Il minore di età risponde penalmente se commette un reato?

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Pubblicato il 24 giu. 2021 · tempo di lettura 6 minuti

Il minore di età risponde penalmente se commette un reato? | Egregio Avvocato
In diritto penale, l’art. 97 c.p. afferma che non è imputabile il soggetto che, al momento in cui commette il fatto, non ha compiuto gli anni quattordici. L’art. 98 c.p., invece, dispone che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, solo se aveva la capacità di intendere e di volere.
Vediamo meglio queste ipotesi.



  1. Cenni sull’imputabilità in materia penale
  2. Infraquattordicenni: presunzione assoluta di incapacità
  3. Ultraquattordicenni: accertamento in concreto da parte del giudice 
  4. Procedimento specializzato davanti al Tribunale per i minorenni: cenni


1 - Cenni sull’imputabilità in materia penale


Per poter essere chiamato a rispondere delle proprie azioni, qualunque soggetto deve essere imputabile: deve, cioè, essere capace di intendere e di volere

Perchè possa essere punito, è necessario che l’autore di un reato abbia una certa attitudine ad autodeterminarsi, nel senso di esprimere una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione: un rimprovero in tanto ha senso in quanto il destinatario abbia la maturità mentale per distinguere il lecito dall’illecito e, di conseguenza, per conformarsi alle aspettative dell’ordinamento giuridico. Se manca la capacità di intendere e di volere, cioè l’imputabilità, viene meno il requisito della colpevolezza e, con essa, la possibilità di muovere un rimprovero all’autore del reo. 

In materia penale, l’imputabilità è disciplinata dagli artt. 85 ss. c.p. ed è definita come la “capacità di intendere e di volere” al momento del fatto; chi non ha questa capacità, non è imputabile. 

Il concetto di capacità di intendere e di volere va inteso come comprensivo necessariamente di entrambe le attitudini, per cui l’imputabilità viene meno se manca anche una sola capacità. Possiamo dare le seguenti definizioni:


  • capacità di intendere: capacità del soggetto di comprendere il significato delle proprie azioni e di valutarne le possibili ripercussioni positive o negative sui terzi;


  • capacità di volere: capacità del soggetto di intendere il significato dei propri atti, intesa come controllo degli impulsi ad agire e di determinazione secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base a una concezione di valore.


La legge prevede, agli artt. 88 ss. c.p., alcune cause di esclusione dell’imputabilità, che però non sono tassative: si tratta della minore età del soggetto, della presenza di infermità mentale o di altre condizioni (sordomutismo, cronica intossicazione da alcol o da stupefacenti) che sono capaci di incidere sull’autodeterminazione responsabile dell’agente.

Per quanto qui rileva, l’età del soggetto agente influisce sull’imputabilità in questo modo:


  1. età inferiore ai quattordici anni: secondo l’art. 97 c.p., il minore infraquattordicenne non è mai imputabile ed è destinatario di una presunzione di incapacità di natura assoluta, nel senso che non è ammessa la prova contraria;
  2. età compresa fra i quattordici e i diciotto anni: secondo l’art. 98 c.p., spetta al giudice accertare, in concreto e volta per volta, se il minore ultraquattordicenne sia imputabile, sulla base del suo grado di maturità;
  3. età superiore ai diciotto anni: a contrario, la legge presume l’imputabilità dell’ultradiciottenne ma con una presunzione solo relativa, perché è ammessa la prova del vizio totale o parziale di mente o delle altre di legge che escludono o diminuiscono grandemente la capacità di intendere e di volere. 


È bene ricordare, per sfatare un “mito”, che quando l’autore del reato è un minore non imputabile non saranno mai chiamati a processo i suoi genitori: nel nostro ordinamento vige, infatti, il principio di personalità della responsabilità penale, per cui solo all’autore del reato può essere applicata la sanzione penale.


2 - Infraquattordicenni: presunzione assoluta di incapacità


Ai sensi dell’art. 97 c.p., “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.

Come anticipato, si tratta di una presunzione assoluta, che non ammette la prova contraria, e che si fonda su un criterio di normalità: a causa della giovane età, lo sviluppo psico-fisico dell’infraquattordicenne non può considerarsi completo, al punto che egli non è in grado di comprendere il disvalore della propria condotta o di formare autonomamente e in maniera consapevole la propria volontà.

Tuttavia, ai sensi dell’art. 224 c.p., qualora il giovane autore di un delitto sia riconosciuto socialmente pericoloso, il giudice può applicare le misure di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario. Inoltre, il giudice deve sempre disporre il ricovero nel riformatorio giudiziario quando sia commesso un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni. 


