Egregio Avvocato
Pubblicato il 7 gen. 2021 · tempo di lettura 5 minuti
L’art. 572 cp non descrive compiutamente cosa si intende per “maltrattamenti” e si limita ad indicare una sanzione per “chiunque maltratta”.
Nonostante la poca chiarezza normativa, è pacifico che i maltrattamenti possono consistere:
L’evento tipico del reato di maltrattamenti, infatti, è dato dallo stato di situazione continuativa di sofferenza fisica o morale per il soggetto passivo, come conseguenza degli atti di maltrattamento.
Sebbene la norma in esame utilizzi il termine chiunque, si evidenzia che il reato può configurarsi solo se il soggetto agente è legato alla vittima da rapporti familiari o, in ogni caso, si trovi in una delle situazioni di affidamento previste dalla norma (cd. reato proprio).
Il reato di maltrattamenti, infatti, può aversi solo se la vittima è:
Solo nel 2012 (con la legge n. 172 del 2012), le persone comunque conviventi sono state inserite tra le possibili vittime del reato in esame, in quanto originariamente si richiedeva la sussistenza del vincolo matrimoniale. Si è voluto, infatti, estendere l’area della punibilità, cercando di tutelare ogni consorzio di persone tra le quali – per le consuetudini di vita – siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, potendosi consumare il delitto anche tra persone legate soltanto da un rapporto di fatto.
A conferma di tale estensione di tutela, recentemente, è stato ammesso il reato di maltrattamenti anche tra coniugi separati o tra genitori non più conviventi, restando integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione.
La condotta, per essere ritenuta penalmente rilevante, deve essere connotata da abitualità, ovvero da comportamenti che acquistano rilevanza penale solo perché ripetuti nel tempo; i singoli fatti non costituiscono il reato di maltrattamenti e potrebbero essere o penalmente irrilevanti o costituire un reato diverso e a sé stante (es. lesioni).
Nel 2019, il legislatore ha innalzato le sanzioni previste dalla fattispecie di reato, prevedendo un minimo di pena detentiva di 3 anni e un massimo di 7 anni (prima della riforma, invece, la sanzione irrogabile dal giudice spaziava dai 2 ai 6 anni).
Sono previste anche delle circostanze che portano ad un inasprimento della pena:
Nel caso in cui un soggetto ritenga di essere vittima di maltrattamenti, la prima cosa da fare è quella di darne immediatamente avviso alle Forze dell’Ordine, così che le stesse possano intervenire ed evitare che si reiterino ulteriori condotte di maltrattamenti.
Si evidenzia, tuttavia, che il reato in esame è procedibile d’ufficio, consentendo quindi l’avvio del processo penale a prescindere dalla querela della persona offesa. Invero, se le Forze dell’Ordine o l’Autorità Giudiziaria vengono a conoscenza della sussistenza del reato di maltrattamenti in altro modo e non mediante la denuncia della vittima, comunque il soggetto agente potrà e dovrà essere punito.
Peraltro, al fine di garantire una tutela ancor più efficace, è stata prevista un’accelerazione dei tempi processuali: la persona offesa vittima di maltrattamenti deve essere sentita dal Pubblico Ministero entro 3 giorni dalla comunicazione della notizia di reato.
Ad esito dei 3 giorni, il Pubblico Ministero può decidere di applicare una misura di prevenzione nei confronti dell’indiziato.
Il numero verde esiste, ed è il 1522, istituito presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri al fine di prestare assistenza alle vittime di violenza.
È attivo 24h su 24h, anche in forma online (www.1522.eu), e consente di mettersi immediatamente in contatto con operatori specializzati, in grado di indicare alla persona in cerca di aiuto o sostegno il modo migliore di agire.
Si evidenzia, inoltre, che alla luce dell’allarmante aumento di casi di violenza verificatisi durante la convivenza forzata a causa della pandemia da Covid-19, il Ministero dell’Interno ha previsto un ulteriore modo di contattare il numero verde e chiedere aiuto, mediante un messaggio criptato di segnalazione di possibili maltrattamenti in corso, così da rendere più agevole ed immediato il sostegno per le vittime: è sufficiente, infatti, che queste si rechino in farmacia e chiedano una “mascherina di tipo 1522”; in tal modo verrà attivato il servizio di segnalazione e sostegno.
Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
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Egregio Avvocato
21 giu. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
La rapida diffusione della tendenza di condurre le pratiche commerciali sul web ha portato la giurisprudenza di legittimità a interrogarsi sulla configurabilità della circostanza aggravante della c.d. minorata difesa in relazione alle ipotesi delittuose di truffa perpetrate online. Cerchiamo dunque di fornire la definizione di ‘minorata difesa’ e di analizzare i presupposti che ad avviso della Corte di cassazione devono sussistere ai fini del riconoscimento dell’aggravante in caso di truffa online.Quali sono gli elementi costitutivi del reato di truffa?Cosa si intende per ‘minorata difesa’?Truffa online e minorata difesa: qual è la posizione della giurisprudenza?Quali sono le conseguenze derivanti dalla sussistenza della circostanza aggravante?1 - Quali sono gli elementi costitutivi del reato di truffa?Abbiamo già avuto l’occasione di affrontare l’argomento del reato di truffa perpetrato attraverso l’utilizzo di mezzi telematici (se sei interessato clicca qui per saperne di più). Per quanto qui di interesse – vale a dire l’applicabilità della circostanza aggravante della c.d. minorata difesa – sarà dunque sufficiente menzionare concisamente gli elementi costitutivi della disposizione incriminatrice.Nel codice penale, la c.d. truffa online – nella quale una persona potrebbe incorrere navigando in internet – non trova collocazione in una fattispecie delittuosa ad hoc, ma può essere sussunta nel ‘tradizionale’ reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. La peculiarità della truffa online risiede semplicemente nel luogo di verificazione della condotta illecita e, quindi, delle relative modalità di manifestazione del reato: gli artifizi e i raggiri, difatti, si concretizzano attraverso l’utilizzo del web.La regolamentazione predisposta dal legislatore penale, tuttavia, è sempre la medesima. L’art. 640 c.p., infatti, prevede in ogni caso la pena detentiva da sei mesi a tre anni e una multa compresa tra 51 e 1.032 euro per colui il quale, attraverso artifizi o raggiri, induca taluno in errore provocando per sé o per altri un profitto ingiusto e, specularmente, arrecando un danno all’altra persona. Affinché il reato possa dirsi consumato, quindi, è necessario che la condotta truffaldina (gli artifizi o i raggiri) induca dapprima in errore la vittima, la quale è così portata ad avere un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto; da ciò deve derivarne, da un lato, un danno, che secondo l’opinione prevalente deve essere di natura patrimoniale, e dall’altro un profitto ingiusto, che invece può essere inteso anche in un senso non strettamente economico.2 - La circostanza aggravante della c.d. minorata difesaCon l’appellativo ‘minorata difesa’ si fa riferimento a una circostanza aggravante comune e ad efficacia comune – ossia che determina un aumento sino a un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato ‘semplice’ – prevista dall’art. 61, co. 1 n. 5 c.p., che più specificatamente prescrive l’aggravamento di pena per “aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o la privata difesa”. La circostanza aggravante, in altre parole, concerne una serie di situazioni legate a fattori ambientali o personali di cui il soggetto attivo del reato approfitta consapevolmente al fine di trarre in inganno la vittima. Così, ad esempio, il caso in cui si compia una truffa a danno di una persona che versi in uno stato fisico o psichico di particolare debolezza o, come vedremo nel paragrafo successivo, qualora il reato venga commesso approfittando delle peculiari condizioni di operatività del web. Come previsto espressamente dalla disposizione, inoltre, non è necessario che la difesa della persona offesa sia completamente impedita, ma è sufficiente che venga soltanto ostacolata.3 - Truffa online e minorata difesa: la posizione della giurisprudenza di legittimitàLa configurabilità della circostanza aggravante della minorata difesa con riferimento all’ipotesi delittuosa della truffa perpetrata online è stata più volte oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza di legittimità. Specialmente negli ultimi anni – in ragione della repentina diffusione delle pratiche commerciali sul web – la Corte di cassazione ha affrontato la questione in svariate occasioni. I giudici di legittimità, nel riconoscere la potenziale