I reati di uccisione e maltrattamento di animali: gli artt. 544 bis e 544 ter c.p.

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Pubblicato il 22 feb. 2021 · tempo di lettura 6 minuti

I reati di uccisione e maltrattamento di animali: gli artt. 544 bis e 544 ter c.p. | Egregio Avvocato
Dal 2004, la legge prevede espressamente i reati di uccisione e maltrattamento di animali agli artt. 544 bis e 544 ter c.p.. Tali previsioni inizialmente erano ispirate ad una logica “antropocentrica”, volta cioè a tutelare il sentimento di pietà della persona rispetto agli animali, oggetto di una protezione soltanto indiretta. Negli ultimi tempi, tuttavia, la giurisprudenza sembra aver riconosciuto un maggior rilievo alla sensibilità e serenità psicofisica degli animali, garantendo loro una tutela più ampia ed indipendente rispetto a quella riconosciuta agli uomini. 


  1. Cosa prevedono i reati di uccisione e maltrattamenti di animali?
  2. Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?
  3. Quali sono le pene previste per i reati?
  4. Cosa fare in caso di uccisione o maltrattamenti di animali?


1 - Cosa prevedono i reati di uccisione e maltrattamenti di animali?


Gli artt. 544 bis e 544 ter c.p. prevedono, rispettivamente, i delitti di uccisione e maltrattamento di animali.


Entrambe le disposizioni individuano quale elemento fondamentale della fattispecie penale la circostanza che l’autore agisca:

  • per crudeltà, cioè con condotte o per motivi che urtano la sensibilità umana, valevoli a infliggere gravi sofferenze senza giustificato motivo; in tal modo è esclusa la punibilità di chi, ad esempio, cagioni la morte dell’animale inavvertitamente durante la guida;
  • o in assenza di necessità, che vi sarebbe nel caso in cui la condotta sia funzionale a evitare un pericolo immanente o un danno alla propria persona o ad altri ma anche ad evitare il protrarsi di inutili sofferenze dell’animale stesso; è esclusa, ad esempio, la punibilità del veterinario che somministri all’animale un farmaco per sopprimerlo.

Inoltre, è esclusa la configurabilità dei reati ai sensi dell’art. 19 ter disp. coord. c.p., nei casi di condotte disciplinate (e autorizzate) dalle leggi speciali come quelle relative alla caccia, alla pesca, o alla macellazione degli animali – ricondotte ad una sorta di “necessità sociale”.


Il reato di uccisione fa riferimento all’ipotesi in cui chiunque cagioni la morte di un animale, per crudeltà o senza necessità.


Nel caso del delitto di maltrattamenti, rileva ogni condotta idonea a cagionare una «lesione» all’animale, cioè una ferita o una malattia, ma anche il procurare sofferenze di tipo diverso, anche non necessariamente fisiche. Ciò perché l’animale viene considerato e tutelato quale essere sensibile, capace di provare dolore.

Parimenti, rileva la situazione in cui un soggetto imponga all’animale il compimento di attività sproporzionate o non compatibili con le sue caratteristiche naturali.

A questi fini possono rilevare sia le aggressioni fisiche (come calci, percosse, bastonate), ma anche le sevizie (come ad esempio privare l’animale del cibo o costringerlo a vivere in luoghi angusti o sporchi).


È quindi sufficiente aver cagionato sofferenze «di carattere ambientale, comportamentale, etologico o logistico, comunque capaci di produrre nocumento agli animali, in quanto esseri senzienti».

Ciò è quanto ha ritenuto la Corte di Cassazione in relazione al discusso “caso della mucca Doris”, riguardante un bovino in precarie condizioni di salute, destinato alla macellazione ma sottoposto a inutili sevizie e vessazioni dai soggetti responsabili del trasporto al macello, ritenuti responsabili del reato di maltrattamenti perché, al fine di trascinarlo, procedevano a bastonarlo, sottoporgli scosse elettriche, calpestarlo e caricarlo a forza sulla pala di un trattore agricolo per gettarlo successivamente all’interno di un camion.