3 - Ultraquattordicenni: accertamento in concreto da parte del giudice


Ai sensi dell’art. 98 c.p., “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita”.

Come abbiamo accennato, quando l’autore del reato ha già quattordici anni ma non ancora diciotto non esiste alcuna presunzione legale di capacità né di incapacità: è il giudice a dover accertare in concreto la capacità di intendere e di volere del minore.

Secondo l’orientamento ormai consolidato, l’incapacità minorile non presuppone necessariamente un’infermità mentale ma si fonda su un giudizio di immaturità: questa valutazione importa un giudizio che sia comprensivo del carente sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed affettive nonché dell’incapacità di intendere il significato etico-sociale del comportamento e dell’inadeguato sviluppo di una coscienza morale. 

La valutazione sulla maturità/immaturità del minore deve essere effettuata dal giudice in relazione alla natura del reato commesso: nella prassi, ad esempio, ai fini dell’imputabilità del minore si ritiene sufficiente un minimo sviluppo mentale ed etico quando sia commesso un delitto contro la persona (es. omicidio, lesioni) perché si tratta di reati dal disvalore facilmente percepibile.

Qualora il minore sia riconosciuto in concreto non imputabile perché immaturo ma socialmente pericoloso, si applica l’art. 224 c.p. sopra esaminato. 

Se, invece, il minore sia riconosciuto imputabile e responsabile per il reato contestato, il giudice applica le stesse pene previste per gli adulti ma deve diminuire la pena in misura non eccedente un terzo e, ai sensi dell’art. 225, c.p. può ordinare, dopo l’esecuzione della pena, l’applicazione della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario.


4 - Procedimento specializzato davanti al Tribunale per i minorenni: cenni

Quando l’imputato è un minore, il processo penale si svolge secondo un rito peculiare, che diverge dal rito “ordinario” a carico di maggiorenni e che valorizza le particolari esigenze, soprattutto rieducative, dei minori. Questo rito specializzato è disciplinato dal c.d. “codice del processo penale minorile”, di cui al d.p.r. 448/1988.

Vediamo, sinteticamente, quali sono i principi ispiratori del sistema:


  • Tribunale specializzato: il minore viene giudicato dal Tribunale per i minorenni, un organo collegiale composto da due magistrati togati e da due giudici onorari, un uomo e una donna, scelti tra i cultori della biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, psicologia;

 

  • finalità rieducativa: la finalità rieducativa è prevalente rispetto alla pretesa punitiva. Per tale ragione è stata, ad esempio, dichiarata incostituzionale l’applicazione della pena dell’ergastolo all’autore del reato minorenne;


  • minima offensività del processo: poiché il minore, in ragione dell’età, ha una personalità più esposta alle influenza esterne rispetto ad un adulto, è necessario ridurre il più possibile le conseguenze negative derivanti dal processo, in modo che il coinvolgimento nella vicenda processuale non sia irrimediabilmente dannoso. Vengono, pertanto, privilegiati strumenti che permettono al giudice di evitare la prosecuzione del processo, quando non sia necessaria: a titolo esemplificativo, il giudice può emettere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto;


  • tutela della personalità e della riservatezza del minore: sono dettate norme apposite che cercano di ridurre al minimo la svalutazione dell’immagine del minore agli occhi della comunità. In questo senso, è disposto, ad esempio, il divieto di pubblicare o divulgare notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minore coinvolto nel processo;


  • assistenza affettiva e psicologica: durante tutte le fasi del processo, sono assicurati al minore l’assistenza affettiva e psicologica tramite la presenza dei genitori o di altra persona idonea (indicata dal minore) nonché il sostegno morale dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza degli enti locali.


Editor: dott.ssa Elena Pullano

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L’art. 572 cp: Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi

