Egregio Avvocato
Pubblicato il 23 mag. 2022 · tempo di lettura 5 minuti
Ai sensi dell’art. 609-bis c.p., è punito chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Ma cosa si intende per “atti sessuali”?
1 - Cenni sul delitto di violenza sessuale
L’art. 609-bis c.p. tutela la libertà sessuale, cioè la libertà di autodeterminarsi in ordine alla propria sfera sessuale ed agli atti che la compongono.
Le condotte prese in considerazione sono essenzialmente due:
Il consenso al rapporto sessuale deve perdurare per tutta la durata del rapporto sessuale, non solo all'inizio: il delitto è integrato quando il consenso originariamente prestato venga meno a causa di un ripensamento o a causa della non condivisione delle modalità di consumazione del rapporto.
Il consenso, inoltre, deve essere prestato validamente e coscientemente.
L’art. 609-bis u. co. c.p. prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale ed indefinita, qualora la compressione della libertà sessuale sia minima avuto riguardo al fatto concreto e delle circostanze.
La violenza sessuale è punita con la reclusione da sei a dodici anni ed è procedibile a querela di parte: la querela deve essere proposta entro dodici mesi dal fatto ed è irrevocabile.
2 - La nozione di “atti sessuali”
Il concetto di “atti sessuali” è poco determinato e ha causato, per questo motivo, un dibattito. In particolare, tradizionalmente sono state proposte due tesi volte a perimetrare la nozione di atto sessuale penalmente rilevante.
Per la tesi oggettivo-anatomica, gli atti penalmente rilevanti vengono selezionati mediante il parametro della zona del corpo attinta dagli atti sessuali: è centrale il concetto di zona erogena, per come è intesa dalla scienza medica e dalle scienze psicologica, antropologica e sociologica.
A questa tesi si contrappone quella oggettivo-contestuale, secondo la quale si dovrebbero invece considerare il contesto e le varie circostanze nelle quali l'atto viene commesso, al fine di determinarne la natura sessuale (ad es. viene spesso citata la “pacca” sui glutei di una conoscente o la natura di saluto dei baci sulla bocca in talune culture, quale quella russa).
La giurisprudenza accoglie prevalentemente la seconda tesi: per stabilire ciò che può considerarsi atto sessuale non è sufficiente fare riferimento alle parti anatomiche aggredite, ma occorre tenere conto dell'intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva.
Di conseguenza, nel concetto di atti sessuali deve ricomprendersi ogni atto comunque coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente.
In quest’ottica, anche un bacio, un abbraccio o un palpeggiamento sono idonei a compromettere la libertà sessuale dell'individuo, qualora, tenendo conto di tutti gli elementi del caso concreto, emerga una indebita compromissione della sessualità del soggetto passivo.
Ne consegue che ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, il giudice di merito deve accertare la rilevanza di tutti quegli atti che, in quanto non direttamente indirizzati a zone chiaramente definibili come erogene, possono essere rivolti al soggetto passivo anche con finalità del tutto diverse, come i baci o gli abbracci: in particolare, il giudicante deve fare una valutazione che tenga conto della condotta nel suo complesso, del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente fra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante.
Con particolare riferimento al bacio sulla bocca, la Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che esso integra il reato di violenza sessuale, se dato senza il consenso, anche se limitato al semplice contatto delle labbra: il bacio sulla bocca perde il suo connotato sessuale solo se è dato in particolari contesti sociali o culturali, dove è solo un segno di affetto.
3 - La rilevanza del bacio nelle pronunce della Corte di Cassazione
La Cassazione ha, quindi, in molte occasioni, qualificato il bacio come atto sessuale.
Di recente ha affermato che nel reato di violenza sessuale, l’elemento della violenza può estrinsecarsi, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel “compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare a sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi” (Cass. Pen., 19 gennaio 2018, n. 47265). Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un dentista che aveva baciato sulla bocca, in modo repentino, una minore, dopo averla fatta accomodare sulla poltrona e averle controllato l’apparecchio ortodontico: nella pronuncia si legge che l’estemporanea iniziativa del dentista aveva colto di sorpresa la minore e l’aveva posta in una condizione di impossibilità di reagire e di esprimere il suo dissenso.