Allo stesso modo, alcuni Tribunali hanno ritenuto riconducibile al reato di maltrattamenti la condotta del ristoratore che detiene animali destinati al consumo ma ancora vivi, come le aragoste, in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze – cioè all’interno di frigoriferi, a temperature prossime agli zero gradi centigradi, sopra un letto di ghiaccio o con le chele legate.


In entrambi i casi, sembra rilevare come, nonostante l’animale che subisca i maltrattamenti sia destinato a morire ed al consumo, nel rispetto delle normative speciali e delle consuetudini sociali, comunque non possano ritenersi giustificabili le sofferenze causate precedentemente.

 

Il reato di maltrattamenti si configura, infine, anche nel caso in cui vengano somministrate agli animali sostanze di vario tipo, comunque idonee a cagionare un danno dalla salute di questi. Si tratta del cd. “reato di doping a danno di animali”, che la legge punisce al fine di prevenire l’ulteriore ipotesi delittuosa delle scommesse clandestine o dei combattimenti tra animali, in vista dei quali spesso gli animali vengono drogati. 


Sia il reato di uccisione, sia quello di maltrattamenti possono essere puniti solo se compiuti con dolo, cioè con coscienza e volontà da parte dell’autore delle condotte. Non è invece punibile la condotta compiuta per colpa o per il bene dell’animale stesso.


2 - Chi è il destinatario della tutela penale?


I reati esaminati appartengono alla categoria dei delitti “contro il sentimento per gli animali”.

L’oggetto primario di tutela veniva infatti riconosciuto, originariamente, nella sensibilità delle persone nei confronti degli animali, nel loro sentimento di pietà e affezione nei confronti di questi, che sarebbe leso dal verificarsi delle condotte incriminate.

In tal senso, l’animale viene tutelato solo indirettamente, in virtù di una protezione che la legge accorda in realtà all’uomo.


Progressivamente, la giurisprudenza sembra tuttavia aver riconosciuto all’animale una tutela più ampia e slegata dalla diretta riconducibilità all’uomo stesso, riconoscendolo quale vero e proprio soggetto passivo del reato.

Così, ad esempio, nei casi esaminati sono state ritenute penalmente rilevanti le condotte idonee a incidere “solo” sulla stabilità e serenità psicofisica dell’animale, anche se non lesive della sensibilità umana, dandosi rilievo all’offesa agli animali e alle loro caratteristiche biologiche, più che al sentimento di umana compassione. 

Nella stessa direzione sembra andare il riconoscimento della tutela anche degli animali non “di affezione” e tipicamente “domestici”, come i bovini e le aragoste menzionate, peraltro destinati al macello o al consumo; nonché la pretesa dei giudici ad una rigorosa applicazione delle norme speciali che autorizzano le condotte umane lesive nei confronti degli animali (come la pesca: essa, ad esempio, non potrebbe legittimare l’imposizione agli animali usati come esca condizioni insopportabili e incompatibili con i comportamenti tipici della specie di appartenenza).


3 - Quali sono le pene previste per i reati?


Il reato di uccisione di animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni.

Quello di maltrattamenti, invece, con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000,00 a 30.000,00 euro.

La pena è aumentata della metà se dai fatti di maltrattamento derivi (come conseguenza non voluta) la morte dell’animale.


4 - Cosa fare in caso di uccisione o maltrattamenti di animali?


Nel caso in cui si sia a conoscenza di fatti di uccisione o maltrattamenti, o si nutra un serio e fondato sospetto che questi siano in atto o si siano verificati, occorre segnalarlo alle Autorità competenti (polizia, carabinieri, ecc…) ed alle Guardie Zoofile presenti su tutto il territorio. 


È pure possibile consultare il loro portale online, sul sito https://www.guardiezoofile.info/segnalazione/ , che permette di segnalare il maltrattamento semplicemente compilando un apposito modulo.


Il reato è, in ogni caso, procedibile d’ufficio, per cui non è necessario sporgere formale querela e in base alle segnalazioni gli organi competenti dovranno procedere con i dovuti accertamenti.


