Avv. Marco Mezzi
La vendita con riserva di proprietà, disciplinata dagli articoli 1523 e seguenti del codice civile, è un tipo speciale di compravendita.
In questa fattispecie, nota anche come patto di riservato dominio, rientrano tutte quelle circostanze in cui la disciplina della vendita si discosta da quella ordinaria per un elemento in particolare. Difatti, tramite questo istituto si consente a chi non è in grado di pagare il prezzo di un dato bene al momento della consegna di acquistarlo ugualmente e goderne, sin da subito, pagando ratealmente.
La vendita con riserva di proprietà o patto di riservato dominio consiste essenzialmente nell’accordo in base a cui i contraenti, nel pieno esercizio della propria autonomia contrattuale ed in deroga alla regola generale, convengono che l’effetto del trasferimento della proprietà di un determinato bene sia differito sino al momento in cui non sia avvenuto, per intero, il pagamento del prezzo pattuito.
L’articolo 1523 del codice civile prevede che nella vendita a rate con riserva della proprietà, il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della consegna.
Si può, pertanto, affermare che questa norma contemperi le contrapposte esigenza di venditore e acquirente.
Difatti, l’acquirente, nell’ipotesi in cui intenda acquistare un bene pur non disponendo dell’intera somma, può frazionare la prestazione; viceversa, il venditore conserva la garanzia reale della proprietà del bene di cui si tratta, sino all’effettivo adempimento.
Per rispondere a questa domanda è necessario analizzare il primo comma dell’articolo 1524 del codice civile.
Tale norma statuisce che la riserva della proprietà è opponibile ai creditori del compratore, solo se risulta da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento.
In tema di opponibilità ai terzi assume rilevanza anche la distinzione tra l’opposizione nei confronti dei creditori del venditore e del compratore, nonché la natura dei beni alienati.
In particolare, nel caso si tratti di beni immobili o beni mobili registrati, l’opposizione ai terzi si può avere esclusivamente dopo aver trascritto l’atto. Inoltre, non rileva la domanda di risoluzione del contratto da parte del venditore trascritta prima dell’opposizione.
Se, invece, i beni sono mobili si può opporre la riserva ai creditori solo se questa è stata fatta per iscritto e riporti una data certa precedente al pignoramento o alla dichiarazione di fallimento del compratore.
Il codice civile, all’articolo 1525, prevede una forma di tutela nei confronti del soggetto acquirente che non paghi una rata del contratto di vendita con riserva della proprietà.
Tale norma, infatti, stabilisce che il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto.
Laddove però non sia pagata più di una rata o nel caso in cui la stessa superi l’ottava parte del prezzo, sarà il Giudice a dover fornire una valutazione circa la risoluzione della vendita in relazione all’entità dell’inadempimento.
Il successivo articolo 1526 stabilisce che, nell’ipotesi in cui vi sia la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà per inadempimento del compratore, il venditore è tenuto alla restituzione delle rate già riscosse, salvo il diritto a ottenere un equo compenso per l’uso del bene e al risarcimento dei danni.
Sebbene la legge disciplini il patto di riservato dominio nell’ambito della compravendita di beni mobili, negli ultimi anni si è sempre più diffusa l’opinione favorevole per un’applicazione generalizzata di questo istituto.
Ne consegue che anche i beni immobili possono essere venduti con riserva di proprietà.
Come già esplicato, con la vendita con riserva di proprietà l’acquirente assume immediatamente a proprio carico i rischi relativi all’immobile non acquistando la proprietà dello stesso sino al pagamento dell’ultima rata.
La vendita con riserva di proprietà è trascritta nei registri immobiliari sia pure con la segnalazione della presenza di una condizione sospensiva data, per l’appunto, dal pagamento dell’ultima rata del prezzo pattuito.
La dottrina maggioritaria ritiene che il trasferimento del rischio, di cui all’articolo 1523 del codice civile, comporti il trasferimento, in capo all’acquirente, di eseguire tutti gli interventi di manutenzione, ordinaria e straordinaria, nonché l’obbligo di pagare gli oneri condominiali.
