L’art. 572 cp: Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi

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Pubblicato il 7 gen. 2021 · tempo di lettura 5 minuti

L’art. 572 cp: Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi | Egregio Avvocato

Il reato previsto dall’art. 572 cp si pone a tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei soggetti appartenenti ad un medesimo nucleo familiare. Oggetto di plurime modifiche, tra cui l’ultima nel 2019, oggi il reato di maltrattamenti tenta di ricomprendere nella tutela una concezione molto ampia di “famiglia”, in risposta all’evoluzione del contesto storico nel quale viviamo.


1. Cosa prevede il reato di maltrattamenti?

2. Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?

3. Cosa fare se si è vittima di maltrattamenti?

4. Esiste un numero verde al quale potersi rivolgere?


1 - Cosa prevede il reato di maltrattamenti?


L’art. 572 cp non descrive compiutamente cosa si intende per “maltrattamenti” e si limita ad indicare una sanzione per “chiunque maltratta”. 


Nonostante la poca chiarezza normativa, è pacifico che i maltrattamenti possono consistere:


  • in atti di violenza fisica, come percosse o lesioni; 
  • ma anche di violenza morale, come ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima; 
  • o ancora, in atti di disprezzo e di offesa alla dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali


L’evento tipico del reato di maltrattamenti, infatti, è dato dallo stato di situazione continuativa di sofferenza fisica o morale per il soggetto passivo, come conseguenza degli atti di maltrattamento.

Sebbene la norma in esame utilizzi il termine chiunque, si evidenzia che il reato può configurarsi solo se il soggetto agente è legato alla vittima da rapporti familiari o, in ogni caso, si trovi in una delle situazioni di affidamento previste dalla norma (cd. reato proprio).


Il reato di maltrattamenti, infatti, può aversi solo se la vittima è:


  • una persona della famiglia, o comunque convivente;
  • una persona sottoposta alla autorità del soggetto agente, o comunque a questi affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia; 
  • o ancora, una persona sottoposta alla autorità del soggetto agente per l’esercizio di una professione o di un’arte.


Solo nel 2012 (con la legge n. 172 del 2012), le persone comunque conviventi sono state inserite tra le possibili vittime del reato in esame, in quanto originariamente si richiedeva la sussistenza del vincolo matrimoniale. Si è voluto, infatti, estendere l’area della punibilità, cercando di tutelare ogni consorzio di persone tra le quali – per le consuetudini di vita – siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, potendosi consumare il delitto anche tra persone legate soltanto da un rapporto di fatto. 


A conferma di tale estensione di tutela, recentemente, è stato ammesso il reato di maltrattamenti anche tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi, restando integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.

La condotta, per essere ritenuta penalmente rilevante, deve essere connotata da abitualità, ovvero da comportamenti che acquistano rilevanza penale solo perché ripetuti nel tempo; i singoli fatti non costituiscono il reato di maltrattamenti e potrebbero essere o penalmente irrilevanti o costituire un reato diverso e a sé stante (es. lesioni).


2 - Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?


Nel 2019, il legislatore ha innalzato le sanzioni previste dalla fattispecie di reato, prevedendo un minimo di pena detentiva di 3 anni e un massimo di 7 anni (prima della riforma, invece, la sanzione irrogabile dal giudice spaziava dai 2 ai 6 anni).

Sono previste anche delle circostanze che portano ad un inasprimento della pena:


  • la pena è aumentata della metà nel caso in cui il fatto sia commesso con armi, o se commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza, o di persona con disabilità;
  • la pena è aumentata poi se dalla condotta di maltrattamenti derivano delle lesioni, gravi o gravissime; così come nel caso in cui dal fatto derivi la morte, nel qual caso si può arrivare anche alla pena di anni 24 di reclusione.


3 - Cosa fare se si è vittima di maltrattamenti?


Nel caso in cui un soggetto ritenga di essere vittima di maltrattamenti, la prima cosa da fare è quella di darne immediatamente avviso alle Forze dell’Ordine, così che le stesse possano intervenire ed evitare che si reiterino ulteriori condotte di maltrattamenti.


Si evidenzia, tuttavia, che il reato in esame è procedibile d’ufficio, consentendo quindi l’avvio del processo penale a prescindere dalla querela della persona offesa. Invero, se le Forze dell’Ordine o l’Autorità Giudiziaria vengono a conoscenza della sussistenza del reato di maltrattamenti in altro modo e non mediante la denuncia della vittima, comunque il soggetto agente potrà e dovrà essere punito. 

