Egregio Avvocato
Pubblicato il 17 nov. 2021 · tempo di lettura 1 minuti
La maggior parte degli esercizi commerciali sono obbligati ad emettere lo scontrino fiscale. La regola è quella secondo cui ad esito del pagamento del cliente deve essere emesso lo scontrino, e solo eccezionalmente alcuni soggetti sono esonerati (es. tabaccai o benzinai).
In caso di mancata emissione dello scontrino, sicuramente il negoziante commette un’evasione fiscale, a fronte della quale dovrà applicarsi una sanzione tributaria: si tratta di illecito amministrativo, e non invece di reato. Le uniche autorità competenti ad accertare le evasioni sono l’Agenzia delle Entrate e, per conto di questa, la Guardia di Finanza.
Differente è la situazione del cliente. Dal 1999 al 2003 è esistita una norma che imponeva al cliente l’obbligo di chiedere lo scontrino, riconoscendo quindi una responsabilità anche in capo al cliente, che veniva sanzionato mediante una multa.
A partire dal 2003, invece, è stata espunta qualsiasi tipo di responsabilità in capo al cliente, il quale non ha più alcun tipo di obbligo e non può essere sanzionato in alcun modo.
Certamente il cliente potrà comunque segnalare il negoziante che non gli ha voluto rilasciare lo scontrino, mediante una segnalazione (non anonima!) alla Guardia di Finanza. Invero oggi, richiedere lo scontrino fiscale risponde ad un “obbligo sociale”, e inoltre può rivelarsi molto utile per il cliente stesso, che potrà detrarre alcune spese nella dichiarazione dei redditi.
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Egregio Avvocato
4 mag. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Come risaputo, il matrimonio, secondo il Codice di Diritto Canonico, ha natura di sacramento e, come tale, è da considerarsi indissolubile. Vi sono, tuttavia, alcune situazioni, tassativamente previste dalla legge canonica, in presenza delle quali il vincolo coniugale è considerato invalido e pertanto, il matrimonio è dichiarato nullo, tam quam non esset. Tale annullamento deriva da un procedimento giudiziario da instaurare innanzi alle Giurisdizioni canoniche (Tribunali Ecclesiastici) e mirante non tanto ad evidenziare una crisi del rapporto coniugale (come fa il Giudice civile), bensì ad appurare se vi sia o meno un vizio tale da rendere il consenso prestato dinnanzi al Sacerdote nullo, ovvero se vi sia stato una violazione dei cosiddetti "bona matrimonii" (exempli gratia, il classico caso del "matrimonium ratum sed non consumatum"). Da questa sommaria descrizione emerge a chiare lettere la netta "superiorità dottrinale" del Codex Iuris Canonici rispetto al codice civile italiano: quest'ultimo, invero, ha ridotto il matrimonio alla stregua di un contratto, prevedendone lo scioglimento con strumenti che, oramai, vengono usati ed abusati solamente a fini economici ed edonistici, mentre la Dottrina di Santa Romana Chiesa - eterna ed immutabile - accentua solo l'esistenza (e quindi la validità) del sacro vincolo, oppure la sua inesistenza per via di un vizio del consenso. Pur riconoscendo ad ognuno piena libertà di valutare quale sistema sia preferibile, da matrimonialista mi schiero apertis verbis a favore del vecchio ma sempre perfetto schema canonistico: Il matrimonio non deve essere degradato ad un mercimonio!PROF. AVV. DOMENICO LAMANNA DI SALVO MATRIMONIALISTA - DIVORZISTA - CURATORE SPECIALE DEL MINORE
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25 lug. 2025 • tempo di lettura 6 minuti