La stessa dottrina, tuttavia, ritiene che spetterà al venditore, in quanto proprietario sino all’adempimento del pagamento dell’ultima rata pattuita, la corresponsione dell’IMU. Ciò perché la legge prevede che il soggetto passivo IMU sia, per l’appunto, il proprietario di un bene immobile o colui il quale goda di un diritto reale sullo stesso.
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2 mag. 2025 • tempo di lettura 3 minuti
Con mantenimento diretto ci si riferisce a quella forma di assistenza economica che il genitore separato dà ai propri figli non versando un assegno periodico, ma provvedendo direttamente a soddisfare le loro esigenze. Si tratta di una modalità di sostegno che contribuisce a una piena attuazione del principio della bigenitorialità in quanto, in sostanza, crea una situazione il più possibile simile a quella di una famiglia unita.Ciò premesso, tale forma di mantenimento non è stata in passato particolarmente apprezzata dalle Corti italiane. Ed invero, Giurisprudenza di legittimità osserva che "il coniuge - divorziato o separato - ha diritto ad ottenere, iure proprio, dall'altro coniuge, il contributo per mantenere il figlio minorenne o maggiorenne convivente, non in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento (Cass. 11863 del 25 giugno 2004), e l'affidamento congiunto del figlio ad entrambi i genitori - previsto dall'articolo sei della legge sul divorzio (1 dicembre 1970, numero 898, come sostituito dall'articolo 11 della legge 6 marzo 1987, numero 74), analogicamente applicabili anche alla separazione personale dei coniugi - è istituto che, in quanto fondato sull'esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l'obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza, rimanendo per converso escluso che l'istituto stesso implichi, come conseguenza "automatica", che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto e autonomo, alle predette esigenze, principio confermato nelle nuove previsioni della legge 8 febbraio 2006, numero 54, in tema di affidamento condiviso (Cass. n. 26060 del 10/12/2014; Cass. n. 16376 del 29/07/2011; Cass. n. 18187 del 18//8/2006").Anche la sentenza della Cassazione n. 16739 del 6 agosto 2020 ribadisce lo stesso concetto: "l'obbligo di mantenimento del minore da parte del genitore non collocatario deve far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all'assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello economico e sociale della famiglia, di modo che si possa valutare il tenore di vita corrispondente a quello goduto in precedenza.".Dello stesso tono Cass. n. 1722 del 16 giugno 2021, secondo cui il mantenimento diretto non sarebbe conciliabile con il regime dell'affido condiviso. Questa interpretazione non è ben accetta alla dottrina più attenta, che non ha mancato di sollevare pesanti critiche a questa impostazione anacronistica.Ultimamente, però, attenta Giurisprudenza di merito sembra aver rivisto le proprie posizioni.Apripista in questo senso è stato il Tribunale di Perugia, che già nel lontano 2012, sottolineava che il mantenimento diretto era l'unico strumento per realizzare pienamente un affido condiviso, sottolineando che "se il figlio passa lo stesso tempo a turno con entrambi i genitori va revocato l’assegno di mantenimento previsto, in via provvisoria, a carico del padre in favore della madre". Anche il Tribunale di Alessandria (Trib. Alessandria 31.05.2022) ribadiva questo concetto, supportandolo con il fatto che esso realizza pienamente l'idea di bigenitorialità che permea il nostro diritto di famiglia.Anche la Suprema Corte, in una recente sentenza, sembra aver recepito questo orientamento, il che lascia ben sperare che nel futuro - si psera prossimo - gli Ermellini possano davvero decidere un cambio di rotta che non solo corrisponde ad una diffusa logicità, ma che anche appare potenzialmente in grado di eliminiare (o, quanto meno, ridurre) il contenzioso di famiglia. Non dimentichiamo, infatti, che obbligazioni di pagamento (spesso confuse come rendite vitalizie) diventano un incentivo a cause di divorzio che hanno come unico scopo quello di garantirsi un'entrata fissa.Cosa accade, quando il figlio diventa maggiorenne? Ne parleremo nel prossimo articolo.