Peraltro, al fine di garantire una tutela ancor più efficace, è stata prevista un’accelerazione dei tempi processuali: la persona offesa vittima di maltrattamenti deve essere sentita dal Pubblico Ministero entro 3 giorni dalla comunicazione della notizia di reato. 

Ad esito dei 3 giorni, il Pubblico Ministero può decidere di applicare una misura di prevenzione nei confronti dell’indiziato.


4 - Esiste un numero verde al quale potersi rivolgere?


Il numero verde esiste, ed è il 1522, istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri al fine di prestare assistenza alle vittime di violenza. 


È attivo 24h su 24h, anche in forma online (www.1522.eu), e consente di mettersi immediatamente in contatto con operatori specializzati, in grado di indicare alla persona in cerca di aiuto o sostegno il modo migliore di agire. 

Si evidenzia, inoltre, che alla luce dell’allarmante aumento di casi di violenza verificatisi durante la convivenza forzata a causa della pandemia da Covid-19, il Ministero dell’Interno ha previsto un ulteriore modo di contattare il numero verde e chiedere aiuto, mediante un messaggio criptato di segnalazione di possibili maltrattamenti in corso, così da rendere più agevole ed immediato il sostegno per le vittime: è sufficiente, infatti, che queste si rechino in farmacia e chiedano una “mascherina di tipo 1522”; in tal modo verrà attivato il servizio di segnalazione e sostegno.


Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo

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Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga il suo autore a risarcire il danno in favore della vittima. Ciò significa che un’unica condotta costituente reato presenta una duplice illiceità, penale e civile, che, può essere valutata unitariamente dal giudice penale: a questo scopo la persona danneggiata dal reato può costituirsi parte civile nel processo penale e ivi ottenere il risarcimento del danno, senza instaurare un separato giudizio civile.Che cos’è la costituzione di parte civile?Chi può costituirsi parte civile? Distinzione fra persona offesa e danneggiato Oggetto della richiesta: danno patrimoniale e danno non patrimonialeAlternative alla costituzione di parte civile1 - Che cos’è la costituzione di parte civile?La persona che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza di un reato ha diritto al risarcimento, ai sensi dell’art. 185 c.p. In particolare, il c.d. “danneggiato dal reato” è titolare di un’azione civilistica volta a conseguire, oltre all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato per il fatto commesso, la condanna di costui al risarcimento del danno. Questa azione può essere fatta valere, alternativamente, davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure, dopo che l’azione penale sia stata esercitata dal pubblico ministero, davanti al giudice penale. In questo secondo caso, il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile nel processo penale. L’azione risarcitoria viene esercitata mediante l’atto di costituzione di parte civile, ai sensi dell’art. 76 c.p.p. Tale atto consiste in una dichiarazione scritta che deve contenere le generalità del soggetto che si costituisce, le generalità dell’imputato nei cui confronti l’azione viene esercitata, le ragioni che giustificano la domanda (la causa petendi) nonché l’indicazione del difensore, che dovrà sottoscrivere l’atto e al quale dovrà essere conferita la procura ad litem (cioè la procura finalizzata alla rappresentanza processuale). La parte civile, infatti, sta in giudizio non personalmente, ma a mezzo del difensore, al quale, oltre alla procura ad litem può essere conferita la procura speciale, che comporta la piena rappresentanza del danneggiato nella titolarità del diritto. 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Si pensi ad una rapina, nel corso della quale venga danneggiata un’auto parcheggiata nelle vicinanze: il proprietario dell’auto è il danneggiato, mentre la persona aggredita è insieme offesa e danneggiata. Se la persona danneggiata è un minore degli anni 18, la costituzione di parte civile è ammessa ma viene esercitata a mezzo dell'esercente la responsabilità genitoriale; non è mai ammissibile, invece, quando il minore sia l’imputato.Inoltre, è consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione secondo cui può costituirsi parte civile, ai sensi dell’art. 74 c.p.p., qualsiasi soggetto al quale il reato abbia cagionato un danno: in conseguenza di ciò, “i prossimi congiunti possono legittimamente agire per il risarcimento dei danni anche solo non patrimoniali sofferti per la morte del loro familiare, indipendentemente dalla pregressa esistenza o meno di un rapporto di convivenza” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 50497/2018). Sulla base del disposto di cui all’art. 307 co. 4 c.p., nella nozione di “prossimi congiunti” sono ricompresi gli ascendenti, discendenti, coniuge, parte di un’unione civile fra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, affini nello stesso grado, zii e nipoti. Secondo gli orientamenti più recenti, inoltre, anche il convivente more uxorio ha diritto al risarcimento del danno morale e patrimoniale in seguito all'uccisione del proprio partner, anche in presenza di un rapporto di breve durata ma caratterizzato da serietà e stabilità (Cass. Pen., sez. III, n. 13654/2014).3 - Oggetto della richiesta: danno patrimoniale e danno non patrimonialeAi sensi dell’art. 185 c.p., il danno risarcibile a favore del danneggiato dal reato può manifestarsi nelle forme del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.Il danno patrimoniale consiste, ai sensi dell’art. 2056 c.c., nella privazione o diminuzione del patrimonio, nelle forme del “danno emergente” e del “lucro cessante”. 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Non può essere quantificato “per equivalente”, poiché non è possibile ripristinare la situazione anteriore al reato ma viene calcolato con modalità di tipo “satisfattivo”: il giudice, in via equitativa, determina una cifra di denaro che possa dare una soddisfazione tale da compensare le sofferenze patite.4 - Alternative alla costituzione di parte civileNel processo penale, ai sensi dell’art. 538 c.p.p., l’accoglimento della domanda risarcitoria è subordinata alla condanna dell’imputato: se quest’ultimo viene assolto, la costituita parte civile non ha diritto al risarcimento.In alternativa, il danneggiato può esercitare l’azione di danno davanti al giudice civile. In questo caso, se l’azione è esercitata in modo tempestivo, l’azione civile può svilupparsi senza subire sospensioni, parallelamente allo svolgersi del processo penale. Inoltre, una eventuale assoluzione dell’imputato nel processo penale non vincola il giudice civile né gli impedisce, qualora lo ritenga opportuno, di condannare l’imputato-convenuto al risarcimento del danno, ove siano raccolte le prove della responsabilità civile di quest’ultimo. Editor: dott.ssa Elena Pullano

