Egregio Avvocato
Pubblicato il 24 giu. 2021 · tempo di lettura 6 minuti
In diritto penale, l’art. 97 c.p. afferma che non è imputabile il soggetto che, al momento in cui commette il fatto, non ha compiuto gli anni quattordici. L’art. 98 c.p., invece, dispone che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, solo se aveva la capacità di intendere e di volere.
Vediamo meglio queste ipotesi.
1 - Cenni sull’imputabilità in materia penale
Per poter essere chiamato a rispondere delle proprie azioni, qualunque soggetto deve essere imputabile: deve, cioè, essere capace di intendere e di volere.
Perchè possa essere punito, è necessario che l’autore di un reato abbia una certa attitudine ad autodeterminarsi, nel senso di esprimere una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione: un rimprovero in tanto ha senso in quanto il destinatario abbia la maturità mentale per distinguere il lecito dall’illecito e, di conseguenza, per conformarsi alle aspettative dell’ordinamento giuridico. Se manca la capacità di intendere e di volere, cioè l’imputabilità, viene meno il requisito della colpevolezza e, con essa, la possibilità di muovere un rimprovero all’autore del reo.
In materia penale, l’imputabilità è disciplinata dagli artt. 85 ss. c.p. ed è definita come la “capacità di intendere e di volere” al momento del fatto; chi non ha questa capacità, non è imputabile.
Il concetto di capacità di intendere e di volere va inteso come comprensivo necessariamente di entrambe le attitudini, per cui l’imputabilità viene meno se manca anche una sola capacità. Possiamo dare le seguenti definizioni:
La legge prevede, agli artt. 88 ss. c.p., alcune cause di esclusione dell’imputabilità, che però non sono tassative: si tratta della minore età del soggetto, della presenza di infermità mentale o di altre condizioni (sordomutismo, cronica intossicazione da alcol o da stupefacenti) che sono capaci di incidere sull’autodeterminazione responsabile dell’agente.
Per quanto qui rileva, l’età del soggetto agente influisce sull’imputabilità in questo modo:
È bene ricordare, per sfatare un “mito”, che quando l’autore del reato è un minore non imputabile non saranno mai chiamati a processo i suoi genitori: nel nostro ordinamento vige, infatti, il principio di personalità della responsabilità penale, per cui solo all’autore del reato può essere applicata la sanzione penale.
2 - Infraquattordicenni: presunzione assoluta di incapacità
Ai sensi dell’art. 97 c.p., “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.
Come anticipato, si tratta di una presunzione assoluta, che non ammette la prova contraria, e che si fonda su un criterio di normalità: a causa della giovane età, lo sviluppo psico-fisico dell’infraquattordicenne non può considerarsi completo, al punto che egli non è in grado di comprendere il disvalore della propria condotta o di formare autonomamente e in maniera consapevole la propria volontà.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 224 c.p., qualora il giovane autore di un delitto sia riconosciuto socialmente pericoloso, il giudice può applicare le misure di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario. Inoltre, il giudice deve sempre disporre il ricovero nel riformatorio giudiziario quando sia commesso un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni.
3 - Ultraquattordicenni: accertamento in concreto da parte del giudice
Ai sensi dell’art. 98 c.p., “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita”.
Come abbiamo accennato, quando l’autore del reato ha già quattordici anni ma non ancora diciotto non esiste alcuna presunzione legale di capacità né di incapacità: è il giudice a dover accertare in concreto la capacità di intendere e di volere del minore.
Secondo l’orientamento ormai consolidato, l’incapacità minorile non presuppone necessariamente un’infermità mentale ma si fonda su un giudizio di immaturità: questa valutazione importa un giudizio che sia comprensivo del carente sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed affettive nonché dell’incapacità di intendere il significato etico-sociale del comportamento e dell’inadeguato sviluppo di una coscienza morale.