7 gen. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Il reato previsto dall’art. 572 cp si pone a tutela della salute e dell’integrità psico-fisica dei soggetti appartenenti ad un medesimo nucleo familiare. Oggetto di plurime modifiche, tra cui l’ultima nel 2019, oggi il reato di maltrattamenti tenta di ricomprendere nella tutela una concezione molto ampia di “famiglia”, in risposta all’evoluzione del contesto storico nel quale viviamo. 1. Cosa prevede il reato di maltrattamenti?2. Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?3. Cosa fare se si è vittima di maltrattamenti?4. Esiste un numero verde al quale potersi rivolgere?1 - Cosa prevede il reato di maltrattamenti?L’art. 572 cp non descrive compiutamente cosa si intende per “maltrattamenti” e si limita ad indicare una sanzione per “chiunque maltratta”. Nonostante la poca chiarezza normativa, è pacifico che i maltrattamenti possono consistere:in atti di violenza fisica, come percosse o lesioni; ma anche di violenza morale, come ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima; o ancora, in atti di disprezzo e di offesa alla dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. L’evento tipico del reato di maltrattamenti, infatti, è dato dallo stato di situazione continuativa di sofferenza fisica o morale per il soggetto passivo, come conseguenza degli atti di maltrattamento.Sebbene la norma in esame utilizzi il termine chiunque, si evidenzia che il reato può configurarsi solo se il soggetto agente è legato alla vittima da rapporti familiari o, in ogni caso, si trovi in una delle situazioni di affidamento previste dalla norma (cd. reato proprio).Il reato di maltrattamenti, infatti, può aversi solo se la vittima è:una persona della famiglia, o comunque convivente;una persona sottoposta alla autorità del soggetto agente, o comunque a questi affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia; o ancora, una persona sottoposta alla autorità del soggetto agente per l’esercizio di una professione o di un’arte.Solo nel 2012 (con la legge n. 172 del 2012), le persone comunque conviventi sono state inserite tra le possibili vittime del reato in esame, in quanto originariamente si richiedeva la sussistenza del vincolo matrimoniale. Si è voluto, infatti, estendere l’area della punibilità, cercando di tutelare ogni consorzio di persone tra le quali – per le consuetudini di vita – siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, potendosi consumare il delitto anche tra persone legate soltanto da un rapporto di fatto. A conferma di tale estensione di tutela, recentemente, è stato ammesso il reato di maltrattamenti anche tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi, restando integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.La condotta, per essere ritenuta penalmente rilevante, deve essere connotata da abitualità, ovvero da comportamenti che acquistano rilevanza penale solo perché ripetuti nel tempo; i singoli fatti non costituiscono il reato di maltrattamenti e potrebbero essere o penalmente irrilevanti o costituire un reato diverso e a sé stante (es. lesioni).2 - Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?Nel 2019, il legislatore ha innalzato le sanzioni previste dalla fattispecie di reato, prevedendo un minimo di pena detentiva di 3 anni e un massimo di 7 anni (prima della riforma, invece, la sanzione irrogabile dal giudice spaziava dai 2 ai 6 anni).Sono previste anche delle circostanze che portano ad un inasprimento della pena:la pena è aumentata della metà nel caso in cui il fatto sia commesso con armi, o se commesso in presenza o in danno di minore, di donna in stato di gravidanza, o di persona con disabilità;la pena è aumentata poi se dalla condotta di maltrattamenti derivano delle lesioni, gravi o gravissime; così come nel caso in cui dal fatto derivi la morte, nel qual caso si può arrivare anche alla pena di anni 24 di reclusione.3 - Cosa fare se si è vittima di maltrattamenti?Nel caso in cui un soggetto ritenga di essere vittima di maltrattamenti, la prima cosa da fare è quella di darne immediatamente avviso alle Forze dell’Ordine, così che le stesse possano intervenire ed evitare che si reiterino ulteriori condotte di maltrattamenti.Si evidenzia, tuttavia, che il reato in esame è procedibile d’ufficio, consentendo quindi l’avvio del processo penale a prescindere dalla querela della persona offesa. Invero, se le Forze dell’Ordine o l’Autorità Giudiziaria vengono a conoscenza della sussistenza del reato di maltrattamenti in altro modo e non mediante la denuncia della vittima, comunque il soggetto agente potrà e dovrà essere punito. Peraltro, al fine di garantire una tutela ancor più efficace, è stata prevista un’accelerazione dei tempi processuali: la persona offesa vittima di maltrattamenti deve essere sentita dal Pubblico Ministero entro 3 giorni dalla comunicazione della notizia di reato. Ad esito dei 3 giorni, il Pubblico Ministero può decidere di applicare una misura di prevenzione nei confronti dell’indiziato.4 - Esiste un numero verde al quale potersi rivolgere?Il numero verde esiste, ed è il 1522, istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri al fine di prestare assistenza alle vittime di violenza. È attivo 24h su 24h, anche in forma online (www.1522.eu), e consente di mettersi immediatamente in contatto con operatori specializzati, in grado di indicare alla persona in cerca di aiuto o sostegno il modo migliore di agire. Si evidenzia, inoltre, che alla luce dell’allarmante aumento di casi di violenza verificatisi durante la convivenza forzata a causa della pandemia da Covid-19, il Ministero dell’Interno ha previsto un ulteriore modo di contattare il numero verde e chiedere aiuto, mediante un messaggio criptato di segnalazione di possibili maltrattamenti in corso, così da rendere più agevole ed immediato il sostegno per le vittime: è sufficiente, infatti, che queste si rechino in farmacia e chiedano una “mascherina di tipo 1522”; in tal modo verrà attivato il servizio di segnalazione e sostegno.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo

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Il reato di epidemia e l’emergenza da Covid-19

12 mar. 2021 tempo di lettura 6 minuti

A causa dell’emergenza da Covid-19 si è sentito parlare spesso del reato di epidemia, previsto dal codice penale nella duplice ‘veste’ di delitto doloso e colposo. Cerchiamo dunque di comprendere gli elementi costitutivi di questa fattispecie e se, con riferimento all’epidemia causata dalla diffusione del virus da Covid-19, vi possano effettivamente essere gli elementi idonei a giustificare una contestazione in sede penale.Premessa.Cosa prevede il reato di epidemia dolosa?(Segue) e quello di epidemia colposa?Tali fattispecie incriminatrici possono applicarsi in caso di Covid-19?1 - Premessa.In materia penale, l’epidemia è disciplinata in due disposizioni differenti del codice penale: vale a dire gli artt. 438 e 452 c.p. Come si dirà, l’elemento oggettivo delle fattispecie incriminatrici è il medesimo; differiscono, invece, in punto di coefficiente psicologico. In un caso (art. 438 c.p.), ai fini dell’integrazione del reato è necessaria la sussistenza del dolo, inteso quale rappresentazione e volizione di tutti gli elementi costitutivi del delitto; nell’altro (art. 452 c.p.), l’elemento soggettivo richiesto è quello della colpa. In quest’ultima ipotesi, dunque, l’evento non è voluto dall’agente, ma si verifica a causa di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di disposizioni. Il bene giuridico tutelato dalle disposizioni incriminatrici è ovviamente il medesimo: consiste nella tutela dell’incolumità pubblica e, in particolare, nella salvaguardia della salute collettiva. A tal riguardo, secondo l’opinione maggioritaria – avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità – la persona offesa del reato è unicamente lo Stato e, per esso, il Ministero della Salute quale organo di vertice dell’esecutivo preposto alla tutela della salute. Si ritiene, infatti, che lo Stato sia l’esclusivo titolare del bene giuridico protetto dalla norma e, pertanto, sarebbe la parte legittimata a costituirsi parte civile nell’ambito di un procedimento penale avente quale capo di imputazione il reato di epidemia.L’applicazione giurisprudenziale del delitto in questione (sia doloso che colposo) è stata pressoché nulla. Tuttavia, in ragione della ancora attuale emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del virus da Covid-19, può essere opportuno interrogarsi su quali siano gli elementi costitutivi della fattispecie in esame. Non è da escludere, infatti, che nei prossimi tempi gli organi inquirenti si trovino a dover contestare, laddove ne ricorrano i presupposti, il reato di epidemia.2 - Cosa prevede il reato di epidemia dolosa?Secondo quanto prescritto dall’art. 438 c.p., il reato può venire in rilievo qualora una persona abbia cagionato un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. Come prima cosa, è bene sottolineare che ai fini dell’integrazione del delitto non è richiesto il possesso di una particolare qualifica in capo al soggetto attivo: il reato – per via della locuzione ‘chiunque’ – è di natura c.d. comune. Ad avviso della più recente giurisprudenza di legittimità è possibile contestare il delitto di epidemia anche qualora non via sia un’alterità tra persona e germi patogeni, in altri termini nei casi in cui il soggetto attivo diffonda il virus che egli stesso ha precedentemente contratto. La specificazione è necessaria poiché, in passato, si riteneva che l’espressione «mediante la diffusione di germi patogeni» dovesse essere interpretata nel senso di richiedere una separazione fisica tra il diffusore e ciò che viene diffuso (vale a dire il germe patogeno). Chiarissima sul punto una recente pronuncia della Corte di cassazione, ad avviso della quale «la norma non impone una relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore di germi