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Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p.

29 apr. 2021 tempo di lettura 6 minuti

L’art. 131-bis c.p. prevede che il giudice possa escludere la punibilità di un comportamento qualora l’offesa – in ragione delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo –sia particolarmente tenue. Si tratta di un fatto penalmente rilevante (quindi antigiuridico e colpevole), ma che per la sua scarsa rilevanza offensiva rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma viene considerato non meritevole di pena. In questo contributo analizziamo i presupposti applicativi dell’istituto, oggi al centro di una specifica proposta abrogativa da parte del Parlamento. Cos’è la particolare tenuità del fatto?Cosa prevede l’art. 131-bis c.p.?Quali sono i risvolti processuali dell’istituto?Le recenti proposte di legge: abrogazione dell’art. 131-bis c.p.?1 - Cos’è la particolare tenuità del fatto?L’art. 131-bis c.p. – introdotto dal legislatore con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 – integra una causa obiettiva di esclusione della punibilità, operante nei casi in cui l’offesa venga giudicata in concreto come particolarmente tenue e il comportamento delittuoso risulti non abituale.L’istituto, in particolare, è espressione dei principi di proporzionalità della pena e sussidiarietà del diritto penale, principi quest’ultimi che trovano tutela nella carta costituzionale ai sensi degli artt. 3, 13 e 27, co. 3 cost. La ratio della disciplina, infatti, è quella di non applicare la sanzione penale – e quindi di non impegnare, in una prospettiva di deflazione processuale, i complessi meccanismi della giustizia penale – a quei fatti ritenuti concretamente marginali. A tal proposito è bene sottolineare una significativa distinzione: il fatto particolarmente tenue e quello totalmente inoffensivo operano su due piani diversi. La condotta che non viene punita in ragione dell’art. 131-bis c.p. è antigiuridica e colpevole, ma non viene sottoposta a sanzione per ragioni afferenti alla meritevolezza della pena. In altri termini, l’offesa sussiste, ma è valutata dal giudice come particolarmente tenue. Il fatto totalmente inoffensivo del bene giuridico tutelato dal reato, invece, integra una situazione ben diversa; in tal caso, non venendo in rilievo un’offesa – neppure in forma lieve – dell’interesse protetto dalla norma, non potrebbe dirsi integrato il fatto tipico previsto dall’illecito penale. 2 - Cosa prevede l’art. 131-bis c.p.?L’ambito operativo dell’istituto dipende, in primo luogo, dal massimo edittale di pena detentiva: la particolare tenuità, infatti, opera per quei delitti la cui pena detentiva nel massimo non sia superiore a cinque anni o per i quali sia prevista, da sola o congiunta alla reclusione, la pena pecuniaria (per quest’ultima, differentemente dalla pena detentiva, non sussistono limiti nell’ammontare). Ai fini del calcolo della pena detentiva rilevante per l’applicazione o meno della norma in questione non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle che prevedono una pena di specie diversa dall’ordinaria o che prescrivono un aumento/diminuzione di pena superiore a un terzo. In quest’ultimo caso, ai sensi del quarto comma dell’art. 131-bis c.p. non si terrà conto del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.Il secondo presupposto riguarda poi il concreto atteggiarsi del fatto, il cui disvalore offensivo deve risultare particolarmente tenue a seguito dell’accertamento giudiziale condotto sulla base dei parametri normativi dell’art. 133 c.p. e fondato, quindi, su tre indicatori: (i) modalità della condotta; (ii) esiguità del danno o del pericolo; (iii) grado della colpevolezza. Per l’applicazione dell’istituto, inoltre, il comportamento del reo non deve risultare abituale. Il legislatore, in particolare, ha indicato al terzo comma alcune situazioni di abitualità delittuosa, vale a dire: quando l’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; (ii) quando la persona ha commesso più reati della stessa indole; (iii) quando il reato riguardi condotte plurime, abituali e reiterate.Da ultimo, è bene altresì sottolineare che il secondo comma prevede delle ipotesi preclusive di non tenuità. Si tratta di situazioni che il legislatore ha astrattamente valutato incompatibili con un giudizio di particolare tenuità. Più in dettaglio, l’offesa non può mai essere considerata tenue quando la persona: (i) ha agito per motivi abietti o futili; (ii) ha agito con crudeltà, ha adoperato sevizie o ha