:a) perfezionamento in capo al coniuge deceduto dei requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge; b) inizio del rapporto assicurativo dell’assicurato o del pensionato precedente alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) titolarità dell’assegno di divorzio in forza di una sentenza del Tribunale; d) assenza di un successivo rapporto di coniugio.Se l’ex coniuge deceduto si è rispostato, la pensione spetta sia al coniuge divorziato sia al coniuge superstite, a condizione che entrambi ne abbiano i requisiti. La ripartizione in quote dell’unico trattamento viene effettuata dal Tribunale, tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Con riferimento ai figli, anche adottivi e minori affidati, hanno diritto alla pensione se al momento della morte del genitore sono in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) età fino ai 18 anni; b) età fino ai 21 anni, se studenti di scuola media o professionale, oppure fino a 26, se frequentanti corsi universitari, purchè siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino attività lavorativa retribuita; c) inabilità al lavoro e vivenza a carico del genitore al momento della morte.2 – In che misura spetta la pensione?La misura della pensione ai superstiti è stabilita in base alle aliquote indicate in una determinata tabella individuata dalla legge. La pensione ai superstiti non può, in ogni caso, essere complessivamente inferiore al trattamento minimo o superiore all’intero ammontare della pensione della quale era – o sarebbe stato – titolare il deceduto.La misura della pensione varia se il coniuge divorziato concorre con i seguenti soggetti: a) figli superstiti; b) genitori, fratelli o sorelle del pensionato o dell’assicurato: il coniuge divorziato esclude sia gli uni sia gli altri dal diritto alla pensione.3 - Da quando decorre il diritto alla pensione?La pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del pensionato o dell’assicurato, indipendentemente dalla data di presentazione della relativa domanda.La decorrenza è stabilita dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.Alla presentazione della domanda si applica la prescrizione ordinaria prevista dall’art. 2946 c.c., ciò vuol dire che trascorsi 10 anni dal decesso i ratei di pensione non riscossi cadono in prescrizione e non possono essere più domandati.4 - Quando cessa il diritto alla pensione?Il diritto alla pensione cessa: a) per il coniuge se contrae nuovo matrimonio; b) per i figli al compimento del 18° anno di età, se studenti in casa di interruzione o conclusione del corso di studi oppure inizio di un’attività lavorativa, se inabili al venir meno dello stato di inabilità; c) per i genitori, se prendono un’altra pensione; d) per i fratelli celibi e le sorelle nubili, qualora contraggono matrimonio. Editor: avv. Elisa Calviello

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La Cassazione e lo stress da conflittualità lavorativa.

8 set. 2024 tempo di lettura 13 minuti

Le ultime Sentenze e Ordinanze della Cassazione hanno visto mutare il termine "Mobbing" in Stress da conflittualità lavorativa. Difatti, gli annullamenti dei ricorsi per mobbing della Cassazione sezione lavoro della Suprema Corte, con riferimento allo specifico tema del mobbing, sono ben sei ordinanze (19 gennaio 2024, n. 2084; 31 gennaio 2024, n. 2870; 12 febbraio 2024, n. 3791;12 febbraio 2024, n. 3822; 12 febbraio 2024, n. 3856;16 febbraio 2024, n. 4279) pronunciate quasi tutte dallo stesso collegio; ordinanze che, nell’arco di poco meno di un mese, hanno consolidato -portandolo a maturazione- un orientamento che incide in modo importante sulle vessazioni lavorative e, più in generale, sulla conflittualità all’interno dei luoghi di lavoro. Il denominatore è comune a tutte le pronunce: ricorrono in Cassazione lavoratrici e lavoratori, lamentando il mancato accoglimento in appello delle domande risarcitorie per le vessazioni lavorative (recte mobbing) subite sul posto di lavoro ad opera dei rispettivi datori. Le doglianze dei ricorrenti scontano già in partenza un vizio di fondo, dovuto al linguaggio “monocorde” di chi ne ha veicolato le ragioni: è il lessico del “panmobbismo”, logoro modello interpretativo che tende a costringere qualsiasi disfunzione lavorativa (fosse anche una singola sanzione disciplinare o un’isolata aggressione) nella “camicia di forza” del mobbing che, proprio in ragione di ciò, ha da tempo perso ogni credibilità nelle aule dei tribunali italiani (eloquenti a tal proposito