In un diverso caso, la Suprema Corte ha ritenuto penalmente rilevante la condotta di un medico di guardia presso una casa di riposo che, dopo essersi avvicinato velocemente ad un’operatrice sanitaria alla quale non era legato da alcun particolare rapporto confidenziale, l’aveva baciata sulla bocca con una forte pressione (Cass. Pen., 26 novembre 2014, n. 964).
Ancora, la Cassazione ha affermato che è idonea a offendere la libertà di autodeterminazione sessuale “la condotta rapida e insidiosa di chi stringe con forza una donna fra le braccia baciandola sul collo, nella piena consapevolezza di un rifiuto inequivocabilmente e reiteratamente palesato” (Cass. Pen., 9 giugno 2006, n. 19808).
In definitiva, il bacio sulla bocca dato in assenza di consenso – al di fuori dei contesti in cui assume valenza di saluto (come nella tradizione russa) o segno di affetto privo di valenza sessuale (come in alcuni contesti familiari o parentali) – è penalmente rilevante, indipendentemente dalla sua profondità, anche se limitato al semplice contatto delle labbra, in quanto attinge una zona generalmente considerata erogena.
Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
5 mar. 2024 • tempo di lettura 1 minuti
IL CUMULO DI PENAIl cumulo di pena non può comprendere condanne già interamente espiate, a meno che il condannato dimostri un concreto interesse al loro inserimento, né condanne per reati commessi dopo l’inizio dell’esecuzione della pena, ed è quindi doverosa la formazione di cumuli parziali: si vedano, sul punto, le numerose pronunce di questa Corte, secondo cui «In tema di esecuzione di pene concorrenti inflitte con condanne diverse, qualora, durante l’espiazione di una determinata pena, o dopo che l’esecuzione di quest’ultima sia stata interrotta, il condannato commetta un nuovo reato, non può effettuarsi il cumulo di tutte le pene, ma occorre procedere a cumuli parziali, ossia, da un lato, al cumulo delle pene inflitte per i reati commessi sino alla data del reato cui si riferisce la pena parzialmente espiata, con applicazione del criterio moderatore dell’art. 78 cod. pen. e detrazione dal risultato del presofferto, e, dall’altro, ad un nuovo cumulo, comprensivo della pena residua e delle pene inflitte per i reati successivamente commessi, sino alla data della successiva detenzione» (Sez. 1, n. 46602 del 01/03/2019; vedi anche Sez. 1, n. 17503 del 13/02/2020; Sez. 5, n. 50135 del 27/11/2015).Prof. Dr. Giovanni MoscagiuroStudio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativoemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.comEsperto e Docente in Diritto Penale ,Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Gang Stalking, Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente in Criminologia e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, ausiliario del Giudice, CTU e CTP, Editori e Giornalisti European news Agency
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31 mag. 2021 • tempo di lettura 8 minuti
Uno dei principali baluardi dell’ordinamento italiano è la separazione tra i tre poteri fondamentali: potere legislativo, potere esecutivo e potere giurisdizionale. Al fine di garantire tale separazione, la Costituzione italiana prevede una serie di garanzie che riservano al parlamentare un trattamento speciale nello svolgimento della propria attività legislativa. Si vuole evitare in questo modo una inopportuna ingerenza in relazione all’attività parlamentare, e alla funzione legislativa stessa. Alla luce di tali garanzie, ci si chiede, quindi, se è configurabile il reato di corruzione in capo al soggetto che svolge tale attività parlamentare.Le garanzie costituzionali per il parlamentareIl reato di corruzione e i suoi presuppostiL’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareConclusioni 1 - Le garanzie costituzionali per il parlamentareL’attività parlamentare è espressione di uno dei principali poteri previsti dall’ordinamento, quale il potere legislativo. Proprio per l’importanza che lo stesso riveste, è sempre stata particolarmente sentita l’esigenza di riservare una forte indipendenza e autonomia dagli altri poteri dello Stato, in particolare dal potere esecutivo e dal potere giurisdizionale. È per questo motivo che nella nostra Carta costituzionale ritroviamo molteplici disposizioni che mirano a riconoscere un trattamento speciale al parlamentare, in