Come noto, il principio di bigenitorialità è stato introdotto con la L. 54/2006, riguardante l'affidamento condiviso. Questo principio è stato poi ripetutamente ribadito dalla Corte di Cassazione che lo ha, però, subordinato al benessere del bambino. L'art. 337 ter c.c. afferma che "il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale".Per assicurare ciò, il giudice adotta provvedimenti che perseguano l'interesse esclusivo della prole, decidendo:· tempi e modalità della presenza dei figli minori presso ciascun genitore;· come e in quale misura ciascun genitore contribuisca al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli.Il comma 4 dell'art. 337-ter c.c. prosegue affermando che, se non ci sono accordi tra i genitori circa le modalità di mantenimento dei figli, sarà il giudice a decidere l'ammontare dell'assegno di mantenimento, tenendo conto:· delle attuali esigenze del figlio;· del tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;· dei tempi di permanenza presso ciascun genitore;· delle risorse economiche di entrambi i genitori;· della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.Negli ultimi anni, la legge 54/2006 ha introdotto il principio di bigenitorialità, riguardante l'affidamento condiviso. Questo principio, ripetutamente ribadito dalla Corte di Cassazione, è comunque subordinato al benessere del bambino.Tanto premesso, ci si chiede se il minore in tenera età possa pernottare anche con il padre non affidatario.Al riguardo, è opportuno, in primis, analizzare i risultati scientifici, per poi passare ad una disamina dell'orientamento giurisprudenziale delle Corti italiane.La scienza sottolinea che l'attaccamento padre-figlio è un legame che non si origina da solo, ma va migliorato ogni giorno. Il ruolo del padre è importante nella crescita dei figli quanto quello della madre, e questo si è modificato soprattutto negli ultimi decenni. La relazione con le figure di riferimento risulta essere fondamentale per lo sviluppo non solo relazionale, ma anche psicologico e affettivo del bambino. Una figura paterna presente e che si occupa dei propri figli permette una crescita più armoniosa e questo si riflette in modo positivo sulla vita del bambino, anche una volta diventato adulto.Già nel 2013 una ricerca francese rilevava come il rischio di perdere definitivamente il contatto con un genitore fosse dell’1 per cento nel caso in cui il giudice stabilisse un affidamento paritetico alla prima udienza e salisse al 21% nel caso di un affidamento ‘tradizionale’ (2 week-end al mese col padre). La perdita genitoriale nei primi 9 anni di vita è correlata ad una aumentata probabilità di danni cromosomici con rischio elevato di malattie organiche a distanza.Nel 2014, una ricerca coordinata dal prof. Richard Warshak con l’endorsement di 110 ricercatori internazionali, concentrata sulla revisione della letteratura internazionale relativa all’affidamento materialmente condiviso per bambini sotto i quattro anni, arrivava a concludere che:1. “Non c’è evidenza della necessità di ritardare l’introduzione di un frequente e regolare coinvolgimento (pernottamento incluso) di ambedue i genitori coi propri figli”;2. “In generale, i risultati degli studi rivisitati in questo documento sono favorevoli ai piani genitoriali che meglio equilibrano il tempo dei bambini presso le due case”.In uno studio del 2016 William V. Fabricius e Go Woon Suh hanno evidenziato come il pernottamento in forma paritaria di bambini sotto i 2 anni comporta:1. migliori relazioni del bambino sia col papà sia con la mamma nel breve termine;2. migliori relazioni con il papà e la mamma a lungo termine.Una ricerca governativa svedese ha evidenziato, su un campione di 3656 bimbi in età prescolare (3-5 anni), che quelli in regime di affidamento materialmente condiviso mostrano minori sintomi di disturbo psicologico di quelli in affido materialmente esclusivo. E un altro studio svedese ha evidenziato l’assenza di differenza a livello di ormone dello stress fra bambini in affido paritetico-alternato e in affido a residenza prevalente.Alla luce di questi risultati, il Consiglio d’Europa ha osservato che la decennale esperienza dell’Australia, ove la presunzione di affidamento materialmente condiviso esiste dal 2006, risulta benefica sopra i 4 anni di età e priva di qualunque effetto nocivo tra i 2 e i 4 anni.Fin qui i risultati scientifici. Ma cosa succede nelle Corti italiane?Purtroppo, la questione appare ben lungi dall'essere unanimemente considerata.Un primo orientamento (ex plurimis, Cass. 16125/2020) ritiene che il diritto