sono le statistiche pubblicate in un recente studio promosso da OIL, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, p. 7 e ss., reperibile sul seguente link Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana (ilo.org). La risposta degli Ermellini è corale: lo scrutinio del giudice di merito non può limitarsi soltanto al mancato accertamento dell’elemento oggettivo o soggettivo alla base dell’invocato mobbing (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822), giungendo in questo modo a un tanto automatico quanto comodo rigetto della domanda, che rientra peraltro nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Al contrario, proprio alla luce del ben più ampio perimetro delineato dall’art. 2087 c.c. (che mira a proteggere ogni pregiudizio alla salute e alla personalità morale dei lavoratori e delle lavoratrici, cfr. Cass. 16 febbraio 2023, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3856,cit.), il Giudice di merito ha l’obbligo di “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 4.4; Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 4.2; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.2). Il mutamento di prospettiva è netto, essendo rivolto com’è all’analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali attraverso la “norma di chiusura” dell’art. 2087 c.c., che consente di tradurre la responsabilità del datore di lavoro per le condotte lesive della personalità morale del prestatore anche nel mantenimento di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 6 e par. 7; di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia” parla Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 10).  Siamo dinanzi ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, teso “ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo “stressogeno” e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (cfr. Corte dei Conti Trentino-Alto Adige, sez. giurisdiz., 16 gennaio 2024, n. 1). La formula tralatizia, ormai quasi “ossificata” in molteplici pronunce di legittimità (tra cui le ordinanze in commento) statuisce come “illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c. (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692).  Il che si traduce, con riguardo allo specifico ambito della conflittualità lavorativa, nel rilievo dell’ “inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870, cit., par. 13; conf. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, con nota di ROSIELLO, TAMBASCO, Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in ISL, 5/2023, p. 247 e ss.). Il risultato finale è un diretto corollario dei principi enunciati, che impatta anche sul riparto degli oneri probatori, ormai svincolato dalla prova -quasi penalistica- dell’intento persecutorio o della specifica volontà di emarginazione: “in caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest’ultimo grava l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 5; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 4; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 5).   La conflittualità lavorativa nel nuovo orientamento di legittimità Il novum delle ordinanze in esame, che porta ad affermare come le stesse non si limitino a far ripetizione di principi ormai invalsi nella giurisprudenza di legittimità, ma al contrario contribuiscano ad una significativa evoluzione del diritto vivente, è rappresentato proprio dal tema della conflittualità lavorativa. C’è da premettere che fino ad oggi, con l’eccezione di alcune isolate pronunce di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, in MAZZAMUTO, Mobbing, Milano, 2004, p. 180 e ss.), la giurisprudenza dominante ha sempre mantenuto ferma l’ontologica distinzione tra conflitto e vessazione, categorie che fanno riferimento, rispettivamente, alla natura bilaterale o unilaterale dello scontro sviluppatosi nell’ambiente di lavoro; se nel conflitto abbiamo infatti due “contendenti”, nella vessazione invece i protagonisti sono un aggressore e una vittima (cfr. Corte d’Appello di Bologna, sez. lav., 28 aprile 2010, n. 107).  Questa distinzione ha portato la giurisprudenza di merito e di legittimità, in modo unanime, a sostenere che non è configurabile la fattispecie persecutoria -e quindi la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.- nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi, poiché gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere l’intento persecutorio, elemento fondamentale per integrare la fattispecie mobbizzante (ex multis, Cass. 3 giugno 2022, n. 17974; Cass., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., 11 dicembre 2019, n. 32381; nel merito, cfr. Trib. Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, est. Sanlorenzo). In termini più semplici, se non c’è mobbing (quindi in assenza di una dinamica persecutoria), la conflittualità lavorativa, anche se colpevolmente ignorata dal datore di lavoro e nonostante possa essere fonte di danno alla salute, non rileva minimamente ai fini della responsabilità ex art. 2087 c.c.  Questo almeno fino alle ordinanze n. 3791 del 12 febbraio 2024 e n. 4279 del 16 febbraio 2024, con cui la Cassazione segna “un punto di svolta”, ponendo al centro del proprio scrutinio i fattori organizzativi e ambientali, ed ascrivendo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. la condotta del datore di lavoro che non abbia prevenuto né rimosso un “clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279,cit, par. 4) e un “contesto di conflittualità all’interno dell’istituto” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.3).  Si tratta di un autentico “cambio di paradigma”, che consente di giudicare con più equità situazioni non esauribili nella semplicistica alternativa vessazione/conflittualità. Se infatti poniamo mente alla realtà concreta, il datore di lavoro che ignori colposamente l’esistenza di rapporti conflittuali nei luoghi di lavoro fino al punto di rendere l’ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e fonte di concreti pregiudizi psico-fisici a danno dei dipendenti, è ugualmente censurabile rispetto al caso in cui realizzi scientemente delle vessazioni.  Proprio su questi presupposti, una risalente e illuminata pronuncia di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, cit.) aveva già valorizzato l’ambiente di lavoro caratterizzato da continue liti e da scontri reciproci (nel caso di specie, uno scontro tra primario e aiuto primario, caratterizzato da “modi di intendere la propria attività in termini di assoluta incompatibilità”), affermando che il datore di lavoro ha il dovere di intervenire, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di mobbing o molestie o discriminazioni, facendo riferimento agli obblighi prescritti dall’art. 2087 c.c., dall’art. 41 comma 2 Cost. (l’iniziativa economica privata non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana) e dall’art. 97 Cost. (l’organizzazione dei pubblici uffici deve assicurare il “buon andamento”).  Le recentissime ordinanze della Corte Suprema in commento sono andate addirittura oltre il principio affermato dalla citata sentenza del Tribunale di Forlì, dando rilievo al dovere del datore di lavoro, enucleabile dalla norma di chiusura dell’art. 2087 c.c., non solo di rimuovere ma anche di prevenire la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ambiente lavorativo (Cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.), nell’alveo di quel filone giurisprudenziale che da tempo afferma l’obbligo datoriale di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative (cfr. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684).  Se anche la conflittualità può quindi generare responsabilità ex art. 2087 c.c. soprattutto nei casi in cui sia rilevabile la colpevole inerzia datoriale, essa si differenzia tuttavia dalla persecuzione vera e propria non solo sul piano della fattispecie, ma anche e soprattutto dal punto di vista delle conseguenze risarcitorie.  Su questo piano, infatti, è di particolare importanza il principio enunciato proprio da una delle pronunce in esame che, nel definire le coordinate del potere equitativo del giudice nella liquidazione del compendio risarcitorio, ha sottolineato come il giudice debba comunque tenere in debita considerazione il fatto che “la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento” (Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 9; conf. Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101, cit.).  Lo spettro della quantificazione risarcitoria dovrà muoversi, pertanto, tra i due poli degli ii) illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (quale ad esempio la colpevole inerzia nel caso di tolleranza della generica conflittualità lavorativa) e delle i) condotte persecutorie connotate da sistematicità ed intenzionalità (mobbing, straining, stalking occupazionale etc.), che segneranno rispettivamente il limite minimo e quello massimo del risarcimento.  