modo da garantirgli una sfera di immunità grazie alla quale possa perseguire l’interesse dello Stato senza dover dipendere o dare giustificazioni ad altri soggetti. Tra le disposizioni costituzionali più rilevanti in tal senso vi è l’art. 68 Cost., e in particolare il comma 1, che prevede una immunità sostanziale per il parlamentare: i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Non si può, quindi, in alcun modo immaginare una condanna per il parlamentare sulla base dei voti o delle opinioni che ha espresso nel corso della propria attività.Ulteriore disposizione rilevante è quella dell’art. 67 Cost., che vieta il cd. mandato operativo, stabilendo che ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Ciò sta a significare che il parlamentare non risponde e non persegue le sole esigenze dei singoli, ma si impegna invece per la totalità dei cittadini, senza poter accogliere incarichi direttivi specifici.Infine, un’altra disposizione che entra in gioco è quella dell’art. 66 Cost., che prevede l’autodichia delle singole Camere, alla luce della quale ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità – viene così esclusa la giurisdizione sia del giudice ordinario, sia di quello amministrativo, riservando alla Camera stessa la funzione giurisdizionale sui propri membri.Appare evidente che la Costituzione mira ad evitare una qualsiasi ingerenza nell’attività parlamentare, e a garantire al parlamentare stesso una sfera di autonomia e indipendenza, all’interno della quale lo stesso possa operare liberamente. 2 - Il reato di corruzione e i suoi presuppostiOggi le norme sulla corruzione sono contemplate dagli artt. 318 e 319 c.p., la prima è la corruzione per l’esercizio della funzione (cd. corruzione impropria), il secondo è la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (cd. corruzione propria). Si tratta di un reato plurisoggettivo proprio, cioè un reato che necessariamente vede la partecipazione di più soggetti, i quali vengono entrambi puniti.In particolare l’art. 318 c.p. punisce, da un lato, il pubblico ufficiale che vende la propria funzione e, dall’altro lato, il privato che in cambio gli dà o gli promette denaro o altra utilità. Oggi tale fattispecie viene comunemente denominata come “mercimonio delle funzioni”.Invece, il 319 c.p. punisce quel pubblico ufficiale che promette di adottare un atto contrario ai doveri del suo ufficio, in cambio di denaro o altra utilità da parte del privato, che verrà altrettanto punito.È pacificamente considerato come reato a doppio schema, o reato a consumazione prolungata, in quanto il reato in sé si perfeziona già con il solo accordo tra il pubblico ufficiale e il privato, ma poi si consuma in un secondo momento, e cioè quando vi è l’ultima dazione di denaro o altra utilità da parte del privato.Presupposto fondamentale è che uno dei due soggetti sia un pubblico ufficiale. Ci si chiede, quindi, se il parlamentare possa essere considerato come pubblico ufficiale, poiché se non può essere considerato tale, in nessun modo si potrà ritenere integrato il reato di corruzione. La nozione viene fornita dall’art. 357 c.p., secondo cui sono pubblici ufficiali tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. Appare quindi ormai pacifico che anche il parlamentare possa essere considerato quale pubblico ufficiale: dal momento che l’art. 357 c.p. fa espresso riferimento alla attività legislativa, si ritiene che senza dubbio possa rientrare nella definizione anche il parlamentare. Peraltro, si ritiene che debba essere considerato tale anche quando svolge funzioni diverse (come attività di indirizzo e controllo), non potendo sostenere che sia pubblico ufficiale solo in relazione a certi atti specifici, e non ad altri. Infine, si pone l’accento sull’art. 322 bis n.1, che estende le norme sulla corruzione anche al parlamentare europeo, considerandolo quindi pubblico ufficiale. Sarebbe irrazionale considerare pubblico ufficiale il parlamentare europeo, e non invece quello nazionale.3 - L’evoluzione giurisprudenziale sulla configurabilità del reato di corruzione in capo al parlamentareIl problema si pone quando il parlamentare si accorda con un privato: l’accordo prevede che da un lato il privato promette al parlamentare denaro o altra utilità, e dall’altro lato il parlamentare promette al privato di porre in essere un determinato atto del suo ufficio (es. votare in un certo modo).Nonostante la possibilità di considerare il parlamentare quale pubblico ufficiale, nel corso della evoluzione giurisprudenziale non è stata affatto scontata la configurabilità del reato di corruzione in capo allo stesso.Secondo una prima tesi, infatti, non è possibile applicare le norme sulla corruzione in relazione all’attività parlamentare: se si consentisse al giudice penale di valutare la liceità degli accordi, si permetterebbe allo stesso di sindacare sia l’attività stessa, sia il voto del singolo parlamentare. In questo modo verrebbe del tutto violato l’art. 68 Cost., che prevede la sfera di immunità per i voti dati; non verrebbe in alcun modo garantita l’autonomia e la indipendenza che la Carta costituzionale considera indispensabile per l’esercizio dell’attività parlamentare stessa. Peraltro, è stato evidenziato che la funzione svolta dal parlamentare sia per antonomasia una attività di compromesso, alla luce della quale inevitabilmente si arriva a degli accordi per poter operare. Ciò rende particolarmente difficile individuare una linea di confine tra quel che è lecito e ciò che non lo è, attribuendo al giudice penale un eccessivo potere di giudizio, del tutto arbitrario.Una differente tesi, invece, che appare oggi prevalente in giurisprudenza, ritiene che a date condizioni si possono applicare le norme sulla corruzione anche all’attività del parlamentare.Infatti, è vero che la Costituzione prevede una serie di garanzie a tutela dell’attività legislativa e a tutela del parlamentare, ma tali garanzie non sono affatto previste al fine di permettere al singolo di vendere la propria funzione: tali garanzie non possono in alcun modo legittimare un asservimento della carica o della funzione a fini privati. Una lettura di tal genere, infatti, finirebbe per tradire la ragion d’essere delle stesse garanzie, che devono operare solo se riguardano uno svolgimento lecito dell’attività parlamentare. L’art. 68 Cost., infatti, non prevede una immunità totale e assoluta, che possa consentire un eccessivo privilegio al parlamentare, ma si pone solo a tutela della attività legislativa legittimamente svolta. Peraltro, sarebbe irrazionale applicare le norme sulla corruzione al parlamentare europeo, come previsto dall’art. 322 bis n. 1 c.p., e non anche al parlamentare nazionale.Ulteriore argomento invocato dalla recente giurisprudenza è anche quello secondo cui la stessa Corte costituzionale, nel corso di una questione attinente ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ha evidenziato che se un fatto coinvolge anche dei beni che non fanno parte della vita parlamentare e che non è adeguatamente disciplinato dai regolamenti parlamentari con proporzionate sanzioni o adeguati rimedi, allora ben si può ricorrere all’ordinamento generale. La Corte costituzionale, in particolare, ha fornito una serie di esempi, e tra gli altri ha fatto riferimento proprio al reato di corruzione.4 - ConclusioniSi ritiene, quindi, che alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale il parlamentare possa essere imputato e successivamente condannato per il reato di corruzione. Si evidenzia che secondo la tesi maggioritaria è possibile configurare solo il reato di corruzione cd. impropria, previsto dall’art. 318 c.p. Attualmente, infatti, tale disposizione punisce il generale asservimento della funzione, senza far riferimento ad uno specifico atto – al contrario di quanto avviene per l’art. 319 c.p. (corruzione propria). Nel caso dell’art. 318 c.p. non si pone alcun problema in merito al sindacato del giudice penale sull’atto posto in essere dal parlamentare, e quindi non vi è il rischio di violare l’art. 68 Cost., proprio perché il reato di corruzione impropria non fa alcun riferimento all’atto specifico.Esiste, tuttavia, anche una diversa tesi ancor più estrema, secondo cui è possibile configurare in capo al parlamentare anche il reato di corruzione propria, art. 319 c.p. Invero, se il parlamentare vende il proprio voto, è evidente che questa condotta non potrà mai giustificare l’applicazione della immunità costituzionale, che altrimenti diverrebbe un privilegio. Secondo tale tesi, infatti, le garanzie previste dalla Costituzione mai potrebbero arrivare a giustificare una condotta tale, e si rischierebbe altrimenti di tradire la ratio delle garanzie stesse, volte a consentire una corretta attività legislativa.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