patogeni» (Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014, vicenda relativa alla trasmissione del virus HIV nell’ambito della quale i giudici hanno escluso la sussistenza del delitto di epidemia). Secondo l’opinione prevalente, inoltre, il fatto tipico del reato qui analizzato coincide, da un lato, con la manifestazione della malattia in un numero considerevole di persone e, dall’altro, nel concreto pericolo che il contagio si diffonda repentinamente – e in un ristretto arco temporale – in un numero indeterminato di persone. Ciò che deve essere verificato processualmente è che l’iniziale trasmissione del virus in un elevato quantitativo di persone sia ricollegabile causalmente alla condotta posta in essere dal soggetto portatore del virus: dimostrazione probatoria, quest’ultima, di non semplice assolvimento. In punto di elemento soggettivo, la norma richiede, come anticipato, la sussistenza del dolo (anche nella gradazione del dolo eventuale). In altri termini, è anzitutto necessario che la persona si rappresenti l’eventualità che tramite la sua condotta potrebbe infettare un numero significativo di persone e, conseguentemente, determinare una diffusione indiscriminata e incontrollabile della malattia; una volta rappresentatosi l’evento criminoso, è poi necessario che il comportamento della persona sia volontario. Quanto al trattamento sanzionatorio, infine, il legislatore ha previsto la pena dell’ergastolo. 3 - (Segue) e quello di epidemia colposa?La fattispecie colposa, disciplinata come detto dall’art. 452 c.p., differisce dall’ipotesi punita a titolo di dolo, non soltanto per il diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo, ma anche per il trattamento sanzionatorio, in quest’ultimo caso decisamente più mite rispetto a quello dell’art. 438 c.p.A fronte dell’ergastolo previsto per l’epidemia dolosa, l’ipotesi colposa è sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni (art. 452, co. 1 lett. b) c.p.). Per quanto riguarda l’elemento oggettivo del reato, invece, le considerazioni non possono che essere analoghe a quelle formulate rispondendo alla domanda precedente: la condotta dell’epidemia colposa è infatti descritta per rinvio all’art. 438 c.p.4 - Tali fattispecie incriminatrici possono applicarsi in caso di Covid-19?In ragione dell’attuale situazione epidemiologica nazionale e internazionale, riteniamo sussista tuttora la concreta possibilità di contestazione dei reati sopra descritti. Una tale eventualità era stata avallata dallo stesso legislatore, il quale – nel mettere a punto un sistema di sanzioni volto a far rispettare le misure di contenimento adottate durante il primo lockdown del 2020 per fronteggiare la diffusione del virus – aveva fatto esplicito riferimento al delitto di epidemia: in particolare, l’art. 4, co. 6 d.l. 19/2020 prevedeva un’espressa clausola di riserva in favore del reato di cui all’art. 452 c.p., relativa all’ipotesi di violazione della misura della quarantena. In virtù di quanto si è detto, è tuttavia necessario specificare che sarà onere del giudice vagliare, caso per caso, la sussistenza di tutti gli elementi sopra descritti. A tal proposito, si ritiene inverosimile che possa essere condannato per epidemia (anche soltanto colposa) chi abbia posto in essere una condotta inidonea, in concreto, a far diffondere il virus in maniera incontrollata. Si pensi, ad esempio, al comportamento di chi – sottoposto a quarantena per via della positività al Covid-19 – sia uscito di casa per recarsi in un posto notoriamente desolato; o anche all’ipotesi della persona positiva che esca in piena notte dalla propria dimora per andare a gettare la spazzatura negli appositi locali condominiali. In tali circostanze, infatti, pare ragionevole ritenere che non sussista in concreto alcun pericolo di trasmissione rapida e incontrollata del virus. Editor: avv. Davide Attanasio