Conclusioni Tutte le ordinanze in commento si pongono nell’ambito delle discrepanze tra organizzazione e rapporti interpersonali sul luogo di lavoro, formula che fa riferimento ad una delle tre articolazioni in cui si sostanzia la nozione “polifunzionale” di stress lavorativo (cfr. ROSIELLO, TAMBASCO, Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all’orizzonte, in Il Giuslavorista, 8 novembre 2022). Più precisamente, il fil rouge che lega le pronunce in esame è l’adozione di una prospettiva sistemica e obiettiva che, nell’ampliare il raggio operativo dell’art. 2087 c.c., consente di dare rilievo e conseguentemente di riconoscere adeguata tutela rispetto agli ambienti lavorativi nocivi e stressogeni.  Come abbiamo già accennato, questo mutamento di prospettiva comporta un autentico “cambio di paradigma” dalle rilevanti conseguenze pratiche, i cui riflessi sono rappresentati dai recenti e numerosi annullamenti disposti dalla Suprema Corte.  Soprattutto sul piano dell’onere probatorio, infatti, la declinazione “oggettiva” dello scrutinio giudiziale, incentrato sulla violazione datoriale dei doveri atipici sottesi alla fattispecie dell’art. 2087 c.c., comporta un recupero dell’originario riparto previsto dalla responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., in cui alla prova della nocività dell’ambiente di lavoro, del danno e del nesso causale a carico del lavoratore fa da contrappeso l’onere datoriale di avere adottato “tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. 18 agosto 2023, n. 24804; conf., ex multis, Cass. 28 novembre 2022, n. 34968; Cass. 10 novembre 2022, n. 33239; Cass. 25 ottobre 2021, n.29909).  Siamo di fronte alla responsabilità colposa del datore di lavoro, lontana “anni luce” dalla torsione soggettivistica che aveva assunto l’invalsa interpretazione dell’art. 2087 c.c. in materia di condotte persecutorie, giunta a richiedere addirittura la prova di un non meglio precisato dolo specifico (cfr. Trib. Palermo, 14 ottobre 2021, n. 3800; Trib. Venezia, 3 novembre 2020, n. 310) dal sapore squisitamente penalistico.      In conclusione, la centralità dello stress lavorativo come fattore di rischio, già codificata dal legislatore attraverso l’obbligo di preventiva valutazione dei rischi delineato dall’art. 28 primo comma del d.lgs. 81/2008, comporta oggi sul piano operativo un notevole ampliamento dei doveri di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. Ampliamento che la Suprema Corte suggella con il riconoscimento della responsabilità contrattuale per la mancata prevenzione e rimozione della conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, in violazione dell’ormai cogente obbligo datoriale di intervenire per garantire ed eventualmente ripristinare la serenità necessaria al corretto espletamento delle prestazioni lavorative.     Ultime Cassazioni: Cass., ordinanza 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass., ordinanza 31 gen- naio 2024, n. 2870; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., ordinanza 12 febbraio 2022, n. 3822; Cass., ordinanza 16 febbraio 2024, n. 4279PMArticoliDiritto penaleDiritto dell'esecuzione penaleCorte Suprema di Cassazione - Sezione Prima Penale - Sentenza n. 9432 del 5 marzo 2024Avv. Prof. Dott. Criminologo Forense Giovanni MoscagiuroPubblicato il 5 mar. 2024 · tempo di lettura 2 minutiIl differimento facoltativo della penaAi fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord.pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr, ex multis, Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014; Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011).La giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che, ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria (Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009; Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019).La patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità (Sez. 1, n. 35826 del 11/05/2016). Prof. Dr. Giovanni MoscagiuroStudio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativoAUTORE DI DIVERSI TESTI VISIBILI AL LINK https://author.amazon.com/booksemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.comEsperto e Docente in Diritto Penale ,Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Gang Stalking, Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente in Criminologia e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, ausiliario del Giudice, CTU e CTP, Editori e Giornalisti European news Agency

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Mobbing sul lavoro: come tutelarsi?