profittato di situazioni di minorata difesa della vittima; (iii) ha provocato come conseguenza non voluta della propria condotta la morte o le lesioni gravissime della vittima. Di recente, inoltre, il legislatore ha previsto l’impossibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. anche in relazione ai delitti, puniti con una pena detentiva nel massimo superiore a due anni e sei mesi, commessi in occasione di manifestazioni sportive, nonché ai reati di cui agli artt. 336, 337, 341 e 343-bis c.p., se il fatto è commesso contro un ufficiale/agente di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria. 3 - Quali sono i risvolti processuali dell’istituto?Con riferimento ai profili di interesse processuale, è bene anzitutto sottolineare che la particolare tenuità del fatto può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento.Già nella fase delle indagini preliminari, infatti, è previsto che il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 411 c.p.p., possa richiedere l’archiviazione del procedimento in ragione della particolare tenuità del fatto. In tal caso, differentemente da quanto previsto dall’art. 408, co. 2 c.p.p., la richiesta di archiviazione deve essere notificata non soltanto alla persona offesa – legittimata quest’ultima a proporre opposizione nel termine di dieci giorni – ma altresì alla persona sottoposta alle indagini. Sarà poi onere del giudice per le indagini preliminari valutare se accogliere o meno la richiesta formulata dall’organo inquirente. Sebbene non espressamente menzionata tra le ipotesi conclusive del giudizio, la causa di non punibilità in questione può essere altresì rilevata, all’esito dell’udienza preliminare, nella sentenza di non luogo a procedere emessa dal giudice a norma dell’art. 425 c.p.p. Ugualmente, la non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza prima dell’apertura del dibattimento: l’art. 469, co. 1-bis c.p.p., infatti, prevede l’ipotesi del proscioglimento predibattimentale per particolare tenuità del fatto. La non punibilità, inoltre, può essere dichiarata all’esito del giudizio di primo grado e, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, anche in appello e in sede di legittimità.Quanto all’efficacia extrapenale della sentenza irrevocabile, pronunciata a seguito del dibattimento per motivi di particolare tenuità del fatto, l’art. 651-bis c.p.p. prevede che il provvedimento definitivo abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno in merito all’accertamento della sussistenza del fatto e della sua rilevanza penale, nonché in relazione all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Sebbene si tratti di una sentenza di proscioglimento, infatti, il comportamento è pur sempre antigiuridico e colpevole. Deve infine sottolinearsi che le sentenze definitive di proscioglimento, pronunciate per particolare tenuità del fatto a seguito del dibattimento, devono essere iscritte nel casellario giudiziale. Allo stesso modo devono essere iscritti i provvedimenti di archiviazione pronunciati per la medesima ragione; tuttavia non se ne deve fare menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro o della pubblica amministrazione.4 - Le recenti proposte di legge: abrogazione dell’art. 131-bis c.p.?Nonostante l’importante funzione deflattiva svolta dall’istituto qui analizzato – funzione quest’ultima di significativa importanza specialmente nel ‘sistema giustizia’ italiano, cronicamente pervaso da intasamenti e ritardi processuali – il legislatore sta mostrando negli ultimi tempi un’ingiustificata diffidenza nei riguardi della disciplina della particolare tenuità. Con atto n. 2024, infatti, il 25 luglio 2019 è stata presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge finalizzata ad abrogare interamente l’art. 131-bis c.p. La proposta di legge – che si ritiene non possa essere salutata con favore – si fonda sul recupero di una visione ‘giustizialista’ del processo penale: nel documento parlamentare, infatti, si legge che «non punire un soggetto che abbia commesso un reato sussistente e accertato in tutti i suoi elementi andrebbe a vanificare gli effetti della giustizia penale e a scardinare il sistema penale facendo venire meno sia la funzione di intimidazione, sia quella di retribuzione e punitiva e perfino quella di rieducazione. Per di più, la disciplina de qua potrebbe essere addirittura interpretata come una vera e propria concessione a delinquere ‘tenuamente’». La proposta abrogativa è attualmente all’esame delle commissioni parlamentari competenti.Editor: avv. Davide Attanasio