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La responsabilità amministrativa degli enti

11 apr. 2022 tempo di lettura 5 minuti

Il d.lgs. 231/2001 detta la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi a suo interesse o vantaggio da un soggetto apicale oppure da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi. Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaPresuppostiReati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiSanzioni1 - Premessa: che cosa significa responsabilità amministrativa degli enti e a chi si applicaLa responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato è un tipo di responsabilità che possiede caratteristiche proprie della responsabilità penale e della responsabilità amministrativa.Sotto il primo punto di vista, la responsabilità scaturisce dalla commissione da parte di soggetti apicali dell’ente o di soggetto a loro gerarchicamente subordinati dei reati previsti dal decreto ed è la manifestazione della cosiddetta “colpa di organizzazione” dell’ente. L’accertamento della responsabilità, inoltre, è demandata alla competenza del giudice penale. Sotto il secondo punto di vista, quando è accertata la responsabilità, l’ente è soggetto a sanzioni di natura amministrativa (come la confisca).Ai sensi dell’art. 1 d. lgs. 231/2001, la responsabilità può essere imputata a:enti forniti di personalità giuridica;società e associazioni anche prive di personalità giuridica.Non possono essere chiamati a rispondere, invece, lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.L’ente si costituisce in giudizio tramite un legale rappresentante individuato nello statuto o nell’atto costitutivo. 2 - PresuppostiAi sensi dell’art. 5 del decreto, l’ente risponde per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da:soggetti in posizione apicale: si tratta di chi riveste “funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale” nonché di chi esercita, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso;soggetti sottoposti all’altrui direzione. L’ente, quindi, non è responsabile quando l’autore del reato ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. A questo proposito, la giurisprudenza afferma che, qualora i soggetti agenti abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, viene meno lo schema di immedesimazione organica: di conseguenza, l’illecito commesso, pur tornando a vantaggio dell’ente, non può più ritenersi come fatto suo proprio, ma un vantaggio fortuito, non attribuibile alla volontà della persona giuridica.L’ente, in secondo luogo, non è responsabile in altri due casi. Se il reato è commesso da un soggetto in posizione apicale, l’ente va esente da responsabilità se dimostra:di aver adottato il modello di organizzazione e gestione dei reati della specie di quello verificatosi; di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; che le persone che hanno commesso il reato lo hanno fatto eludendo fraudolentemente il modello di organizzazione e di gestione;che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo preposto alla stessa. Tale ultima eventualità è sempre esclusa se l’ente ha adottato efficacemente il modello. A questo fine, i parametri per valutare l’efficacia del modello sono esplicitati all’art. 7 co. 4 del decreto: a titolo esemplificativo, il modello deve essere sottoposto a veridica periodica e deve essere elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie a quanto prescritto.Se il reato è commesso da uno dei soggetti sottoposti all’altrui direzione, l’ente non è responsabile ove dimostri:che la commissione del reato non è stata permessa dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza;di avere, prima della commissione del reato, adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.Nei casi in cui l’ente risponde, la sua responsabilità è autonoma rispetto a quella della persona fisica (art. 8 del decreto): l’ente risponde, infatti, anche se l’autore del reato non è stato identificato o non è punibile e se il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.  3 - Reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli entiLa responsabilità amministrativa degli enti è soggetta, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 231/2001, al principio di legalità: l’ente risponde del reato commesso dalla persona fisica solo se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.A questo scopo, gli artt. 24 ss. d. lgs. 231/2001 contengono un fitto catalogo di reati che, se commessi, sono presupposto oggettivo di responsabilità amministrativa degli enti. Ricordiamo a titolo esemplificativo: Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, di un ente pubblico o dell’Unione europea o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture;Delitti di criminalità organizzata, con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico;Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e abuso d’ufficio;Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili e delitti contro la personalità individuale (ad es. prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico); Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro;Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonchè autoriciclaggio e delitti in materia di violazione del diritto d´autore.4 - SanzioniUna volta che viene accertata la commissione del reato da parte delle persone fisiche, quando sussistono i presupposti affinché anche l’ente sia ritenuto responsabile, quest’ultimo risponde di una delle seguenti sanzioni amministrative (art. 9 del decreto):sanzione pecuniaria;confisca;sanzioni interdittive (ai sensi dell’art. 9 co. 2, si tratta dell’interdizione dall’esercizio dell’attività; della sospensione o della revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; del divieto di contrattare con la p.a.; dell’esclusione di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi; del divieto di pubblicizzare beni o servizi);pubblicazione della sentenza.Le prime due sanzioni sono volte ad incidere direttamente sul patrimonio dell’ente, che risponde, secondo il principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 27 del decreto, con il suo stesso patrimonio o con il fondo comune. Le altre due sanzioni hanno lo scopo di disincentivare la commissione di illeciti da parte degli enti. Le sole sanzioni interdittive possono non essere applicate se, ai sensi dell’articolo 17 del decreto, prima che venga dichiarata l’apertura del dibattimento nel primo grado di giudizio, l’ente dimostra di:aver risarcito integralmente il danno ed eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero di essersi efficacemente adoperato in tal senso;aver eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l´adozione e l´attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;aver messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.Editor: dott.ssa Elena Pullano

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Discrimine tra colpa aggravata dalla previsione dell’evento e colpa ordinaria.