sussistenza della circostanza aggravante in caso di truffa online, hanno identificato quale elemento dirimente ai fini dell’integrazione della minorata difesa la costante distanza intercorrente tra venditore e acquirente, i quali, operando tramite internet, si trovano in luoghi fisici diversi e, con ogni probabilità, molto distanti tra loro [così Cass. pen., sez. II, ud. 14 ottobre 2020 (dep. 13 gennaio 2021), n. 1085, nonché più di recente Cass. pen., sez. II, 14 gennaio 2021 (dep. 31 marzo 2021), n. 12427]. La distanza nella contrattazione, a ben vedere, pone il venditore in una posizione di vantaggio rispetto al soggetto acquirente, il quale, non avendo la possibilità di visionare personalmente il prodotto, per concludere la trattativa deve fidarsi delle immagini che gli vengono messe a disposizione. Inoltre, il venditore, utilizzando gli strumenti informatici e telematici, può schermare la propria identità, nonché sottrarsi con facilità alle conseguenze della propria condotta truffaldina. È di tutta evidenza, dunque, come le peculiarità della contrattazione telematica – determinando un ostacolo nella privata difesa – consentono il riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 61, co. 1 n. 5 c.p.Con riferimento alla condizione di ricorrenza dell’aggravante in questione – vale a dire la distanza nella contrattazione condotta tra acquirente e venditore – è tuttavia necessaria una specificazione. La distanza, come detto, deve essere costante, ossia deve permanere per tutta la durata delle trattative. Qualora ciò non avvenga – come sostenuto dalla Corte di cassazione – non potrebbe dirsi integrata l’aggravante della minorata difesa [ancora Cass. pen., sent. n. 1085/2020, che non ha riconosciuto la sussistenza dell’aggravante]. È l’ipotesi, ad esempio, della contrattazione iniziata su piattaforme telematiche e poi proseguita anche attraverso incontri di persona. In un caso del genere, evidentemente, verrebbe meno la posizione di svantaggio in cui versa il potenziale acquirente all’inizio della trattativa condotta online. 4 - Quali sono le conseguenze derivanti dalla sussistenza della circostanza aggravante?Dal riconoscimento della circostanza aggravante di cui si discute discendono una serie di conseguenze particolarmente significative in punto di contestazione del reato di truffa. Quella più evidente, anzitutto, riguarda il trattamento sanzionatorio del reato, la cui cornice edittale, ai sensi dell’art. 640, co. 2 c.p. si innalza nella pena detentiva sino a un massimo di cinque anni e nella multa sino a 1.549 euro. In virtù dell’art. 131-bis, co. 2 c.p., che menziona espressamente la circostanza della minorata difesa, il fatto di reato non può essere considerato di particolare tenuità e, pertanto, non è incluso nell’ambito applicativo della causa di esclusione della punibilità.Da un punto di vista processuale, poi, il reato diviene procedibile d’ufficio e non più in funzione della querela presentata dalla persona offesa. Ai sensi dell’art. 278 c.p.p., inoltre, differentemente dalla regola generale si tiene conto della minorata difesa nella determinazione della pena ai fini dell’applicazione delle misure cautelari. Da ciò ne discende, sempre con riferimento alla truffa, che innalzandosi la pena detentiva massima sino a cinque anni potrà essere disposta, laddove ricorrano i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari, la custodia cautelare in carcere [questione peraltro oggetto della citata sentenza della Corte di cassazione, si veda supra Cass. pen., sent. n. 1085/2020].Editor: Avv. Davide Attanasio
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Egregio Avvocato
24 feb. 2022 • tempo di lettura 3 minuti
Con lo sviluppo delle nuove tecnologie e delle nuove modalità di comunicazione online, negli ultimi anni, si è assistito ad un considerevole sviluppo di nuove condotte di violenza online o “cyber violenza”, tra le quali “cyber stalking”, “cyber bullismo” e “revenge porn”.L’articolo 612 ter c.p. è stato introdotto con la L.69/2019 per andare a contrastare il fenomeno del c.d. revenge porn, ma in realtà offre una protezione più ampia della privacy sessuale. Collocato significativamente a fianco del reato di stalking (art. 612 bis c.p.) la fattispecie è stata introdotta per andare a punire quella particolare forma d’interferenza nella vita privata, consistente nella pubblicazione arbitraria d’immagini o video a carattere sessuale del proprio partner (porn), come forma di ritorsione per