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Egregio Avvocato
24 giu. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
In diritto penale, l’art. 97 c.p. afferma che non è imputabile il soggetto che, al momento in cui commette il fatto, non ha compiuto gli anni quattordici. L’art. 98 c.p., invece, dispone che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, solo se aveva la capacità di intendere e di volere.Vediamo meglio queste ipotesi.Cenni sull’imputabilità in materia penaleInfraquattordicenni: presunzione assoluta di incapacitàUltraquattordicenni: accertamento in concreto da parte del giudice Procedimento specializzato davanti al Tribunale per i minorenni: cenni1 - Cenni sull’imputabilità in materia penalePer poter essere chiamato a rispondere delle proprie azioni, qualunque soggetto deve essere imputabile: deve, cioè, essere capace di intendere e di volere. Perchè possa essere punito, è necessario che l’autore di un reato abbia una certa attitudine ad autodeterminarsi, nel senso di esprimere una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione: un rimprovero in tanto ha senso in quanto il destinatario abbia la maturità mentale per distinguere il lecito dall’illecito e, di conseguenza, per conformarsi alle aspettative dell’ordinamento giuridico. Se manca la capacità di intendere e di volere, cioè l’imputabilità, viene meno il requisito della colpevolezza e, con essa, la possibilità di muovere un rimprovero all’autore del reo. In materia penale, l’imputabilità è disciplinata dagli artt. 85 ss. c.p. ed è definita come la “capacità di intendere e di volere” al momento del fatto; chi non ha questa capacità, non è imputabile. Il concetto di capacità di intendere e di volere va inteso come comprensivo necessariamente di entrambe le attitudini, per cui l’imputabilità viene meno se manca anche una sola capacità. Possiamo dare le seguenti definizioni:capacità di intendere: capacità del soggetto di comprendere il significato delle proprie azioni e di valutarne le possibili ripercussioni positive o negative sui terzi;capacità di volere: capacità del soggetto di intendere il significato dei propri atti, intesa come controllo degli impulsi ad agire e di determinazione secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base a una concezione di valore.La legge prevede, agli artt. 88 ss. c.p., alcune cause di esclusione dell’imputabilità, che però non sono tassative: si tratta della minore età del soggetto, della presenza di infermità mentale o di altre condizioni (sordomutismo, cronica intossicazione da alcol o da stupefacenti) che sono capaci di incidere sull’autodeterminazione responsabile dell’agente.Per quanto qui rileva, l’età del soggetto agente influisce sull’imputabilità in questo modo:età inferiore ai quattordici anni: secondo l’art. 97 c.p., il minore infraquattordicenne non è mai imputabile ed è destinatario di una presunzione di incapacità di natura assoluta, nel senso che non è ammessa la prova contraria;età compresa fra i quattordici e i diciotto anni: secondo l’art. 98 c.p., spetta al giudice accertare, in concreto e volta per volta, se il minore ultraquattordicenne sia imputabile, sulla base del suo grado di maturità;età superiore ai diciotto anni: a contrario, la legge presume l’imputabilità dell’ultradiciottenne ma con una presunzione solo relativa, perché è ammessa la prova del vizio totale o parziale di mente o delle altre di legge che escludono o diminuiscono grandemente la capacità di intendere e di volere. È bene ricordare, per sfatare un “mito”, che quando l’autore del reato è un minore non imputabile non saranno mai chiamati a processo i suoi genitori: nel nostro ordinamento vige, infatti, il principio di personalità della responsabilità penale, per cui solo all’autore del reato può essere applicata la sanzione penale.2 - Infraquattordicenni: presunzione assoluta di incapacitàAi sensi dell’art. 97 c.p., “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.Come anticipato, si tratta di una presunzione assoluta, che non ammette la prova contraria, e che si fonda su un criterio di normalità: a causa della giovane età, lo sviluppo psico-fisico dell’infraquattordicenne non può considerarsi completo, al punto che egli non è in grado di comprendere il disvalore della propria