30 set. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Per mobbing si intende l’insieme dei comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di emarginare il soggetto che ne è vittima.Sebbene non esista una legge esplicitamente dedicata a questo fenomeno, l’ordinamento comunque offre diversi strumenti di tutela.Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi? Qual è la normativa di riferimento?È previsto il risarcimento del danno? Vi sono altri strumenti per difendersi?1 - Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi?Da diverso tempo il termine mobbing è entrato a far parte del vocabolario comune per indicare una serie di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare il soggetto che ne è vittima.Pur mancando un’espressa disciplina in merito, la giurisprudenza ha definito il fenomeno del mobbing come “una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo”.Da questa definizione ne consegue che le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più svariate: ad esempio il lavoratore potrebbe ritrovarsi relegato in una postazione scomoda, essere escluso da riunioni, comunicazioni, progetti, essere assegnato a qualifica inferiori o dequalificanti, e così via.Come ha chiarito la giurisprudenza – sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione – gli elementi costitutivi del mobbing sono: a) una serie di comportamenti persecutori posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del lavoratore; c) il nesso di causalità tra le condotte e il pregiudizio; d) l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio.2 - Qual è la normativa di riferimento?Come già detto, nell’ordinamento italiano manca una disciplina specificatamente dedicata al fenomeno del mobbing. Tuttavia, diverse sono le norme che, tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori, consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che integrano il fenomeno del mobbing.Difatti, è possibile richiamare norme costituzionali – artt. 2, 3, 4, 32, 35, 41 della Costituzione –, norme del codice civile – in particolare artt. 2087, 2103, 1175, 1375, 2043, 2049 codice civile –, ma anche altre fonti, quali la Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), il D.Lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e il D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico per la sicurezza sul lavoro).3 - È previsto il risarcimento dei danni?È previsto il risarcimento dei danni per le vittime di mobbing, ma le modalità per ottenerlo variano a seconda del tipo di responsabilità che il lavoratore danneggiato intende far valere in giudizio. In effetti, le condotte di mobbing possono dar luogo a profili di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.Si può parlare di responsabilità contrattuale nei casi in cui il danneggiato lamenti l’inadempimento di un’obbligazione preesistente. Nel caso del mobbing, quindi, ad essere inadempiuta è un’obbligazione che trova la propria fonte direttamente nella legge, ossia nell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore – e al datore di lavoro in generale – di adottare tutte le misure più idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.Nel far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing deve indicare e provare i comportamenti vessatori subìti, dando prova del danno patito e del relativo nesso causale. Non dovrà, invece, provare l’atteggiamento psicologico (dolo o colpa) di colui che, col suo inadempimento, ha provocato il danno. Difatti, in ambito contrattuale, l’ordinamento presume la colpa della parte inadempiente e spetterà a quest’ultima provare che l’inadempimento sia dovuto a fatti a lei non imputabili.Questa, per così dire, “agevolazione probatoria” si scontra, tuttavia, con la circostanza per cui uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio il dolo del mobber, ossia l’intento persecutorio (elemento psicologico che, in quanto tale, è difficile da dimostrare). Sul punto, in ogni caso, è intervenuta la giurisprudenza che, per non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, ha chiarito che quest’ultimo possa limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta subìta. Va detto, infine, che l’azione di responsabilità contrattuale è soggetta a un termine prescrizionale di dieci anni.Ricorre, invece, ipotesi di responsabilità extracontrattuale qualora un soggetto danneggi ingiustamente altro soggetto al quale non era legato da vincolo obbligatorio. Per quel che riguarda il mobbing, ciò accade quando la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, sebbene diversi dal datore di lavoro.Per intraprendere azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dar prova di tutti gli elementi previsti dall’articolo 2043 c.c., ossia il fatto dannoso, il danno patito, il nesso causale tra fatto e danno e l’elemento psicologico del dolo del danneggiante.L’azione di responsabilità extracontrattuale è soggetta a un termine di prescrizione di cinque anni e consente di invocare il risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta. 4 - Vi sono altri strumenti per difendersi?Anche in questo caso la risposta è affermativa.Difatti, oltre al risarcimento del danno, il lavoratore vittima di mobbing ha a disposizione altri strumenti di tutela con cui cercare di arginare le condotte vessatorie.Ad esempio, in primo luogo, considerato l’obbligo di protezione dell’incolumità dei lavoratori che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro, una prima azione proponibile dal lavoratore vittima di mobbing è quella di adempimento, al fine di costringere il datore di lavoro ad adottare le misure adeguate di contrasto e prevenzione rispetto alle condotte mobbizzanti perpetrate da altri lavoratori sottoposti alla sua autorità.L’inadempimento dell’obbligo di protezione incombente sul datore di lavoro potrebbe, in base all’art. 1460 c.c., consentire al lavoratore di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione lavorativa sino al momento in cui non siano adottate le misure in grado di arginare il fenomeno dannoso.L’ultimo, e certamente più radicale rimedio, è quello delle dimissioni per giusta causa, in seguito alle quali il lavoratore ha il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, vale a dire una somma di denaro pari alla retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.Editor: avv. Marco Mezzi

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