l’interruzione della relazione sentimentale (revenge). La norma si compone di cinque commi distinti: i primi due descrivono le caratteristiche della diffusione illecita di materiali sessualmente espliciti, a seguire i commi 3 e 4 individuano delle aggravanti specifiche, chiude il gruppo la disposizione che regola la procedibilità del reato.Quale condotta viene punita?Chi è il soggetto attivo e la persona offesa?Qual è l’elemento soggettivo del reato?Come avviene la procedibilità?1 – Quale condotta viene punita?La norma in esame punisce due condotte distinte che si differenziano per le modalità con le quali il soggetto attivo è entrato in possesso delle immagini inviate, consegnate, cedute, pubblicate o diffuse.In sostanza, si punisce qualsiasi comportamento capace di trasmettere ad altri immagini o video sessualmente espliciti. Commettono il reato, infatti, le persone che alternativamente: a) realizzano o sottraggono (oppure contribuiscono a farlo) le immagini o i video; b) hanno ricevuto o acquisito in altro modo tali materiali intimi (c.d. secondi distributori). A seconda delle modalità di acquisizione cambia l’elemento soggettivo del reato.Le condotte punibili sono abbastanza ampie e comprendono sia le ipotesi di trasferimento delle immagini tra due persone, anche senza l’utilizzo della rete internet, sia la pubblicazione di fotografie o video su siti internet, social network e altre piattaforme online. La diffusione può spaziare dalla semplice iniziale cessione a una cerchia di amici o conoscenti fino alla distribuzione a un’ampia platea di destinatari tramite chat di messaggistica istantanea. Per integrare il reato è richiesta l’esplicita connotazione sessuale del materiale: occorre, infatti, che le foto e i video siano stati creati in un contesto di riservatezza. 2 - Chi è il soggetto attivo e la persona offesa?Soggetto attivo del reato può essere chiunque, mentre, la persona offesa è il soggetto rappresentato nelle immagini o nel video e senza il cui consenso tale materiale viene fatto circolare. Se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, la pena è aumentata.Se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza, la pena è aumentata da un terzo alla metà.3 - Qual è l’elemento soggettivo del reato?In caso di realizzazione o sottrazione del materiale è sufficiente il dolo generico ovvero che il soggetto attivo compia consapevolmente tale condotta.Nell’ipotesi di ricezione e acquisizione in altro modo dei dati sensibili di natura sessuale invece è richiesta espressamente la volontà di arrecare danno alla persona rappresentata nelle immagini o nei video, è richiesto quindi il dolo specifico.4 - Come avviene la procedibilità?Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di 6 mesi.Si procede d’ufficio nei seguenti casi: a) la persona offesa è in condizione di inferiorità fisica o psichica oppure una donna in stato di gravidanza; b) il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere di ufficio.La remissione della querela può essere soltanto processuale: ciò evita che la vittima possa essere indotta a rimettere la querela attraverso minacce o inedite pressioni.La volontà della persona offesa deve essere effettivamente valutata dal pubblico ufficiale al quale dichiara di voler rimettere la querela.
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3 mag. 2021 • tempo di lettura 7 minuti
Un istituto che trova ampia applicazione nell’ordinamento italiano e che pone conseguenti problemi applicativi è quello della recidiva. L’art. 99 del codice penale prevede la disciplina di tale istituto, sul quale – anche di recente – si è espressa più volte la Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Vediamo insieme gli aspetti più importanti.Campo di applicazione e natura giuridica della recidivaI diversi tipi di recidivaI cd. effetti secondari della recidiva1 - Campo di applicazione e natura giuridica della recidivaL’art. 99 c.p. dispone che chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo. Da ciò si desume che al fine di poter applicare la recidiva devono sussistere almeno due presupposti:a. il soggetto deve avere commesso un delitto non colposo, per il quale sia stato già condannato con sentenza passata in giudicato; e questo delitto si chiamerà reato fondante;b. dopo il passaggio in giudicato della prima condanna, il soggetto deve aver commesso un nuovo delitto non colposo, che si chiamerà reato espressivo. È a questo secondo reato che verrà applicata la recidiva. Tuttavia, è ormai