Editor: dott.ssa Anna Maria Calvino

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L'art. 640 c.p.: incorrere in una truffa navigando in internet

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Ai fini di tale distinzione, è dunque necessario comprendere quali siano gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 640 c.p.La truffa, sul versante del diritto penale, si sostanzia nella condotta di chi, con artifizi o raggiri, inducendo un’altra persona in errore, procuri a sé o ad altri un profitto ingiusto, provocando l’altrui danno. In altre parole, una persona (il truffatore), attraverso l’artifizio o il raggiro, induce la vittima a fare un qualcosa che, senza la condotta truffaldina, non avrebbe fatto; in tal modo la persona offesa è portata a effettuare, in favore del truffatore, un’operazione di natura patrimoniale (un pagamento dal conto corrente ad esempio). Ai fini dell’integrazione del reato devono concretizzarsi tutti i citati elementi, che chiaramente sono strettamente interconnessi tra loro: l’induzione in errore della persona offesa, infatti, comporta l’atto di disposizione patrimoniale della stessa, il quale a sua volta determina contemporaneamente sia il danno a carico di quest’ultima che l’ingiusto profitto altrui.Volendo brevemente approfondire i singoli elementi costitutivi menzionati, l’artifizio consiste nella manipolazione della realtà esterna, che si concretizza nella simulazione di circostanze inesistenti. Il raggiro, invece, si declina in un’attività di persuasione, finalizzata a ingenerare la convinzione in altri che una data circostanza – falsa – sia in realtà vera. Quanto al profitto, è pacifico che esso non debba assumere natura prettamente economica, ma può tradursi in una qualsiasi utilità percepita dal truffatore. Con riferimento al concetto di danno, infine, l’opinione maggioritaria è che si tratti di una lesione del patrimonio della persona offesa di natura strettamente economica (così ad esempio un bonifico effettuato in favore del finto esercente, che comporta una diminuzione quantitativa del proprio patrimonio).2 - Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?In caso di accertamento positivo della responsabilità penale ai sensi dell’art. 640 c.p., la persona può essere condannata alla pena detentiva, che può spaziare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni, e alla multa compresa tra 51 e 1.032 euro.In taluni casi, tuttavia, è previsto un aggravio delle suddette sanzioni. Il legislatore, infatti, innalza la cornice edittale della reclusione da uno a cinque anni e quella della multa da 309 a 1.549 euro, laddove:il fatto venga commesso a danno dello Stato o di altro ente pubblico;la condotta truffaldina ingeneri nella vittima il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di essere obbligato a eseguire un ordine dell’autorità;si concretizzi la circostanza aggravante della c.d. minorata difesa di cui all’art. 61, co. 1 n. 5 c.p., vale a dire l’aver profittato di circostanze di tempo, luogo o di persona idonee a ostacolare la pubblica o privata difesa.Si consideri, inoltre, che nei procedimenti penali aventi ad oggetto il reato di truffa, se il danno patrimoniale subito dalla persona offesa è di rilevante gravità, la Procura della Repubblica contesterà altresì la