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Differenza tra persona offesa dal reato e persona danneggiata dal reato

29 gen. 2022 tempo di lettura 1 minuti

La commissione di un reato può comportare una lesione a molteplici soggetti, anche diversi tra loro. In particolare, è fondamentale la differenza tra la persona offesa del reato e la persona danneggiata dallo stesso, poiché ne derivano poteri e diritti differenti. La persona offesa dal reato è il titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale incriminatrice che è stata violata (ad es. nel reato di furto, la persona offesa sarà il proprietario della cosa rubata). A questo soggetto vengono riconosciuti una serie di diritti e poteri: poteri di sollecitazione; diritto di ottenere una serie di informazioni riguardanti l’esercizio dell’azione penale; e in particolare, il potere di fare opposizione alla richiesta di archiviazione del PM.La persona danneggiata dal reato, invece, è colui che ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale derivante dall’illecito penale. A differenza della persona offesa, al danneggiato non sono riconosciuti né il diritto di sporgere querela né gli altri poteri sopra richiamati, in quanto allo stesso è riconosciuto il solo diritto di costituirsi parte civile nel processo penale, e quindi di esercitare l’azione per il risarcimento del danno (che in via ordinaria si fa valere innanzi al giudice civile) all’interno dello stesso giudizio penale.È opportuno evidenziare che molto spesso le due figure finiscono per coincidere nello stesso soggetto, il quale - essendo titolare del bene giuridico protetto dalla norma ed avendo contemporaneamente subìto un danno -, decide di esercitare l’azione civile nel processo penale mediante la costituzione di parte civile (sulla quale si rimanda a: La costituzione di parte civile | Egregio Avvocato).

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L’attività parlamentare e il reato di corruzione