pacifico in giurisprudenza che non sono sufficienti questi due soli presupposti, e che mai vi potrà essere un automatismo nell’applicazione della recidiva – non può essere conseguenza automatica della mera sussistenza di questi due presupposti. Il giudice, invero, dovrà sempre condurre una valutazione in concreto sul fatto di applicare o meno la recidiva, tale per cui si ritiene che debba sussistere un terzo presupposto:c. il reato espressivo deve palesare una maggiore consapevolezza e una maggiore pericolosità sociale dell’autore del reato.Se non vi è questa valutazione, o se comunque il reato espressivo non ha nulla a che vedere con il reato fondante, allora il giudice non potrà applicare la recidiva: in quanto la ricaduta non è sintomatica di una maggiore colpevolezza e non denota il soggetto autore del reato come maggiormente pericoloso.In merito alla natura giuridica della recidiva, si evidenzia che ad oggi è stata del tutto superata la tesi tradizionale secondo cui veniva classificata quale status. Tale tesi poneva l’accento sul fatto che la legge sembrava riferirsi sempre al recidivo quale soggetto, parlando sempre del “recidivo”.Oggi la tesi prevalente ritiene che si tratti di una circostanza aggravante del reato, e ciò si desume non solo dall’art. 99 c.p., ma anche da altre disposizioni come l’art. 69 c.p., che disciplina il bilanciamento tra circostanze, e l’art. 70 c.p., che distingue tra circostanze oggettive e soggettive, ed entrambe le disposizioni citano la recidiva.Da tale classificazione come circostanza aggravante derivano importanti conseguenze, tra le più importanti vi è quella per la quale anche la recidiva deve soggiacere alle normali regole in materia di concorso di circostanze (artt. 63 e ss. c.p.), come sottolineato anche dalle pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Una prima sentenza del 2011 ha evidenziato che l’art. 63 co. 4 c.p. sul concorso tra circostanze ad effetto speciale si applica anche alla recidiva; e una seconda sentenza del 2021 ha ribadito che la recidiva è una circostanza, ed è circostanza ad effetto speciale (tranne che nel comma 1), quindi deve trovare applicazione anche la disciplina ex art. 649 bis c.p. sul regime di procedibilità d’ufficio.2 - I diversi tipi di recidivaL’art. 99 c.p. prevede diversi tipi di recidiva.Il primo comma prevede la recidiva semplice, che sussiste nel momento in cui un soggetto commette un qualsiasi delitto non colposo dopo essere stato giudicato con sentenza passata in giudicato per un precedente delitto non colposo. In questo caso è previsto l’aumento di un terzo della pena.Il secondo comma prevede la recidiva monoaggravata, che ricorre o quando il reato espressivo (quindi il secondo delitto) è della stessa indole del primo; o è stato commesso entro 5 anni dalla precedente condanna; o, ancora, è stato commesso nel corso dell’esecuzione della pena. A fronte di tale circostanza aggravante il legislatore prevede un aumento della pena fino alla metà.Il terzo comma disciplina la recidiva pluriaggravata, la quale prevede che ricorrano due o più circostanze del secondo comma; quindi ad es. il reato espressivo sia contemporaneamente della stessa indole del primo e sia stato commesso nei cinque anni dalla precedente condanna. L’aumento di pena in questo caso è della metà.Il quarto comma prevede la recidiva reiterata, che sussiste nel momento in cui un soggetto già dichiarato recidivo commetta un altro delitto non colposo. In questo caso l’aumento di pena è della metà nel caso di cui al primo comma, e di due terzi negli altri casi.Infine, il comma 5 prevedeva originariamente una forma di recidiva obbligatoria. Oggi tale ipotesi di obbligatorietà è stata espunta dall’ordinamento, perché considerata incostituzionale dalla Corte in quanto del tutto irragionevole: si applicava a prescindere dal reato fondante, e teneva conto del solo reato espressivo, il quale doveva rientrare in un catalogo del tutto eterogeneo ex art. 407 c.p.p. Nella disciplina attuale l’unica obbligatorietà concerne il quantum di pena, e non anche la valutazione sull’an, quindi la valutazione in merito alla sussistenza o meno della recidiva.3 - Gli effetti secondari della recidivaLa legge penale ricollega delle conseguenze pregiudizievoli ulteriori al soggetto che è stato dichiarato recidivo. Infatti, non si ha il solo effetto diretto dell’incremento di pena, ma si hanno anche ulteriori effetti, tra cui, una maggiore difficoltà nel riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (art. 