circostanza aggravante di cui all’art. 61, co. 1 n. 7 c.p., così comportando un aumento di pena sino a un terzo.3 - Cosa fare se si è vittima di truffa?La persona che ritiene essere vittima di una truffa deve rivolgersi quanto prima alle Forze dell’Ordine, cosicché quest’ultime possano attivarsi in tempi brevi per l’accertamento del comportamento illecito. Nel mondo di internet, in ragione del repentino mutamento delle pagine web o dei profili utilizzati per perpetrare la truffa, è sicuramente importante, per il buon esito dell’attività investigativa, che le autorità competenti intervengano repentinamente. A tal fine, può essere senz’altro utile effettuare nell’immediatezza dei fatti una segnalazione direttamente tramite il sito della polizia postale che, una volta ricevuta la potenziale notizia di reato, si attiverà immediatamente per verificare l’effettiva illiceità dei comportamenti rappresentati.Il reato in questione, tuttavia, è procedibile a querela di parte, ad eccezione delle ipotesi aggravate sopra indicate. Ciò vuol dire che, ai fini del perseguimento dell’illecito in sede penale, è comunque necessario che la persona offesa sporga un’apposita querela. Quest’ultima può essere presentata, in forma scritta o orale, direttamente dalla vittima o per mezzo di un avvocato, opzione quest’ultima preferibile laddove la vicenda dovesse essere particolarmente complessa. La querela può essere sporta presso le stazioni locali delle Forze dell’Ordine (Carabinieri o Polizia di Stato); in alternativa, l’atto può essere depositato direttamente presso la Procura della Repubblica. In quest’ultimo caso, i fatti rappresentati dalla persona offesa verranno portati direttamente all’attenzione del pubblico ministero, soggetto quest’ultimo competente per lo svolgimento delle successive indagini. In ogni caso, l’aspetto essenziale da tenere in considerazione riguarda la tempistica con cui deve depositarsi la querela: ai sensi dell’art. 124 c.p., infatti, l’atto deve essere presentato entro tre mesi dalla conoscenza dei fatti. 4 - Cosa fare per ottenere il risarcimento del danno?Una volta instaurato il procedimento penale, la persona offesa, coadiuvata da un avvocato difensore, può decidere di richiedere il risarcimento del danno direttamente in sede penale o, alternativamente, in sede civile, instaurando con atto di citazione un giudizio separato e autonomo rispetto al procedimento penale. In sede penale, l’esercizio dell’azione civile avviene con il deposito, in udienza preliminare o comunque entro la verifica della costituzione delle parti prima dell’apertura del dibattimento, della dichiarazione di costituzione di parte civile. All’esito del dibattimento, inoltre, la parte civile deve depositare, in forma scritta, le proprie conclusioni, che devono comprendere la quantificazione dell’importo richiesto a titolo di risarcimento del danno. Laddove non si dovesse provvedere in questi termini, la costituzione di parte civile si intende revocata e, quindi, la vittima non potrà ottenere nel processo penale alcun tipo di risarcimento.  In sede civile, invece, la persona danneggiata, ai fini dell’instaurazione del giudizio, deve notificare alla controparte l’atto di citazione, comprensivo delle ragioni poste a fondamento della propria richiesta di risarcimento del danno. 