31 mag. 2021 tempo di lettura 8 minuti

Uno dei principali baluardi dell’ordinamento italiano è la separazione tra i tre poteri fondamentali: potere legislativo, potere esecutivo e potere giurisdizionale. Al fine di garantire tale separazione, la Costituzione italiana prevede una serie di garanzie che riservano al parlamentare un trattamento speciale nello svolgimento della propria attività legislativa. Si vuole evitare in questo modo una inopportuna ingerenza in relazione all’attività parlamentare, e alla funzione legislativa stessa. Alla luce di tali garanzie, ci si chiede, quindi, se è configurabile il reato di corruzione in capo al soggetto che svolge tale attività parlamentare.Le garanzie costituzionali per il parlamentareIl reato di corruzione e i suoi presuppostiL’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareConclusioni 1 - Le garanzie costituzionali per il parlamentareL’attività parlamentare è espressione di uno dei principali poteri previsti dall’ordinamento, quale il potere legislativo. Proprio per l’importanza che lo stesso riveste, è sempre stata particolarmente sentita l’esigenza di riservare una forte indipendenza e autonomia dagli altri poteri dello Stato, in particolare dal potere esecutivo e dal potere giurisdizionale. È per questo motivo che nella nostra Carta costituzionale ritroviamo molteplici disposizioni che mirano a riconoscere un trattamento speciale al parlamentare, in modo da garantirgli una sfera di immunità grazie alla quale possa perseguire l’interesse dello Stato senza dover dipendere o dare giustificazioni ad altri soggetti. Tra le disposizioni costituzionali più rilevanti in tal senso vi è l’art. 68 Cost., e in particolare il comma 1, che prevede una immunità sostanziale per il parlamentare: i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Non si può, quindi, in alcun modo immaginare una condanna per il parlamentare sulla base dei voti o delle opinioni che ha espresso nel corso della propria attività.Ulteriore disposizione rilevante è quella dell’art. 67 Cost., che vieta il cd. mandato operativo, stabilendo che ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Ciò sta a significare che il parlamentare non risponde e non persegue le sole esigenze dei singoli, ma si impegna invece per la totalità dei cittadini, senza poter accogliere incarichi direttivi specifici.Infine, un’altra disposizione che entra in gioco è quella dell’art. 66 Cost., che prevede l’autodichia delle singole Camere, alla luce della quale ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità – viene così esclusa la giurisdizione sia del giudice ordinario, sia di quello amministrativo, riservando alla Camera stessa la funzione giurisdizionale sui propri membri.Appare evidente che la Costituzione mira ad evitare una qualsiasi ingerenza nell’attività parlamentare, e a garantire al parlamentare stesso una sfera di autonomia e indipendenza, all’interno della quale lo stesso possa operare liberamente. 2 - Il reato di corruzione e i suoi presuppostiOggi le norme sulla corruzione sono contemplate dagli artt. 318 e 319 c.p., la prima è la corruzione per l’esercizio della funzione (cd. corruzione impropria), il secondo è la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (cd. corruzione propria). Si tratta di un reato plurisoggettivo proprio, cioè un reato che necessariamente vede la partecipazione di più soggetti, i quali vengono entrambi puniti.In particolare l’art. 318 c.p. punisce, da un lato, il pubblico ufficiale che vende la propria funzione e, dall’altro lato, il privato che in cambio gli dà o gli promette denaro o altra utilità. Oggi tale fattispecie viene comunemente denominata come “mercimonio delle funzioni”.Invece, il 319 c.p. punisce quel pubblico ufficiale che promette di adottare un atto contrario ai doveri del suo ufficio, in cambio di denaro o altra utilità da parte del privato, che verrà altrettanto punito.È pacificamente considerato come reato a doppio schema, o reato a consumazione prolungata, in quanto il reato in sé si perfeziona già con il solo accordo tra il pubblico ufficiale e il privato, ma poi si consuma in un secondo momento, e cioè quando vi è l’ultima dazione di denaro o altra utilità da parte del privato.Presupposto fondamentale è che uno dei due soggetti sia un pubblico ufficiale. Ci si chiede, quindi, se il parlamentare possa essere considerato come pubblico ufficiale, poiché se non può essere considerato tale, in nessun modo si potrà ritenere integrato il reato di corruzione. La nozione viene fornita dall’art. 357 c.p., secondo cui sono pubblici ufficiali tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Appare quindi ormai pacifico che anche il parlamentare possa essere considerato quale pubblico ufficiale: dal momento che l’art. 357 c.p. fa espresso riferimento alla attività legislativa, si ritiene che senza dubbio possa rientrare nella definizione anche il parlamentare. Peraltro, si ritiene che debba essere considerato tale anche quando svolge funzioni diverse (come attività di indirizzo e controllo), non potendo sostenere che sia pubblico ufficiale solo in relazione a certi atti