20 mag. 2023 tempo di lettura 7 minuti

La colpa è il criterio eccezionale di imputazione, sotto il profilo soggettivo, dell’evento dannoso, o pericoloso da cui discende l’esistenza del reato, nei confronti del soggetto agente, e si concreta nell’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.È nota e ben tracciata nel codice Rocco del 1930 la distinzione tra colpa e dolo, quest’ultimo considerato il criterio ordinario di imputazione di un fatto di reato. Ai sensi dell’art. 43 c.p., infatti, il dolo consiste nella volontà dell’agente di porre in essere una condotta antigiuridica diretta al perseguimento dello scopo vietato dall’ordinamento. Esistono diverse declinazioni del concetto di dolo, tra le quali si ricordano quella di dolo intenzionale, o di primo grado, e diretto o di secondo grado, il cui discrimen dipende dal ruolo più o meno dominante della volontà nella realizzazione dell’evento dannoso da parte del soggetto attivo. Infatti, se da una parte nel dolo intenzionale, l’agente si rappresenta tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice, essendo certo che la sua condotta li integrerà tutti, nel dolo c.d. diretto, al contrario, il soggetto attivo, pur rappresentandosi la possibilità che la propria condotta potrà integrare gli elementi della fattispecie di reato, la condotta antigiuridica posta in essere non è che uno strumento funzionale alla realizzazione di uno scopo diverso. E’ l’esempio che può farsi del sequestratore dell’uomo politico. Il reo, in tal caso, si rappresenta la possibilità di dover uccidere gli uomini della scorta, il che si assume essere funzionale al perseguimento dello scopo illecito.Sicuramente, la nozione di dolo che ha suscitato maggiori perplessità, in dottrina come in giurisprudenza, è quella inerente al c.d. dolo eventuale. Si tratta di una figura non codificata, e per la quale risulta assai arduo tracciare una linea di demarcazione chiara e netta rispetto alla c.d. colpa cosciente, di cui si trova menzione nel codice penale vigente all’art. 61, n. 3 c.p., e cioè in seno alle cc.dd. circostanze aggravanti comuni.Generalmente, si suole definire il dolo eventuale come quella tipologia di dolo che si manifesta ove l’agente, pur non volendo commettere un reato, prevede la possibilità della sua concreta realizzazione a seguito della propria condotta antigiuridica, accettandone il rischio e, così, portandola a compimento.II FIANDACA-MUSCO offre un esempio abbastanza chiarificatore al riguardo. Pensiamo al caso di chi, infastidito dagli schiamazzi provenienti dalla piazza sottostante, lancia dal balcone del proprio appartamento una bottiglia di vetro che, cadendo in terra, si frantuma in mille pezzi, provocando così schegge che vanno accidentalmente a colpire taluno dei passanti, provocando loro lesioni personali.E’ evidente che non sia possibile imputare il reato di lesioni, ex art. 582 c.p., lievi o lievissime, gravi o gravissime a seconda del caso, a titolo di dolo intenzionale, poiché il proprietario dell’appartamento che ha lanciato la bottiglia di vetro dal balcone, di fatto, non voleva realizzare l’evento dannoso, ma ha previsto nella sua mente, quale conseguenza potenziale della propria condotta, che l’evento dannoso, consistente nel danno fisico patito dalle vittime del gesto, si potesse realizzare, accettandone il rischio e, ciononostante, ha agito in senso antigiuridico. Nel caso, invece, della colpa cosciente di cui all’art. 61, n. 3 c.p., è possibile tracciare il seguente perimetro: essa si realizza ogniqualvolta l’agente, pur rappresentandosi in astratto la possibilità che si verifichi l’evento dannoso, quale conseguenza diretta della propria condotta, ne escluda tuttavia il suo concretizzarsi nella realtà materiale, o fenomenica che dir si voglia, confidando nelle rispettive capacità od abilità di evitarlo o di impedirne il verificarsi.Se da una parte è difficile riuscire a tracciare una distinzione precisa tra le figure psicologiche del reato appena enunciate, dall’altro, le difficoltà si fanno ancora più pregnanti rispetto a due declinazioni del concetto di colpa che ancora faticano a trovare un posto chiaro nel complesso panorama del dibattito giurisprudenziale e dottrinale sviluppatosi negli anni.Infatti, ai fini della distinzione tra colpa con previsione e colpa comune, la giurisprudenza ha fatto sovente riferimento alla teoria della probabilità della verificazione dell’evento ovvero dell’astratta previsione. Secondo la tesi in commento, se la probabilità di verificazione dell’evento è rilevante saremmo di fronte alla colpa con previsione, salvo il dolo eventuale quando l’evento è altamente probabile; altre volte, invece, sulla