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Egregio Avvocato

tipologie di Stalking e Gaslighting

16 lug. 2023 tempo di lettura 4 minuti

Lo stalking, o molestia psicologica, si manifesta in diverse forme, tra cui:Pedinamento: seguire o monitorare la vittima in modo costante.Contatti continui: inviare messaggi, chiamate, e-mail o effettuare visite indesiderate alla vittima.Minacce: minacciare la vittima o le persone a lei care.Diffamazione: diffondere informazioni false o dannose sulla vittima.Interferenza nella vita privata: invadere la privacy della vittima, ad esempio tramite il controllo dei suoi account social o l'installazione di software di sorveglianza.In Italia, lo stalking è punito dal codice penale, con pene che variano a seconda della gravità del reato.L'art. 612-bis del codice penale, introdotto dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019 (Codice Rosso) punisce con la reclusione da 6 mesi a 4 anni, la condotta di molestie, minacce, ingiurie, lesioni e danneggiamenti, qualora tali condotte siano reiterate e commesse ai danni della medesima persona, ovvero nei confronti di familiari o persone legate alla stessa da relazione affettiva ovvero nei confronti di persone che la stessa persona ha conosciuto a causa della sua attività lavorativa o professionale.Inoltre, la legge prevede l'adozione di provvedimenti di urgenza quali allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinamento e di comunicazione con la vittima e sospensione dell'esercizio di attività lavorative o professionali.Esistono diverse tipologie di stalking, tra cui:Stalking amoroso: si verifica quando una persona inizia a molestare un'altra persona con cui ha avuto una relazione romantica o che desidera avere una relazione romantica.Stalking professionale: si verifica quando un individuo molesta un collega o un superiore sul posto di lavoro.Stalking online: si verifica quando un individuo utilizza i mezzi digitali per molestare un'altra persona, ad esempio inviando messaggi di testo o postando commenti offensivi sui social media.Stalking a scopo sessuale: si verifica quando un individuo molesta un'altra persona con l'intento di ottenere sesso o soddisfazione sessuale.Stalking per vendetta: si verifica quando un individuo molesta un'altra persona per vendicarsi di una percepita offesa o ingiustizia.Stalking a scopo criminale: si verifica quando un individuo utilizza la molestia psicologica come mezzo per commettere altri reati, come il furto o il sequestro di persona.Tutte queste tipologie di stalking sono illegali e punibili per legge, ma le punizioni variano a seconda della gravità del reato.Il GaslightingIl gaslighting è una forma di abuso psicologico in cui una persona manipola deliberatamente un'altra persona, facendole mettere in dubbio la propria percezione della realtà. Il termine deriva dalla trama di un film del 1938 intitolato "Gas Light", in cui il personaggio principale manipola la sua moglie facendole credere di essere pazza.Il gaslighting consiste nel negare l'evidenza, nel distorcere la verità e nel manipolare le informazioni per far apparire la vittima come instabile o insicura. La persona che compie questi atti può anche cercare di convincere la vittima che i suoi ricordi o le sue percezioni sono sbagliati, che le sue emozioni sono ingiustificate o che le sue paure sono immaginarie.Per dimostrare di essere vittime di gaslighting, è importante raccogliere prove concrete del comportamento della persona che compie gli atti, ad esempio registrazioni audio o messaggi di testo. Inoltre, è importante rivolgersi a un professionista della salute mentale o a un avvocato specializzato in diritti umani per ottenere supporto e aiuto legale.È importante notare che il gaslighting è una forma di abuso e può avere conseguenze negative sulla salute mentale e sulla vita personale della vittima. Se si sospetta di essere vittime di gaslighting, è importante cercare aiuto e supporto il prima possibile.Il gaslighting in sé non è considerato un reato specifico in molti paesi, ma può essere considerato una forma di abuso psicologico o emotivo. Ciò significa che, se le azioni del gaslighter costituiscono un'infrazione ad altre leggi, come la legge sulle molestie o la legge sulla privacy, allora potrebbero essere punite come tali.Ad esempio, il gaslighting può integrare i reati di stalking se la persona che compie gli atti di manipolazione persiste nel suo comportamento e molesta la vittima. Inoltre, se il gaslighter utilizza mezzi digitali per manipolare la vittima, potrebbe essere punito per cyberstalking o per l'invasione della privacy attraverso l'utilizzo di tecnologie informatiche.In ogni caso, la punibilità dei reati commessi nel contesto del gaslighting dipende dalle leggi specifiche del paese in cui questi reati vengono commessi. Se si sospetta di essere vittime di gaslighting o di altre forme di abuso, è importante cercare l'aiuto di un avvocato o di un'organizzazione specializzata per aiutare a determinare se i comportamenti costituiscono un reato e come denunciare i responsabili.

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Il testimone nel processo penale: obblighi e responsabilità