condotta o di formare autonomamente e in maniera consapevole la propria volontà.Tuttavia, ai sensi dell’art. 224 c.p., qualora il giovane autore di un delitto sia riconosciuto socialmente pericoloso, il giudice può applicare le misure di sicurezza della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario. Inoltre, il giudice deve sempre disporre il ricovero nel riformatorio giudiziario quando sia commesso un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni. 3 - Ultraquattordicenni: accertamento in concreto da parte del giudiceAi sensi dell’art. 98 c.p., “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita”.Come abbiamo accennato, quando l’autore del reato ha già quattordici anni ma non ancora diciotto non esiste alcuna presunzione legale di capacità né di incapacità: è il giudice a dover accertare in concreto la capacità di intendere e di volere del minore.Secondo l’orientamento ormai consolidato, l’incapacità minorile non presuppone necessariamente un’infermità mentale ma si fonda su un giudizio di immaturità: questa valutazione importa un giudizio che sia comprensivo del carente sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed affettive nonché dell’incapacità di intendere il significato etico-sociale del comportamento e dell’inadeguato sviluppo di una coscienza morale. La valutazione sulla maturità/immaturità del minore deve essere effettuata dal giudice in relazione alla natura del reato commesso: nella prassi, ad esempio, ai fini dell’imputabilità del minore si ritiene sufficiente un minimo sviluppo mentale ed etico quando sia commesso un delitto contro la persona (es. omicidio, lesioni) perché si tratta di reati dal disvalore facilmente percepibile.Qualora il minore sia riconosciuto in concreto non imputabile perché immaturo ma socialmente pericoloso, si applica l’art. 224 c.p. sopra esaminato. Se, invece, il minore sia riconosciuto imputabile e responsabile per il reato contestato, il giudice applica le stesse pene previste per gli adulti ma deve diminuire la pena in misura non eccedente un terzo e, ai sensi dell’art. 225, c.p. può ordinare, dopo l’esecuzione della pena, l’applicazione della libertà vigilata o del riformatorio giudiziario.4 - Procedimento specializzato davanti al Tribunale per i minorenni: cenniQuando l’imputato è un minore, il processo penale si svolge secondo un rito peculiare, che diverge dal rito “ordinario” a carico di maggiorenni e che valorizza le particolari esigenze, soprattutto rieducative, dei minori. Questo rito specializzato è disciplinato dal c.d. “codice del processo penale minorile”, di cui al d.p.r. 448/1988.Vediamo, sinteticamente, quali sono i principi ispiratori del sistema:Tribunale specializzato: il minore viene giudicato dal Tribunale per i minorenni, un organo collegiale composto da due magistrati togati e da due giudici onorari, un uomo e una donna, scelti tra i cultori della biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, psicologia; finalità rieducativa: la finalità rieducativa è prevalente rispetto alla pretesa punitiva. Per tale ragione è stata, ad esempio, dichiarata incostituzionale l’applicazione della pena dell’ergastolo all’autore del reato minorenne;minima offensività del processo: poiché il minore, in ragione dell’età, ha una personalità più esposta alle influenza esterne rispetto ad un adulto, è necessario ridurre il più possibile le conseguenze negative derivanti dal processo, in modo che il coinvolgimento nella vicenda processuale non sia irrimediabilmente dannoso. Vengono, pertanto, privilegiati strumenti che permettono al giudice di evitare la prosecuzione del processo, quando non sia necessaria: a titolo esemplificativo, il giudice può emettere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto;tutela della personalità e della riservatezza del minore: sono dettate norme apposite che cercano di ridurre al minimo la svalutazione dell’immagine del minore agli occhi della comunità. In questo senso, è disposto, ad esempio, il divieto di pubblicare o divulgare notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minore coinvolto nel processo;assistenza affettiva e psicologica: durante tutte le fasi del processo, sono assicurati al minore l’assistenza affettiva e psicologica tramite la presenza dei genitori o di altra persona idonea (indicata dal minore) nonché il sostegno morale dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi di assistenza degli enti locali.Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