62 bis co. 2 bis c.p.); un limite minimo di aumento della pena nel caso di reato continuato commesso dal recidivo reiterato (art. 81 co. 4 c.p.); un allungamento del termine di prescrizione (art. 157 c.p.); una maggiore limitazione in caso di amnistia e indulto (artt. 151 co. 5 e 171 co. 3 c.p.).La Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è occupata più volte del campo di applicazione di tali effetti pregiudizievoli ulteriori. È pacifico che se il giudice non ha proprio applicato la recidiva, perché ha ritenuto che tra reato fondante e reato espressivo non vi era alcun collegamento, allora non si verificherà né l’effetto principale dell’aumento di pena, né gli effetti secondari.Se, invece, ha applicato la recidiva perché sussiste un collegamento tra i due reati, allora si produrranno anche gli effetti secondari, oltre all’aumento di pena. Il caso problematico è quello del concorso eterogeneo di circostanze, cioè il caso in cui il fatto di reato è connotato sia da circostanze attenuanti sia da circostanze aggravanti, quali la recidiva. Il giudice dovrà operare il giudizio di bilanciamento previsto dall’art. 69 c.p. alla luce del quale la circostanza aggravante della recidiva potrà essere considerata prevalente, equivalente o subvalente rispetto alle attenuanti.Nel caso in cui risulti prevalente la recidiva, è pacifico che si produrranno gli effetti secondari oltre all’effetto principale dell’aumento di pena.Se, invece, la recidiva risulta equivalente rispetto alle attenuanti, una prima tesi ha sostenuto che vi sia stata una elisione della stessa, a fronte della quale è scomparsa, e non essendoci stato un aumento di pena non possono esservi neanche gli effetti secondari. Le Sezioni Unite nel 2010, diversamente, hanno sostenuto che, anche se apparentemente scomparsa, in realtà il giudice ha ritenuto esistente la recidiva, perché altrimenti non avrebbe potuto fare il giudizio di bilanciamento. Quindi anche in caso di equivalenza la recidiva è da ritenersi applicata, e quindi trovano applicazione anche le norme sugli effetti secondari.Infine, nel caso in cui la recidiva venga ritenuta subvalente rispetto alle attenuanti, sono state sostenute due tesi. Una prima tesi, accolta dalle Sezioni Unite nel 2021, ritiene che anche in questo caso la recidiva è da ritenersi applicata e di conseguenza anche tutti gli effetti secondari troveranno applicazione. Una seconda tesi, accolta da altre Sezioni Unite nel 2018, ritiene invece che solo nel caso in cui sia espressamente previsto dalla legge anche in caso di subvalenza dovranno applicarsi gli effetti secondari, come avviene per la disciplina della prescrizione (artt. 157 e 161 c.p. che ritengono comunque esistente la recidiva, anche se subvalente), e non invece negli altri casi in cui non esiste una norma specifica.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
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Egregio Avvocato
8 giu. 2021 • tempo di lettura 8 minuti
La scuola è titolare di un obbligo di tutelare l’integrità fisica degli allievi dal momento dell’apertura dei cancelli fino al momento dell’uscita dai medesimi e, per i più piccoli, fino alla riconsegna al genitore o a persona delegata. L’istituto e gli insegnanti hanno, pertanto, il dovere di predisporre ogni accorgimento utile e doveroso per evitare la causazione di danni agli allievi, per tutto il tempo della custodia.1 - Quadro normativo di riferimento2 - Danno cagionato da un alunno a terzi2.1 - L’art. 2048 c.c.: presunzione di culpa in vigilando dell’insegnante 2.2 - L’art. 61 l. 312/1980: disciplina specifica per gli insegnanti statali3 - Danno cagionato dall’alunno a sé stesso1 - Quadro normativo di riferimentoLa responsabilità conseguente alla vigilanza cui è tenuto un istituto scolastico è strettamente connessa all’affidamento di un minore da parte dei genitori all’istituto e si mantiene per tutto il tempo in cui l’alunno rimane nell’istituto, fino a che venga riconsegnato al potere di vigilanza dei genitori. Il codice civile detta, all’art. 2048 co. 2 c.c., una disciplina specifica in tema di responsabilità dei precettori e dei maestri d’arte, stabilendo che “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”. Il co. 3 precisa che questi soggetti sono liberati dalla responsabilità “soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.L’art. 2048 c.c., come vedremo, introduce una particolare ipotesi di responsabilità extracontrattuale dell’insegnante