La valutazione sulla maturità/immaturità del minore deve essere effettuata dal giudice in relazione alla natura del reato commesso: nella prassi, ad esempio, ai fini dell’imputabilità del minore si ritiene sufficiente un minimo sviluppo mentale ed etico quando sia commesso un delitto contro la persona (es. omicidio, lesioni) perché si tratta di reati dal disvalore facilmente percepibile.
Qualora il minore sia riconosciuto in concreto non imputabile perché immaturo ma socialmente pericoloso, si applica l’art. 224 c.p. sopra esaminato.
Se, invece, il minore sia riconosciuto imputabile e responsabile per il reato contestato, il giudice applica le stesse pene previste per gli adulti ma deve diminuire la pena in misura non eccedente un terzo e, ai sensi dell’art. 225, c.p. può ordinare, dopo l’esecuzione della pena, l’applicazione della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario.
4 - Procedimento specializzato davanti al Tribunale per i minorenni: cenni
Quando l’imputato è un minore, il processo penale si svolge secondo un rito peculiare, che diverge dal rito “ordinario” a carico di maggiorenni e che valorizza le particolari esigenze, soprattutto rieducative, dei minori. Questo rito specializzato è disciplinato dal c.d. “codice del processo penale minorile”, di cui al d.p.r. 448/1988.
Vediamo, sinteticamente, quali sono i principi ispiratori del sistema:
Editor: dott.ssa Elena Pullano
Condividi:
Pubblicato da:
Egregio Avvocato
8 dic. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Con la L. 23.3.2016, n. 41 sono state introdotte nel codice penale le autonome fattispecie di omicidio stradale e di lesioni personali stradali.È utile rammentare che, in tema di omicidio causato dalla circolazione di veicoli a motore, la novella legislativa ha elevato a fattispecie autonoma di reato una condotta che prima rientrava nel novero dell’omicidio colposo, punita solo come circostanza aggravante ad effetto speciale.Il legislatore, con l’intervento riformatore poc’anzi citato, ha inteso inasprire il trattamento sanzionatorio dell’omicidio (e delle lesioni personali) causate in violazione delle norme in materia di circolazione stradale.Concentrando l’attenzione sul delitto di omicidio stradale, l’art. 589-bis del codice penale espressamente dispone che “chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni”.Quindi, per configurare il delitto in argomento, è sufficiente violare la c.d. regola cautelare dell’obbligo di attenzione, gravante sul conducente in base al disposto normativo di cui all’art. 191 del codice della strada.Chiariti, seppur in maniera sommaria, i tratti somatici dell’omicidio stradale, è opportuno risolvere il seguente interrogativo: il conducente che investe e uccide il pedone, percorrendo una strada poco illuminata, commette il delitto di omicidio stradale? La risposta è certamente affermativa.Come poc’anzi anticipato, la regola cautelare dell’obbligo di attenzione impone al conducente di veicolo deve porre in essere tutti gli opportuni accorgimenti, atti a prevenire un rischio d’investimento.Infatti, il conducente che si mette alla guida di un veicolo deve ispezionare la strada percorsa e, altresì, di prevedere tutte le situazioni di pericolo, comprese anche quelle relative ad atti imprudenti e le trasgressioni di tutti gli altri utenti della strada.Applicando questo principio, all’automobilista che investe e uccide, in strada poco illuminata un pedone, risponderà comunque di omicidio stradale.