28 gen. 2021 tempo di lettura 7 minuti

Nel processo penale italiano grande rilevanza probatoria viene data alle dichiarazioni rese dai testimoni nel corso del dibattimento, in quanto reale espressione del principio del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza. Ma quali sono gli obblighi cui è soggetto il cittadino chiamato a testimoniare? Quali sono le responsabilità e le conseguenze cui può andare incontro? Sono previste delle ipotesi di non punibilità?Chi è il testimone?Quali sono gli obblighi del testimone? Quali sono le conseguenze in caso di violazione degli obblighi? In quali casi il testimone che dichiara il falso potrebbe andare esente da pena?1 - Chi è il testimone?Il testimone è un soggetto avente un ruolo fondamentale nel processo penale italiano, ed in particolare nella fase del dibattimento. Il principio cardine del processo penale, infatti, è il principio del contraddittorio, con i corollari principi dell’oralità e dell’immediatezza, alla luce dei quali il giudice penale deve formare il proprio convincimento (di assoluzione o di condanna) mediante delle prove che si formino nel processo stesso, e non mediante delle prove cd. precostituite. La testimonianza, e quindi il ruolo del testimone, rispecchia pienamente questa esigenza di oralità ed immediatezza, in quanto le dichiarazioni vengono rese non solo davanti al giudice che sarà poi chiamato a decidere, ma dinanzi alle parti processuali, cioè il PM, l’imputato e il difensore di quest’ultimo, i quali potranno rivolgere delle domande al dichiarante. L’esame del testimone, invero, avviene nel contesto del cd. “esame incrociato”, ove le domande verranno poste prima dalla parte che ha chiesto la presenza di quel soggetto come testimone (esame), poi dall’altra parte (controesame), a fronte del quale la prima parte potrà nuovamente porre altre domande (riesame), ed infine eventualmente anche dal giudice.Il testimone, dunque, è un soggetto informato dei fatti, che viene chiamato nel corso del dibattimento per rendere delle dichiarazioni inerenti al fatto di reato, oggetto del processo.2 - Quali sono gli obblighi del testimone?Il cittadino chiamato a testimoniare in un processo penale riceve un atto denominato “citazione testi”, di regola notificato con raccomandata se citato dai difensori dell’imputato o mediante ufficiale giudiziario se citato dal PM. In tale atto vengono indicati l’ora, il giorno e il luogo nel quale presentarsi, oltre che l’indicazione del procedimento penale per il quale è richiesta la dichiarazione testimoniale.L’art. 198 c.p.p. sancisce che il testimone ha l’obbligodi presentarsi dinanzi al giudice;di attenersi alle prescrizioni date dal giudice stesso per le esigenze processuali;di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte.Il cittadino, dunque, non ha la mera facoltà di presentarsi a testimoniare, ma – se chiamato – ha l’obbligo di presentarsi e rendere testimonianza, anche nel caso in cui precedentemente abbia già reso delle dichiarazioni sui medesimi fatti dinanzi ad altre autorità, come le Forze di Polizia. Il giudice, infatti, non è a conoscenza delle precedenti dichiarazioni eventualmente rese.Una volta presente in udienza, il cittadino verrà chiamato a sedersi al banco dei testimoni, dovrà qualificarsi fornendo le proprie generalità e dovrà impegnarsi nell’assunzione del proprio ruolo mediante la lettura a voce alta di una formula sacramentale, che verrà indicata dal giudice. Appare opportuno evidenziare che nell’ordinamento italiano questo impegno solenne non viene assunto mediante giuramento sulla Bibbia, alla luce della laicità dello Stato italiano, ma viene assunto invece mediante la lettura di una precisa formula volta a rendere consapevole il cittadino dell’importanza del ruolo assunto. Solo dopo la lettura di tale formula, e l’avvertimento da parte del giudice delle eventuali conseguenze cui il testimone può andare incontro, avranno inizio le domande, alle quali il testimone sarà obbligato a rispondere secondo verità.3 - Quali sono le conseguenze in caso di violazione degli obblighi?Il legislatore penale italiano, proprio alla luce del ruolo rilevante giocato dal testimone all’interno del processo, ha previsto delle conseguenze particolarmente incidenti per il soggetto che violi gli obblighi previsti dall’art. 198 c.p.p.In primo luogo, nel caso in cui il cittadino regolarmente chiamato a testimoniare non si presenti senza addurre un legittimo impedimento, o qualora l'impedimento addotto non sia ritenuto legittimo, il giudice potrà disporre il cd. accompagnamento coattivo: viene disposta un’ulteriore udienza alla quale il testimone dovrà essere accompagnato coattivamente dalle Forze dell’Ordine. Il giudice potrà, altresì, condannare il testimone al pagamento di una somma da €51 a €516 a favore della cassa delle ammende, nonché al pagamento delle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa, ai sensi dell'art. 133 c.p.p.In secondo luogo, una conseguenza ancor più grave è prevista