22 apr. 2021 • tempo di lettura 7 minuti
Quando un reato non violento contro il patrimonio è commesso ai danni di un congiunto, il legislatore esclude la punibilità e quindi l’irrogazione della sanzione penale ritenendo prevalente, sull’istanza di punizione dello Stato, il sentimento familiare.L’art. 649 co. 1 c.p. prevede la non punibilità di alcuni reati contro il patrimonio quando siano commessi in danno del coniuge non legalmente separato, della parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso, di un ascendente o discendente, di un affine in linea retta, dell’adottante o dell’adottato o, infine, di un fratello o di una sorella che siano conviventi con l’autore del fatto.Art. 649 c.p.: profili generaliLa causa di non punibilità di cui all’art. 649 co. 1 c.p.La procedibilità a querela prevista dall’art. 649 co. 2 c.p.Disciplina 1 - Art. 649 c.p.: profili generaliL’ordinamento penale conosce delle ipotesi di c.d. “reati senza pena”: si tratta di situazioni in cui il legislatore – a fronte di un fatto integrante reato perché tipico, antigiuridico e colpevole – compie un bilanciamento di valori in forza del quale la tutela penalistica del bene giuridico protetto soccombe in favore di valori di estrema rilevanza nell’ordinamento. Si tratta delle c.d. “cause di esclusione della punibilità in senso stretto” o “esimenti”, che rientrano, insieme alle cause di giustificazione e alle scusanti, nella più ampia categoria delle “cause di esclusione della pena” di cui all’art. 59 c.p.Fra le cause di esclusione della punibilità in senso stretto o esimenti rientra l’art. 649 c.p., rubricato “Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti”. La norma prevede due diverse previsioni di favore nei confronti dell’autore di alcuni delitti contro il patrimonio, a seconda dell’intensità del rapporto familiare: la forma più intensa (co. 1) prevede la non punibilità, mentre quella meno intensa (co. 2) introduce il regime di procedibilità a querela della persona offesa. L’art. 649 c.p. opera, in particolare, quando è commesso un delitto contro il patrimonio non caratterizzato da violenza: a titolo esemplificativo si pensi al furto, al danneggiamento, alla truffa, all’appropriazione indebita. Il fondamento di questa norma risiede in un bilanciamento di interessi che viene compiuto a monte dal legislatore: sull’istanza di punizione dello Stato prevale il sentimento familiare, poiché l’irrogazione della pena andrebbe a pregiudicare l’interesse della famiglia, ritenuto prevalente rispetto all’interesse patrimoniale della persona offesa. Questa ratio di tutela dei rapporti familiari si giustifica fin tanto che venga cagionata un’offesa alla sola sfera patrimoniale della persona offesa. Di conseguenza, tornano ad operare sia la punibilità sia la procedibilità d’ufficio in presenza di fatti che hanno un contenuto offensivo che va oltre la sfera patrimoniale: l’art. 649 co. 3 c.p., infatti, prevede espressamente la non applicabilità delle disposizioni dei commi 1 e 2 quando siano commessi i reati di rapina (art. 628 c.p.), estorsione (art. 629 c.p.) e di sequestro a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) nonché tutti gli altri delitti contro il patrimonio commessi con violenza alle persone. L’interesse dell’ordinamento alla stabilità del nucleo familiare retrocede, infatti, di fronte alla lesione di interessi personali, ritenuti preminenti.2 - La causa di non punibilità di cui all’art. 649 co. 1 c.p.La forma più intensa di favor prevista dal legislatore a tutela della famiglia è prevista dall’art. 649 co. 1 c.p., secondo il quale non è punibile chi ha commesso il delitto contro il patrimonio in danno:1) del coniuge non legalmente separato;1-bis) della parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso;2) di un ascendente (genitori, nonni, bisnonni) o di un discendente (figli, nipoti) o di un affine in linea retta (suoceri), dell’adottante o dell’adottato;3) di un fratello o sorella conviventi.L’autore del delitto contro il patrimonio commesso senza violenza contro i soggetti appena indicati sarà assolto, ai sensi dell’art. 530 co. 1 c.p.p., con la formula “perchè il reato è stato commesso da una persona non punibile”. Ciò significa che il giudice riconosce che l’imputato