Continua a leggere
Scritto da:
25 feb. 2021 • tempo di lettura 7 minuti
Ormai, da quasi un anno, il nostro Paese, così come il mondo intero, si trova a dover affrontare una emergenza epidemiologica a fronte della quale tantissime libertà fondamentali hanno subìto una forte limitazione. Invero, al fine di impedire una incontrollata diffusione del virus Covid-19, il legislatore ha previsto delle misure di contenimento, tra le quali non è permesso al cittadino di muoversi liberamente nel territorio italiano. Sono previste delle deroghe solo per motivi espressamente indicati (motivi di necessità, lavoro e salute), che devono essere attestati dal privato mediante lo strumento appositamente previsto: l’autocertificazione. Ma quali sono le conseguenze a fronte di una falsità dichiarata in tale autocertificazione?Cosa è l’autocertificazione e quando deve essere utilizzataI diversi tipi di falso in atto pubblico integrabili dal privatoQuando non è integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.1 - Cosa è l’autocertificazione e quando deve essere utilizzataNel corso dell’ultimo anno, sarà capitato a chiunque di dover ricorrere all’utilizzo dello strumento predisposto dal legislatore per giustificare un proprio spostamento: l’autocertificazione. Com’è noto, sono state previste forti misure di contenimento, in modo da limitare la diffusione del virus Covid-19, alla luce delle quali è stata particolarmente incisa la libertà di circolazione (sia all’interno della propria Regione, o addirittura della singola città, nei momenti più difficili dell’epidemia; sia all’interno del territorio nazionale, e quindi tra diverse Regioni). In ogni caso, il legislatore ha sempre previsto delle deroghe espresse, permettendo gli spostamenti che fossero motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero gli spostamenti per motivi di salute. È stato quindi inserito sul sito web del Ministero dell’Interno un modello di “autodichiarazione” ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, scaricabile e utilizzabile da qualsiasi cittadino che avesse la necessità di spostarsi, trovandosi in una delle situazioni di deroga espressamente previste.L’autocertificazione, quindi, è quell’atto mediante il quale un soggetto, a seguito del controllo delle Forze dell’Ordine, attesta che il mancato rispetto delle disposizioni in tema di limitazione della libertà di movimento è dovuto ad una delle ragioni previste dal potere esecutivo. Nello specifico, ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 ciascun individuo è chiamato a dichiarare: le proprie generalità (tra cui, la propria utenza telefonica); di essere consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci al Pubblico ufficiale; di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus Covid-19; di essersi spostato dal luogo A con destinazione B; di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio adottate; di essere a conoscenza delle limitazioni ulteriori adottate dal Presidente della propria Regione di appartenenza; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dall’art. 4 D.L. 25 marzo 2020, n. 19 e dall’art. 2 D.L. 16 maggio 2020, n. 332 - I diversi tipi di falso in atto pubblico integrabili dal privatoPacificamente, le falsità inerenti il primo punto richiesto dall’autocertificazione, e quindi le proprie generalità, integrano il reato di “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri” previsto dall’art. 495 c.p., che punisce con la reclusione da uno a sei anni chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.Peraltro, nel concetto di “altre qualità” rientrano anche quelle informazioni che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione; e quindi, vi rientrano dati come la residenza e il domicilio, la professione, il grado accademico, l'ufficio pubblico ricoperto, le eventuali precedenti condanne e ogni altro attributo che serva ad integrare la individualità della persona.Quindi, il privato può incorrere nel reato di cui all’art. 495 c.p. solo nel caso in cui la falsità attiene ad uno degli elementi sopracitati, e non anche se ad essere falsa è la motivazione della propria presenza in strada. In questo diverso caso, potrebbe essere integrato il diverso reato di “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” previsto all’art. 483 c.p., secondo cui chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni.Tale delitto si configura solo nel momento in cui il privato