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1 mar. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
In virtù della previsione dell’art. 1588 c.c. l’inquilino è responsabile della perdita e deterioramento del bene nel corso della locazione e quindi anche dell’incendio ai danni dell’immobile (in tal senso Trib. Busto Arsizio 10.10.2018 n . 1591).La responsabilità del conduttore viene meno qualora quest’ultimo riesca a provare che l’evento non sia dovuto a causa a lui imputabile. L’onere di provare l’assenza di responsabilità grava quindi sull’inquilino stesso il quale potrà esimersi da responsabilità solo dimostrando che ha custodito il bene con diligenza, ovvero che l’evento ha avuto origine dal fatto di un terzo (integrando così il caso fortuito per fatto del terzo).E’ in ogni caso opportuno osservare che il proprietario è comunque tenuto alla manutenzione del bene e degli impianti che non sia di carattere ordinario, per cui lo stesso potrà essere comunque ritenuto responsabile nell’ipotesi in cui l’incendio sia divampato in conseguenza dell’omessa manutenzione necessaria.Nei confronti dei terzi rispondono dei danni derivanti dall’incendio sia il proprietario sia il conduttore, salvo che sia stata acclarata (ad esempio con sentenza) la responsabilità esclusiva dell’inquilino.Avv. Ruggiero GorgoglioneWR Milano Avvocatiwww.wrmilanoavvocati.comwravvocati@gmail.com+393397007006
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20 dic. 2025 • tempo di lettura 5 minuti
La pubblicazione e il relativo consenso di pubblicare e condividere le foto dei propri figli sui social è un tema molo dibattuto nel diritto di famiglia e rappresenta un terreno di scontro non solo per coppie sposate e non, ma anche in dottrina e giurisprudenza le opinioni sono spesso discordanti. Partiamo dall'assunto secondo cui, per potere pubblicare le foto dei figli minori, è necessario il consenso di entrambi i genitori che godano della responsabilità genitoriale. In tal modo, si cerca di tutelare il diritto costituzionalmente rilevante all’immagine e alla riservatezza, che nel caso dei bambini gode di una salvaguardia privilegiata che trova il suo fondamento giuridico nella legge 176/1991, che ha ratificato in Italia la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (la quale, all’art. 16 c.1, prevede che i minori non possano essere oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella loro vita privata, né di affronti illegali al loro onore e reputazione) nonché nell’articolo 10 del Codice civile, e nell’articolo 2 della Costituzione. Più recentemente, è anche intervenuto il Regolamento Europeo sulla Privacy, il quale dispone che: “I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali (…)”; (Considerando n. 38 Regolamento UE 679/2016). Il medesimo Regolamento (articolo 8), come attuato in Italia (d.lgs. n. 101/2018 art. 2 quinquies), stabilisce che il trattamento dei dati personali del minore di età inferiore a 14 anni, come la pubblicazione di immagini, sia lecito purché il consenso venga prestato da chi esercita la responsabilità genitoriale. Fatte tali necessarie premesse, esaminiamo alcune pronunce di diversi Tribunali, che si sono pronunciati al riguardo:Il Tribunale di Trani (ordinanza 30 agosto 2021) ha accolto il ricorso d’urgenza promosso dal padre di una minore nei confronti della madre, da cui era legalmente separato, per rimuovere le immagini e le informazioni relative alla figlia pubblicate sui social network, inibendone la futura diffusione senza l’espresso consenso paterno e condannando la madre, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., al pagamento di una somma di denaro - a favore della figlia - per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento e per ogni violazione o inosservanza successiva.Infatti, la Corte ha ritenuto fondate le ragioni di un padre, in totale disaccordo sulla pubblicazioni di immagini della figlia minore, e ha ordinato alla madre di rimuovere dai propri social tutte le immagini pubblicate della figlia, le ha inibito per il futuro di diffondere immagini e video della minore senza il consenso del padre e l’ha addirittura condannata una cifra simbolica per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento e, dunque, nella cancellazione delle immagini già pubblicate. - Questa pronuncia ricalca un meno recente, ma sempre attuale, provvedimento del Tribunale di Mantova del 2017. In quella occasione il Tribunale ha considerato l’inserimento di foto dei figli minori sui social, avvenuto con l’opposizione dell’altro genitore, una violazione di norme interne e internazionali: l’articolo 10 