specifici, e non ad altri. Infine, si pone l’accento sull’art. 322 bis n.1, che estende le norme sulla corruzione anche al parlamentare europeo, considerandolo quindi pubblico ufficiale. Sarebbe irrazionale considerare pubblico ufficiale il parlamentare europeo, e non invece quello nazionale.3 - L’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareIl problema si pone quando il parlamentare si accorda con un privato: l’accordo prevede che da un lato il privato promette al parlamentare denaro o altra utilità, e dall’altro lato il parlamentare promette al privato di porre in essere un determinato atto del suo ufficio (es. votare in un certo modo).Nonostante la possibilità di considerare il parlamentare quale pubblico ufficiale, nel corso della evoluzione giurisprudenziale non è stata affatto scontata la configurabilità del reato di corruzione in capo allo stesso.Secondo una prima tesi, infatti, non è possibile applicare le norme sulla corruzione in relazione all’attività parlamentare: se si consentisse al giudice penale di valutare la liceità degli accordi, si permetterebbe allo stesso di sindacare sia l’attività stessa, sia il voto del singolo parlamentare. In questo modo verrebbe del tutto violato l’art. 68 Cost., che prevede la sfera di immunità per i voti dati; non verrebbe in alcun modo garantita l’autonomia e la indipendenza che la Carta costituzionale considera indispensabile per l’esercizio dell’attività parlamentare stessa. Peraltro, è stato evidenziato che la funzione svolta dal parlamentare sia per antonomasia una attività di compromesso, alla luce della quale inevitabilmente si arriva a degli accordi per poter operare. Ciò rende particolarmente difficile individuare una linea di confine tra quel che è lecito e ciò che non lo è, attribuendo al giudice penale un eccessivo potere di giudizio, del tutto arbitrario.Una differente tesi, invece, che appare oggi prevalente in giurisprudenza, ritiene che a date condizioni si possono applicare le norme sulla corruzione anche all’attività del parlamentare.Infatti, è vero che la Costituzione prevede una serie di garanzie a tutela dell’attività legislativa e a tutela del parlamentare, ma tali garanzie non sono affatto previste al fine di permettere al singolo di vendere la propria funzione: tali garanzie non possono in alcun modo legittimare un asservimento della carica o della funzione a fini privati. Una lettura di tal genere, infatti, finirebbe per tradire la ragion d’essere delle stesse garanzie, che devono operare solo se riguardano uno svolgimento lecito dell’attività parlamentare. L’art. 68 Cost., infatti, non prevede una immunità totale e assoluta, che possa consentire un eccessivo privilegio al parlamentare, ma si pone solo a tutela della attività legislativa legittimamente svolta. Peraltro, sarebbe irrazionale applicare le norme sulla corruzione al parlamentare europeo, come previsto dall’art. 322 bis n. 1 c.p., e non anche al parlamentare nazionale.Ulteriore argomento invocato dalla recente giurisprudenza è anche quello secondo cui la stessa Corte costituzionale, nel corso di una questione attinente ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha evidenziato che se un fatto coinvolge anche dei beni che non fanno parte della vita parlamentare e che non è adeguatamente disciplinato dai regolamenti parlamentari con proporzionate sanzioni o adeguati rimedi, allora ben si può ricorrere all’ordinamento generale. La Corte costituzionale, in particolare, ha fornito una serie di esempi, e tra gli altri ha fatto riferimento proprio al reato di corruzione.4 - ConclusioniSi ritiene, quindi, che alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale il parlamentare possa essere imputato e successivamente condannato per il reato di corruzione. Si evidenzia che secondo la tesi maggioritaria è possibile configurare solo il reato di corruzione cd. impropria, previsto dall’art. 318 c.p. Attualmente, infatti, tale disposizione punisce il generale asservimento della funzione, senza far riferimento ad uno specifico atto – al contrario di quanto avviene per l’art. 319 c.p. (corruzione propria). Nel caso dell’art. 318 c.p. non si pone alcun problema in merito al sindacato del giudice penale sull’atto posto in essere dal parlamentare, e quindi non vi è il rischio di violare l’art. 68 Cost., proprio perché il reato di corruzione impropria non fa alcun riferimento all’atto specifico.Esiste, tuttavia, anche una diversa tesi ancor più estrema, secondo cui è possibile configurare in capo al parlamentare anche il reato di corruzione propria, art. 319 c.p. Invero, se il parlamentare vende il proprio voto, è evidente che questa condotta non potrà mai giustificare l’applicazione della immunità costituzionale, che altrimenti diverrebbe un privilegio. Secondo tale tesi, infatti, le garanzie previste dalla Costituzione mai potrebbero arrivare a giustificare una condotta tale, e si rischierebbe altrimenti di tradire la ratio delle garanzie stesse, volte a consentire una corretta attività legislativa.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo

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