base dell’astratta possibilità di previsione dell’evento, la colpa cosciente si concretizzerebbe nella rappresentazione solo generica ed astratta del verificarsi dell’evento dannoso, mentre ove la rappresentazione sia concreta e specifica si sarebbe di fronte ad un’ipotesi di dolo eventuale.In dottrina, la tesi che fa riferimento al grado di probabilità della verificazione dell’evento, secondo cui dunque sarebbe configurabile colpa cosciente quando l’agente si rappresenta l’evento come possibile (mentre se lo rappresenta come probabile avremmo dolo eventuale) è stata vivacemente criticata soprattutto per la sua indeterminatezza. Si è infatti evidenziato che tale criterio rischia di confondere il giudizio di prevedibilità con quello relativo all’accertamento della previsione dell’evento. Che il grado di probabilità anche elevatissimo non implichi automaticamente che l’agente l’abbia previsto non sembra contestabile. Al più, l’elevata probabilità potrà costituire sintomo dell’effettiva previsione, ma giammai potrà con esso confondersi: se il conducente di un veicolo è in buona salute, o è ubriaco, è di certo maggiormente prevedibile e probabile che provochi un incidente ma ciò non significa che l’agente abbia previsto l’effettivo verificarsi. Secondo invece la tesi della previsione in astratto, piuttosto che in concreto, dell’evento, si avrà colpa cosciente ove il secondo componente del nesso causale, che integra la concezione tripartita del reato, sia stato previsto dall’agente solo in astratto, mentre ove sia stato previsto in concreto avremo dolo eventuale.Invero, anche la tesi suesposta non convince per la semplice ragione per cui, se ammettessimo un criterio discretivo simile, dovremmo allora imputare per colpa aggravata dalla previsione dell’evento qualsiasi delitto colposo che dovesse verificarsi in conseguenza dell’ordinario esercizio di un’attività pericolosa, come la circolazione dei veicoli, ammessa dall’ordinamento per esigenze di utilità sociale.Una terza tesi, in verità, sembra essersi fatta spazio tra quelle appena enunciate e riguarda, in particolare, lo scostamento della condotta posta in essere dall’agente rispetto allo standard cautelare astrattamente adottato dall’ordinamento. Questa teoria, sebbene persuasiva per quel che concerne la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, non aiuta affatto a distinguere la figura della colpa comune rispetto a quella della colpa con previsione, per le quali, infatti, un lieve scostamento dallo standard di cautela richiesto è sempre presente e, in ogni caso, non influenza il livello di effettiva previsione dell’evento.Alla luce delle suesposte argomentazioni, allo scopo di rispondere al quesito in esame, sembra essere preferibile la tesi che fa perno sulla specifica concretezza del pericolo che caratterizza la previsione dell’evento, che infatti, caratterizzerà la figura tanto del dolo eventuale quanto della colpa cosciente; al contrario, se il pericolo è soltanto generico ed astratto, può parlarsi soltanto di prevedibilità e dunque di colpa comune o non aggravata. Ciò implica che il Giudice deve accertare tutti gli elementi fattuali e sintomatici che consentano di affermare che l’agente ha effettivamente previsto l’evento.Per concludere con un esempio che aiuta la comprensione dell’argomento, possiamo immaginare il sorpasso in situazione di pericolo che integra un’ipotesi di colpa cosciente o con previsione ogniqualvolta l’automobilista esegua il predetto sorpasso, confidando nella rapidità della sua manovra, pur essendosi accorto che la corsia che deve impegnare per il sorpasso è già occupata da un altro veicolo che marcia in direzione opposta; ovvero, si pensi al caso in cui il sorpasso avvenga in curva, se l’altra corsia appaia impegnata da una serie di veicoli che la stanno percorrendo, ovvero ancora quando l’agente, conscio della brevità del tratto libero nel quale può eseguire il sorpasso, lo compia ugualmente trovandosi nella necessità di rientrare anzitempo e per questo vada ad urtare il veicolo che aveva tentato di sorpassare.Bisogna dunque ribadire che la colpa cosciente è configurabile ove la volontà dell'agente non è diretta alla realizzazione dell'evento, ma egli abbia previsto in concreto che la sua condotta poteva cagionare l'evento ed abbia comunque agito con il convincimento di poterlo evitare, sicché ai fini della valutazione della responsabilità il Giudice deve indicare analiticamente gli elementi sintomatici da cui sia possibile desumere non la prevedibilità in astratto dell'evento, bensì la sua previsione in concreto da parte dell'imputato

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