sia obbligato a dire il vero da una norma giuridica (anche extra-penale), in quanto vengono ricollegati specifici effetti probatori all’atto-documento nel quale la dichiarazione viene inserita. Peraltro, non è necessario che l’obbligo di dire la verità sia esplicito, ma può trovare anche un aggancio “implicito” in una norma di legge. È, inoltre, richiesta la sussistenza di un atto pubblico, e non è sufficiente una mera scrittura privata: il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico riguarda solo quelle attestazioni del privato che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare. L’autocertificazione rientra nell’ambito dell’art. 47 D.P.R. 445/00, il quale consente di sostituire l’atto di notorietà con una dichiarazione che abbia ad oggetto, tra gli altri, fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato. In questo modo, l’autocertificazione acquista il potere di comprovare i fatti di cui si è a conoscenza, assumendo efficacia probatoria e natura di atto pubblico. Per quanto concerne l’obbligo di verità imposto al privato, questo si desume dall’art. 76 del medesimo D.P.R. n. 445/00 secondo il quale “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”, richiamando il precetto di cui all’art. 483 c.p.Pertanto, chi inserisce affermazioni non veritiere nell’autocertificazione, considerata quale dichiarazione sostitutiva di atto notorio, è considerato al pari di chi rende dichiarazioni false al Pubblico ufficiale, le quali verranno inserite da quest’ultimo in un atto che è destinato a costituire prova della verità del fatto recepito. Sussistono conseguentemente tutti i requisiti strutturali dell’art. 483 c.p.: obbligo di verità, efficacia probatoria dell’atto, equivalenza tra autodichiarazione e dichiarazioni rese al Pubblico ufficiale.3 - Quando non è integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.Si evidenzia che vi sono dei casi in cui il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico potrebbe non sussistere.Ai sensi dell’art. 483 c.p., l’oggetto della falsa attestazione deve essere un “fatto”, e quindi un evento della vita o una circostanza che sono prospettati come già realizzati e/o materializzati nella realtà esteriore, e il cui accertamento è già possibile in rerum natura. Si tratta di quei casi in cui il privato dichiari di essere in strada per “aver già compiuto” una certa azione che venga giustificata dai motivi di deroga del DPCM (es. “sono stato a lavoro presso la sede sita in ...”; “sto tornando a casa dopo aver portato generi alimentari e medicinali a mia madre anziana”, etc.). Nel caso in cui la falsità attenga ad un fatto già compiuto, ben potrà essere integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.Diverso è il caso in cui nell’autocertificazione venga esplicitata l’intenzione di compiere un fatto, che però non sia ancora realizzato nella sua completezza. Invero, la dichiarazione, in questi casi, ha per oggetto una mera intenzione (es. “sto andando a fare la spesa”; “sto andando a lavoro”; “sto andando in farmacia per acquistare il medicinale x”), per il quale l’accertamento, e la conformità alla realtà è possibile solo in un momento successivo. Il fatto in sé non è ancora materializzato nella realtà esteriore, e quindi si ritiene non possa essere configurata la fattispecie delittuosa ex art. 483 c.p. In questo caso ad essere attestato è un mero intento, un proposito che sfugge all’oggetto della falsità penalmente rilevante.Ciò appare conforme alla impostazione dell’ordinamento giuridico italiano, secondo cui non si può essere puniti per una mera intenzione o per un’idea, ma richiede invece la sussistenza di una condotta materiale ed esistente in rerum natura. Diversamente, verrebbe violato il principio di offensività e di materialità, tutelato a livello costituzionale dall’art. 25 Cost.In conclusione, sarà necessario distinguere tra diverse condotte:le dichiarazioni mendaci rese in ordine agli elementi identificativi della persona, che assumono rilevanza ai sensi dell’art. 495 c.p.; le dichiarazioni rese in ordine ai fatti già compiuti, rilevanti con riguardo all’art. 483 c.p.;ed infine, le dichiarazioni false riguardanti le intenzioni (e, quindi, tutte quelle che concernono le “destinazioni” dei propri spostamenti) che, in quanto future ed incompiute, non possono rappresentare “fatti” su cui fondare la sanzione penale per il reato di falso da ultimo esaminato.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