di visita dei genitori di bambini in tenera età possa subire restrizioni solo ed esclusivamente se ciò ricada nell'ambito dell'interesse del minore, pur sottolineando a chiare lettere la tutela del principio di bigenitorialità "inteso quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi i genitori, nel dovere dei primi di cooperare nell'assistenza, educazione e istruzione della prole."Analogamente, la Suprema Corte nel 2024 (Cass. n.19069/2024 pubblicata l’11 luglio 2024), confermando quanto precedentemente statuito dalla Corte d’Appello di Ancona, non prevedeva alcun pernottamento fino al raggiungimento dei 3 anni di età del figlio. Osservava la Corte di Appello di Ancona che fino ai tre anni, il minore deve dormire in casa della madre. La scelta del pernottamento esclusivo del figlio presso l'abitazione della madre veniva motivata affermando che il pernottamento presso il padre sarebbe stato dannoso per il minore. Veniva, pertanto, ribadito che, fino al terzo anno di età del bambino, il padre avrebbe avuto diritto di passare due pomeriggi alla settimana con il figlio, uno infrasettimanale e uno nel weekend; per le vacanze estive e natalizie il padre avrebbe potuto passare due settimane consecutive con il figlio, ma sempre senza il pernottamento.Il provvedimento della Cassazione risponde alle crescenti preoccupazioni relative alla gestione dell’affidamento nei primi anni di vita del bambino. La decisione sottolinea l’importanza di un ambiente stabile e familiare, evidenziando che, fino ai tre anni, il pernottamento fuori dalla casa delgenitore collocatario potrebbe costituire un elemento di stress per il minore. Un altro orientamento, invece, sembra aderire alle conclusioni scientifiche su riportate.Sempre nel 2024, gli Ermellini (Cassazione Civile, Sez. I, 9 aprile 2024, n. 9442) osservavano che "i tempi di permanenza dei minori presso il genitore non convivente devono di regola comprendere tutti i momenti della vita quotidiana del minore, anche se in misura proporzionalmente ridotta rispetto ai tempi di convivenza con l’altro genitore, e in essi vanno compresi i pernottamenti – salvo che si evidenzi uno specifico e attuale pregiudizio per il minore – in modo da consentire al genitore non convivente con il figlio di svolgere pienamente le sue funzioni di cura, educazione, istruzione, assistenza materiale e morale, in conformità alle condizioni del provvedimento di affidamento".Tale dicotomia è ancor più marcato nella Giurisprudenza di merito.Come si vede, siamo ben lontani dall'avere un orientamento univoco, anche se ciò sarebbe davvero auspicabile.A nostro modesto parere, la suddivisione dei tempi di permanenza presso ciascun genitore è il frutto di una valutazione ponderata del giudice del merito, che partendo dall’esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, deve tener conto anche del suo diritto ad una significativa relazione con entrambi i genitori e il diritto di questi ultimi di esplicare, nella relazione con i figli, il proprio ruolo educativo.Ci auguriamo che si possa arrivare quanto prima ad un orientamento univoco, nel supremo interesse del benessere psico - fisico dei minori.
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14 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
Nonostante siano comunemente usati come sinonimi, i due termini hanno significati ben diversi:“Risolvere” il contratto significa scioglierlo, farlo venire meno se si verificano eventi che ne impediscono la prosecuzione: perché una delle parti non adempie, perché è impossibile eseguire la prestazione o questa è divenuta eccessivamente onerosa, per volontà delle parti stesse o in altri casi specifici previsti dalla legge.Il contratto invece si “rescinde” in casi del tutto eccezionali e anomali, cioè quando il contratto è concluso in stato di pericolo ed a condizioni inique oppure quando una parte versava in condizione di bisogno e vi sia una notevole sproporzione tra i valori delle prestazioni pattuite (una vale più del doppio dell’altra).