per il fatto illecito commesso da un alunno che si trovi sotto la sua vigilanza a danno di altri alunni. Vedremo, invece, che per la tesi attualmente dominante, il caso dell’autolesionismo dell’allievo va ricondotto alla responsabilità contrattuale.Giova, pertanto, ricordare sinteticamente come funziona nel nostro ordinamento il sistema della responsabilità civile e quali sono le differenze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (o aquiliana).La responsabilità contrattuale deriva dall’inadempimento, dall’inesatto adempimento o dall’adempimento tardivo di una preesistente obbligazione (art. 1218 c.c.).La responsabilità extracontrattuale sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 c.c.). Il discrimen, pertanto, va ricercato nella fonte da cui sorge la responsabilità: rispettivamente, una precedente obbligazione o un fatto illecito. Di assoluto rilievo sono le conseguenze pratiche di questa distinzione:prescrizione: la responsabilità contrattuale si prescrive in dieci anni; la responsabilità aquiliana in cinque anni;onere della prova: in caso di responsabilità contrattuale, chi agisce in giudizio deve dimostrare solo l’esistenza dell’obbligazione (ad es. del contratto) e l’oggettivo inadempimento, mentre il debitore deve provare che l’inadempimento non è a lui imputabile; in caso di responsabilità extracontrattuale, invece, il danneggiato deve dimostrare la condotta del danneggiante, il danno subito, il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, nonché la colpa; vedremo, però, che ci sono dei casi – come quello relativo alla responsabilità aquiliana dell’insegnante – in cui si verifica un’inversione dell’onere della prova, che fa gravare sull’insegnante la prova liberatoria di non aver potuto impedire il fatto. risarcimento del danno: in caso di responsabilità contrattuale, sono risarcibili solo i danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione; in caso di responsabilità extracontrattuale, sono risarcibili tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta dell’agente.2 - Danno cagionato da un alunno a terziCome abbiamo anticipato, se l’alunno cagiona un danno a terzi (ad esempio ad un altro alunno o ad altro personale scolastico) mentre è sotto la vigilanza dell’insegnante, quest’ultimo ne risponde. Fra le disposizioni rilevanti in tema di vigilanza: gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti prima dell’inizio delle lezioni e ad assistere all’uscita degli alunni (art. 42 co. 5 del CCNL del 14 agosto 1995);il Consiglio di Istituto delibera sull’adozione del regolamento interno, che deve stabilire le modalità per la vigilanza degli alunni durante l’ingresso e la permanenza nella scuola, nonché durante l’uscita dalla stessa (art. 10 lett. a) Testo Unico delle disposizioni vigenti in materia di istruzione).Si tratta di una responsabilità extracontrattuale, in quanto deriva da un fatto illecito, ma è un modello che si atteggia in modo particolare rispetto a quello generale di cui all’art. 2043 c.c. e che deve tenere conto, con riferimento ai soli insegnanti statali, della disciplina di cui all’art. 61 l. 312/1980.Della mancata vigilanza sugli alunni non risponde, invece, il dirigente scolastico: fra i suoi doveri non vi sono quelli di vigilanza sugli alunni ma quelli organizzativi, di amministrazione e di controllo sull’attività degli operatori scolastici. Di conseguenza, egli ha una responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. nei casi in cui il danno sia conseguenza di carenze organizzative a lui imputabili.2.1 - L’art. 2048 c.c.: presunzione di culpa in vigilando dell’insegnante L’art. 2048 c.c. introduce un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui (cioè dell’insegnante, per il fatto dell’alunno), che si basa sul modello della culpa in vigilando: la legge presume la colpa (cioè la mancanza di diligenza), sulla base del solo dovere di vigilanza di cui sono investiti gli insegnanti. In altre parole, c’è la presunzione di un negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza sugli allievi (appunto presunzione di culpa in vigilando): l’insegnante può superare questa presunzione solo se dimostra, nel caso concreto, il caso fortuito. L’insegnante, pertanto, sarà tenuto al risarcimento del danno nei confronti dei terzi danneggiati dal fatto illecito dell’alunno, a meno che dimostri che nella serie causale dell’evento si è inserito un fatto esterno improvviso, imprevedibile e repentino in relazione al quale l’insegnante