12 mar. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
A causa dell’emergenza da Covid-19 si è sentito parlare spesso del reato di epidemia, previsto dal codice penale nella duplice ‘veste’ di delitto doloso e colposo. Cerchiamo dunque di comprendere gli elementi costitutivi di questa fattispecie e se, con riferimento all’epidemia causata dalla diffusione del virus da Covid-19, vi possano effettivamente essere gli elementi idonei a giustificare una contestazione in sede penale.Premessa.Cosa prevede il reato di epidemia dolosa?(Segue) e quello di epidemia colposa?Tali fattispecie incriminatrici possono applicarsi in caso di Covid-19?1 - Premessa.In materia penale, l’epidemia è disciplinata in due disposizioni differenti del codice penale: vale a dire gli artt. 438 e 452 c.p. Come si dirà, l’elemento oggettivo delle fattispecie incriminatrici è il medesimo; differiscono, invece, in punto di coefficiente psicologico. In un caso (art. 438 c.p.), ai fini dell’integrazione del reato è necessaria la sussistenza del dolo, inteso quale rappresentazione e volizione di tutti gli elementi costitutivi del delitto; nell’altro (art. 452 c.p.), l’elemento soggettivo richiesto è quello della colpa. In quest’ultima ipotesi, dunque, l’evento non è voluto dall’agente, ma si verifica a causa di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di disposizioni. Il bene giuridico tutelato dalle disposizioni incriminatrici è ovviamente il medesimo: consiste nella tutela dell’incolumità pubblica e, in particolare, nella salvaguardia della salute collettiva. A tal riguardo, secondo l’opinione maggioritaria – avallata anche dalla giurisprudenza di legittimità – la persona offesa del reato è unicamente lo Stato e, per esso, il Ministero della Salute quale organo di vertice dell’esecutivo preposto alla tutela della salute. Si ritiene, infatti, che lo Stato sia l’esclusivo titolare del bene giuridico protetto dalla norma e, pertanto, sarebbe la parte legittimata a costituirsi parte civile nell’ambito di un procedimento penale avente quale capo di imputazione il reato di epidemia.L’applicazione giurisprudenziale del delitto in questione (sia doloso che colposo) è stata pressoché nulla. Tuttavia, in ragione della ancora attuale emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del virus da Covid-19, può essere opportuno interrogarsi su quali siano gli elementi costitutivi della fattispecie in esame. Non è da escludere, infatti, che nei prossimi tempi gli organi inquirenti si trovino a dover contestare, laddove ne ricorrano i presupposti, il reato di epidemia.2 - Cosa prevede il reato di epidemia dolosa?Secondo quanto prescritto dall’art. 438 c.p., il reato può venire in rilievo qualora una persona abbia cagionato un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. Come prima cosa, è bene sottolineare che ai fini dell’integrazione del delitto non è richiesto il possesso di una particolare qualifica in capo al soggetto attivo: il reato – per via della locuzione ‘chiunque’ – è di natura c.d. comune. Ad avviso della più recente giurisprudenza di legittimità è possibile contestare il delitto di epidemia anche qualora non via sia un’alterità tra persona e germi patogeni, in altri termini nei casi in cui il soggetto attivo diffonda il virus che egli stesso ha precedentemente contratto. La specificazione è necessaria poiché, in passato, si riteneva che l’espressione «mediante la diffusione di germi patogeni» dovesse essere interpretata nel senso di richiedere una separazione fisica tra il diffusore e ciò che viene diffuso (vale a dire il germe patogeno). Chiarissima sul punto una recente pronuncia della Corte di cassazione, ad avviso della quale «la norma non impone una relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore di germi patogeni» (Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014, vicenda relativa alla trasmissione del virus HIV nell’ambito della quale i giudici hanno escluso la sussistenza del delitto di epidemia). Secondo l’opinione prevalente, inoltre, il fatto tipico del reato qui analizzato coincide, da un lato, con la manifestazione della malattia in un numero considerevole di persone e, dall’altro, nel concreto pericolo che il contagio si diffonda repentinamente – e in un ristretto arco temporale – in un numero indeterminato di persone. Ciò che deve essere verificato processualmente è che l’iniziale trasmissione del virus in