del codice civile, gli articoli 4,7,8 e 145 del Codice in materia di dati personali e gli articoli 1 e 16, comma 1, della Convenzione di New York del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991 e l’art. 8 del Regolamento europeo n. 679 del 2016 (non ancora in vigore all’epoca).Questa pronuncia ricalca un meno recente, ma sempre attuale, provvedimento del Tribunale di Mantova del 2017. In quella occasione il Tribunale ha considerato l’inserimento di foto dei figli minori sui social, avvenuto con l’opposizione dell’altro genitore, una violazione di norme interne e internazionali: l’articolo 10 del codice civile, gli articoli 4,7,8 e 145 del Codice in materia di dati personali e gli articoli 1 e 16, comma 1, della Convenzione di New York del 1989, ratificata dall’Italia nel 1991 e l’art. 8 del Regolamento europeo n. 679 del 2016 (non ancora in vigore all’epoca).Anche il Tribunale di Roma, sulla scia di precedenti decisioni, ha dichiarato che "deve essere disposta, a tutela del minore e al fine di evitare il diffondersi di informazioni anche nel nuovo contesto sociale frequentato dal ragazzo, l’immediata cessazione della diffusione da parte della madre in social network di immagini, notizie e dettagli relativi ai dati personali e dati personali e alla vicenda giudiziaria inerente il figlio". Tra le ultime pronunzie vi è la sentenza del Tribunale di Rieti n. 443 del 17.10.2022 che si è occupata del caso di una zia (sorella della madre dei minori) che ha condiviso su una nota piattaforma social la foto di due bambini senza il consenso del padre. Il Giudice ha stabilito che “la pubblicazione sui social network di fotografie ritraenti soggetti minori di età richiede il necessario preventivo consenso esplicito di entrambi i genitori ai sensi dell’art. 320 c.c., in quanto si tratta di un atto che eccede l’ordinaria amministrazione, avente ad oggetto il trattamento di dati sensibili". Qualora si violi tale principio, è risarcibile il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’immagine e del diritto alla privacy del minore ritratto, purché allegato in modo sufficientemente specifico e provato, sia pure per presunzione. Dal nostro punto di vista condividiamo pienamente tali decisioni, che sono prese nel pieno rispetto del concetto di bigenitorialità alla base del nostro ordinamento e che rispecchiano, a parte ogni altra considerazione, l'importanza della condivisione su scelte fondamentali che riguardano i figli. Resta, infine da chiarire quando diventa reato pubblicare le foto dei minori sui social. Di questo, però, ci occuperemo in un prossimo intervento!
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4 mag. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Negli ultimi mesi abbiamo vissuto una situazione peculiare che ha sollevato non pochi quesiti anche a livello di diritto di famiglia. In particolare, ci si é chiesti se le misure di contenimento della pandemia da COVID -19 possano o meno giustificare una riduzione dell´assegno di mantenimento. A nostro modesto parere, la questione appare abbastanza semplice. La normativa italiana (art. 156 del Codice civile e art. 9, comma 1, della legge 898/70) prevedono che, una volta statuiti eventuali accordi in merito all´assegno di mantenimento, tali pattuizioni fanno riferimento alla situazione esistente al momento della divisione coniugale. , solo se tale situazione dovesse cambiare sensibilmente, se ne potrà chiedere il riesame per adeguare – secondo un vaglio comparativo delle condizioni delle parti (Cassazione 1119/2020) – l’importo o lo stesso obbligo contributivo al quadro attuale. Non si procederà, pertanto, ad una nuova ponderazione di fatti già esaminati ma si accerterà se, ed in che misura, gli eventi sopravvenuti abbiano alterato gli equilibri così da bilanciare gli impegni economici con il mutato assetto (Cassazione 22269/2020). Tanto premesso, la pandemia e le misure di contenimento ad essa collegate assumono una certa importanza solo e nella misura in cui le stesse abbiano o meno influito sulla situazione economica. Dovrà, poi, attentamente valutarsi se tali condizioni si sino modificate in peius e se tale peggioramento sia destinato ad essere permanente e non temporaneo. Se effettivamente ci si trova di fronte ad una mutata situazione a carattere permanente, si potrá richiedere la modifica delle condizioni di separazione e/o di divorzio. In caso contrario, tale richiesta sará obtorto collo destinata ad essere respinta. PROF. AVV. DOMENICO LAMANNA DI SALVO MATRIMONIALISTA - DIVORZISTA - CURATORE SPECIALE DEL MINORE
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