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Egregio Avvocato
16 lug. 2025 • tempo di lettura 2 minuti
Un problema molto frequente nelle cause di separazione e divorzio riguarda il mantenimento da corrispondere ai figli maggiorenni. Le Corti italiane, nel decidere sulla vicenda, assumono di solito orientamenti contrastanti, ma recentemente la Cassazione ha cercato di fare chiarezza sul punto. Vogliamo pertanto analizzare la vicenda alla luce delle recenti statuizioni.Il primo criterio da considerare per decidere se mantenere o revocare l'assegno di mantenimento è l'età del figlio. Il raggiungimento della maggiore età è il punto di partenza (Cass. 22813/2023), seguito da una valutazione che tiene conto dell'età e della capacità di autosostentamento del figlio. L'obbligo di mantenimento non può protrarsi oltre certi limiti di tempo e ragionevolezza. Recentemente, la Cassazione (Cass. 2259/2024 ha sancito che, se il figlio ha compiuto 30 anni ed è ancora senza lavoro, cessa il sostegno economico. Questo principio si applica anche se il giovane ha solo svolto stage o tirocini, senza riuscire a trovare un'occupazione stabile. Le motivazioni sono state riprese anche da più recenti ordinanze della Cassazione (Cass. 24731 del 16 settembre 2024; Cass. 24391/2024). Cruciale è, al riguardo, il cosiddetto "principio di auto responsabilità" (cfr., in tal senso, Cass. n. 26875 del 2023),secondo cui un adulto dovrebbe essere in grado di mantenersi autonomamente, senza dipendere dai genitori. Ovviamente, se un figlio sta ancora studiando subito dopo aver raggiunto la maggiore età, ha diritto al mantenimento. Tuttavia, per chi ha superato i trent'anni, dimostrare la necessità di questo sostegno diventa più difficile. Il figlio dovrà provare che ci sono ragioni valide, non dipendenti dalla sua volontà, che gli impediscono di lavorare.Nel contesto odierno, l'ingresso nel mondo del lavoro può essere lungo e complesso, e frequentare uno stage è spesso parte di questo processo. Tuttavia, come sottolineato dalla Cassazione, svolgere un tirocinio non giustifica il mantenimento a lungo termine. Se un figlio trentenne è ancora coinvolto in attività formative o non stabili, è ragionevole considerare che ciò possa dipendere da una scarsa attitudine a cogliere le opportunità, piuttosto che dalla mancanza di occasioni lavorative. In conclusione, gli ermellini sembrano indicare il limite dei 30 anni come una barriera invalicabile, oltre la quale si perde il diritto al mantenimento. Anche prima dei 30 anni, però, il mantenimento può essere revocato in determinate situazioni (Cass. 38366/2021), ad esempio:· scarso rendimento negli studi (Cass. civ. n. 27377/2013), come il mancato superamento di esami o il loro svolgimento con tempi molto dilatati (Cass. 8049/2022);· mancanza di impegno nella ricerca di un'occupazione, ad esempio la mancata partecipazione a stage, tirocini o concorsi pubblici (cfr., in tal senso, Cass. n. 38366 del 2021)· non iscriversi al centro per l'impiego o non inviare il curriculum per cercare lavoro (Cass 27818 del 28.10.2024).Ciò premesso, è anche vero che il genitore non può decidere autonomamente di smettere di versare l'assegno di mantenimento. Solo il giudice ha il potere di revocare l'obbligo di mantenimento, previa richiesta formale da parte del genitore. Pertanto, è importante valutare la situazione nel caso concreto, prima di prendere qualsivoglia decisione ed esporsi a conseguenze più gravi.
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