un elevato quantitativo di persone sia ricollegabile causalmente alla condotta posta in essere dal soggetto portatore del virus: dimostrazione probatoria, quest’ultima, di non semplice assolvimento. In punto di elemento soggettivo, la norma richiede, come anticipato, la sussistenza del dolo (anche nella gradazione del dolo eventuale). In altri termini, è anzitutto necessario che la persona si rappresenti l’eventualità che tramite la sua condotta potrebbe infettare un numero significativo di persone e, conseguentemente, determinare una diffusione indiscriminata e incontrollabile della malattia; una volta rappresentatosi l’evento criminoso, è poi necessario che il comportamento della persona sia volontario. Quanto al trattamento sanzionatorio, infine, il legislatore ha previsto la pena dell’ergastolo. 3 - (Segue) e quello di epidemia colposa?La fattispecie colposa, disciplinata come detto dall’art. 452 c.p., differisce dall’ipotesi punita a titolo di dolo, non soltanto per il diverso atteggiarsi dell’elemento soggettivo, ma anche per il trattamento sanzionatorio, in quest’ultimo caso decisamente più mite rispetto a quello dell’art. 438 c.p.A fronte dell’ergastolo previsto per l’epidemia dolosa, l’ipotesi colposa è sanzionata con la reclusione da uno a cinque anni (art. 452, co. 1 lett. b) c.p.). Per quanto riguarda l’elemento oggettivo del reato, invece, le considerazioni non possono che essere analoghe a quelle formulate rispondendo alla domanda precedente: la condotta dell’epidemia colposa è infatti descritta per rinvio all’art. 438 c.p.4 - Tali fattispecie incriminatrici possono applicarsi in caso di Covid-19?In ragione dell’attuale situazione epidemiologica nazionale e internazionale, riteniamo sussista tuttora la concreta possibilità di contestazione dei reati sopra descritti. Una tale eventualità era stata avallata dallo stesso legislatore, il quale – nel mettere a punto un sistema di sanzioni volto a far rispettare le misure di contenimento adottate durante il primo lockdown del 2020 per fronteggiare la diffusione del virus – aveva fatto esplicito riferimento al delitto di epidemia: in particolare, l’art. 4, co. 6 d.l. 19/2020 prevedeva un’espressa clausola di riserva in favore del reato di cui all’art. 452 c.p., relativa all’ipotesi di violazione della misura della quarantena. In virtù di quanto si è detto, è tuttavia necessario specificare che sarà onere del giudice vagliare, caso per caso, la sussistenza di tutti gli elementi sopra descritti. A tal proposito, si ritiene inverosimile che possa essere condannato per epidemia (anche soltanto colposa) chi abbia posto in essere una condotta inidonea, in concreto, a far diffondere il virus in maniera incontrollata. Si pensi, ad esempio, al comportamento di chi – sottoposto a quarantena per via della positività al Covid-19 – sia uscito di casa per recarsi in un posto notoriamente desolato; o anche all’ipotesi della persona positiva che esca in piena notte dalla propria dimora per andare a gettare la spazzatura negli appositi locali condominiali. In tali circostanze, infatti, pare ragionevole ritenere che non sussista in concreto alcun pericolo di trasmissione rapida e incontrollata del virus. Editor: avv. Davide Attanasio
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
5 mar. 2024 • tempo di lettura 2 minuti
Il differimento facoltativo della penaAi fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord.pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr, ex multis, Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014; Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011). La giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che, ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria (Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009; Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019). La patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità (Sez. 1, n. 35826 del 11/05/2016). Prof. Dr. Giovanni MoscagiuroStudio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativoemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.comEsperto e Docente in Diritto Penale ,Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Gang Stalking, Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente in Criminologia e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, ausiliario del Giudice, CTU e CTP, Editori e Giornalisti European news Agency
Continua a leggere
Non ci sono commenti