non poteva esercitare alcun intervento correttivo. La prova è ulteriormente aggravata dalla giurisprudenza, che richiede che l’insegnante dimostri anche di aver assunto, in via preventiva, le misure atte ad evitare il danno che in concreto si è verificato. Ecco l’inversione dell’onere della prova cui si è fatto prima cenno: mentre, normalmente, è il danneggiato a dover dimostrare la colpa e gli altri elementi costitutivi dell’illecito civile extracontrattuale, nel caso della responsabilità dell’insegnante il danneggiato deve provare solo che il fatto si è verificato nel tempo in cui il minore è rimasto affidato alla scuola.Va precisato, tuttavia, che il dovere di vigilanza imposto ai docenti dall’art. 2048 c.c. ha una ampiezza che dipende dall’età e dal normale grado di maturazione degli alunni: con l’avvicinamento di questi ultimi alla maggiore età, ad esempio, l’adempimento del dovere di vigilanza non richiede la continua presenza degli insegnanti, purché comunque non manchino le necessarie misure organizzative idonee ad evitare il danno. Ne consegue che l’alunno minorenne, qualora sia ritenuto capace di intendere e di volere al momento del fatto, potrebbe essere chiamato a rispondere (rappresentato dai genitori) in solido con l’insegnante o anche in modo esclusivo.2.2 - L’art. 61 l. 312/1980: disciplina specifica per gli insegnanti stataliIn base all’art. 28 della Costituzione, quando si tratta di dipendenti pubblici è sempre responsabile anche la pubblica amministrazione di appartenenza (cioè il Ministero dell’Istruzione), per il principio di immedesimazione organica.Su questo fronte, l’art. 61 l. 312/1980 ha profondamente innovato e mitigato la disciplina della responsabilità del personale scolastico pubblico per i danni causati a terzi nell’esercizio delle funzioni di vigilanza sugli alunni. In primo luogo, secondo questa norma il personale scolastico risponde dei danni che l’alunno abbia cagionato alla stessa amministrazione (ad esempio, danneggiando i banchi) ma solo nei casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza sugli alunni.Inoltre, gli insegnanti statali non rispondono personalmente verso i terzi danneggiati, rispetto ai quali risponde direttamente l’amministrazione. Ciò comporta, a livello processuale, una esclusione dell’insegnante, che viene sostituito direttamente dall’amministrazione: in modo più tecnico, l’art. 61 esclude la legittimazione passiva dell’insegnante. Tuttavia l’amministrazione, qualora in giudizio fosse accertata la responsabilità dell’insegnante, potrà rivalersi nei suoi confronti ma solo in caso di dolo o colpa grave. Secondo l’orientamento prevalente, l’esclusione della legittimazione passiva dell’insegnante è esclusa non solo nel caso di azione per danni arrecati da un alunno ad altro alunno ma anche in quello di danni arrecati dall’allievo a se stesso.3 - Danno cagionato dall’alunno a se stessoCome si è anticipato, l’orientamento attualmente maggioritario ritiene che il danno c.d. auto-provocato, cioè direttamente provocato dall’alunno a sé stesso fondi, non già una responsabilità aquiliana, bensì una responsabilità contrattuale.In particolare:l’istituto scolastico, con l’ammissione dell’allievo a scuola che consegue all’accoglimento della domanda di iscrizione, determina l’instaurarsi di un vincolo contrattuale: da questo sorge a carico dell’istituto un obbligo di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica. Ne deriva quindi anche l’obbligo di evitare che l’allievo procuri danno a sé stesso;l’insegnante e l’alunno sono legati da un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, al fine di evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Questo rapporto giuridico si fonda non su un contratto quanto sul c.d. “contatto sociale”, che discende dalla descritta relazione qualificata che sussiste fra l’allievo e l’insegnante.Di conseguenza, viene in rilievo il regime probatorio previsto in tema di responsabilità contrattuale e non opera la presunzione di culpa in vigilando di cui all’art. 2048 c.c.: chi agisce, deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, quindi a scuola; l’insegnante o il dirigente scolastico devono dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da una causa non imputabile né all’insegnante né alla scuola, comprovando di aver predisposto ogni accorgimento idoneo ad impedire la realizzazione dell’evento.Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
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