nel caso di violazione dell’ulteriore obbligo: se il testimone nel corso del proprio esame non rispetta e viola l’obbligo di dire la verità commette un fatto penalmente rilevante, quale il reato di falsa testimonianza. L’art. 372 c.p. prevede, invero, la pena della reclusione dai due ai sei anni per chiunque, deponendo come testimone innanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, realizzi una delle seguenti condotte:affermare il falsonegare il verotacere, in tutto o in parte, in merito a ciò che sa sui fatti sui quali è interrogato.In particolare, il reato di falsa testimonianza è un cd. reato proprio, in quanto – nonostante la disposizione legislativa faccia riferimento a “chiunque” – il reato può essere commesso solo da quel soggetto che abbia assunto la qualità di testimone; qualità che si assume nel momento in cui viene disposta la citazione dei testimoni.Il reato di falsa testimonianza si pone a tutela del bene giuridico dell’Amministrazione della giustizia ed è procedibile d’ufficio: non è richiesta la presentazione della querela, ma il giudice al termine del dibattimento potrà automaticamente trasmettere gli atti al PM affinché si proceda per l’accertamento della falsa testimonianza.Ulteriore caratteristica del reato di falsa testimonianza è quella di essere un cd. reato di pericolo. Affinché vi sia la condotta penalmente rilevante, è sufficiente che la dichiarazione sia pertinente all’oggetto del giudizio e suscettibile di incidere, seppur in astratto, sulla decisione giudiziaria; non è richiesto che in concreto il giudice sia stato influenzato o che in concreto abbia preso una decisione ingiusta. 4 - In quali casi il testimone che dichiara il falso potrebbe andare esente da pena?Una prima ipotesi si verifica nel caso in cui il testimone rilasci delle dichiarazioni false o reticenti, che però siano manifestamente inverosimili o riguardino circostanze del tutto irrilevanti ai fini del giudizio. Pur essendo un reato di pericolo, è necessario che vi sia compatibilità con il principio di offensività: la giurisprudenza ritiene che se la dichiarazione non ha nemmeno creato il pericolo della induzione in errore del giudice, e quindi non si è creato neanche un pericolo per l’amministrazione della giustizia, allora il soggetto non sarà punibile per assenza di offesa in concreto. L’art. 384 c.p. prevede due ulteriori ipotesi di non punibilità. Al primo comma dispone che non è punibile chi abbia commesso una falsa testimonianza al fine di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore. Secondo tale disposizione, quindi, il soggetto che si trovi costretto ad affermare il falso, negare il vero o tacere quanto sa in merito ai fatti di reato, al fine di evitare una lesione della propria libertà o dell’onore, non può essere punito per falsa testimonianza. Ciò risponde al principio secondo cui nessuno può essere obbligato ad auto-accusarsi ed a rilasciare dichiarazioni sulla propria responsabilità. L’art. 384 c.p., inoltre, prevede che il soggetto vada esente da pena non solo quando voglia salvare sé stesso, ma anche un prossimo congiunto. Ci si è chiesti se tale locuzione ricomprenda anche il convivente more uxorio: il legislatore penale, invero, ha preso una posizione precisa in merito alle parti di un’unione civile, inserendoli nella definizione di “prossimi congiunti” ai sensi dell’art. 307 c.p. (e per i quali è quindi senza dubbio applicabile l’art. 384 c.p.), non prendendo invece in considerazione il convivente di fatto. Se una lettura estensiva della disposizione sembra doverosa alla luce di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, una diversa ricostruzione ritiene non potersi interpretare estensivamente la disposizione, avendo il legislatore implicitamente preso una decisione negativa in merito. Una diversa scelta legislativa è stata fatta in merito al reato di maltrattamenti, sul quale puoi leggere qui.Si evidenzia, infine, che l’art. 384 co. 1 c.p. non potrà essere applicato a quel prossimo congiunto che sia stato avvisato della facoltà di astenersi, e abbia deciso di rinunciare a tale facoltà così da rendere testimonianza. Invero, al prossimo congiunto è generalmente riconosciuta la facoltà di astenersi in un processo a carico di un proprio familiare, facoltà della quale deve essere ritualmente informato. Ma se il soggetto, una volta informato, decide comunque di rendere testimonianza, e di non avvalersi della facoltà di astensione, allora dovrà rispettare tutti gli obblighi previsti per il testimone dall’art. 198 c.p.p., non potendo invocare l’art. 384 c.p. nel caso in cui violi l’obbligo di dire la verità. Solo se il prossimo congiunto non venga ritualmente avvisato della facoltà di astenersi, e durante la testimonianza dichiari il falso, non potrà essere punito, ma ai sensi del comma 2 dell’art. 384 c.p., e quindi per violazione di una legge processuale. Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo

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