ha commesso un fatto penalmente illecito, ma lo dichiara esente da pena: si tratta, in ogni caso, di una formula sfavorevole, perché afferma che un reato è stato commesso. Rimane ferma, come vedremo a breve, la possibilità per la persona offesa di ottenere il risarcimento del danno.3 - La procedibilità a querela prevista dall’art. 649 co. 2 c.p.La seconda forma di favor, meno intensa, è prevista dall’art. 649 co. 2 c.p., che prevede la procedibilità a querela quando i delitti contro il patrimonio a sfondo non violento siano commessi in danno:1) del coniuge legalmente separato;2) della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, nel caso in cui sia stata manifestata la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile e non sia intervenuto lo scioglimento della stessa;3) del fratello o sorella che non convivano con l’autore del fatto;4) dello zio o nipote o affine in secondo grado conviventi con l’autore del fatto.In questo caso, considerata l’assente o, almeno, meno intensa confusione di sostanze e di beni fra i soggetti coinvolti, il legislatore lascia alla persona offesa la facoltà di scegliere se innescare il processo penale, introducendo un’ipotesi di procedibilità a querela: ciò significa che il processo penale prenderà avvio solo se la persona offesa presenterà querela nel termine di 3 mesi dalla conoscenza del fatto. In questo caso, qualora venga riconosciuta la responsabilità penale del congiunto-autore del fatto, la punibilità non sarà esclusa ma fonderà l’eventuale sentenza di condanna e la conseguente irrogazione della pena, detentiva e/o pecuniaria nonché il risarcimento del danno.4 - DisciplinaCome si è anticipato, l’istituto disciplinato dall’art. 649 co. 1 c.p. rientra nella categoria dalle cause di esclusione della punibilità in senso stretto o esimenti. Il fondamento di questo istituto, che risiede nella tutela del sentimento familiare, ha delle precise conseguenze in punto di disciplina della causa di non punibilità.In primo luogo, l’esimente fa venire meno esclusivamente la possibilità di irrogare la sanzione in relazione a un fatto, che è comunque accertato come reato in tutti i suoi elementi costitutivi: rimane, quindi, impregiudicata la possibilità per la persona offesa di agire in giudizio nei confronti dell’autore del reato per ottenere il risarcimento del danno. Inoltre, l’art. 649 c.p., è una norma eccezionale, per il fatto stesso di escludere la pena in presenza di un fatto tipico antigiuridico e colpevole. Di conseguenza, non può essere applicata in via analogica: ciò significa che trova applicazione solo nei casi espressamente previsti e alle condizioni previste dalla legge. Questa caratteristica è stata utilizzata, ad esempio, per negare l’applicabilità dell’art. 649 c.p. ai conviventi more uxorio (da ultimo, Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 37873/2019): in assenza di una esplicita previsione di legge, la convivenza di fatto non è idonea a fondare l’esclusione della punibilità né la procedibilità a querela.In terzo luogo, le cause di non punibilità in senso stretto rilevano oggettivamente, ai sensi dell’art. 59 co. 1 c.p., nel senso che operano anche se non conosciute dall’autore del fatto. Come si è detto, il fondamento delle esimenti è l’opportunità di non irrogare la sanzione in presenza di determinate situazioni di fatto: ciò che rileva è il fatto che sussista quella circostanza, cioè che il bene sia del familiare, anche se l’autore del fatto lo ignora. L’ignoranza, in questo caso, non fa venire meno la valutazione di inopportunità della pena, perché, a prescindere dalla conoscenza dell’autore del fatto, l’interesse familiare viene comunque leso.Viceversa, la punibilità torna ad operare se l’autore del fatto ritiene per errore che il bene sia di un congiunto. Generalmente, ai sensi dell’art. 59 c.p., è assegnata rilevanza al “putativo”, cioè le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’autore del fatto, che le ritenga, erroneamente, esistenti. Tuttavia, poiché alla base delle cause di non punibilità in senso stretto vi è una valutazione di inopportunità della pena legata alla oggettiva esistenza di una determinata situazione, è evidente che non si può applicare l’art. 59 laddove dà rilevanza all’errore: la circostanza deve esistere oggettivamente, perché se il bene non è del familiare non vi è l’esigenza di tutela dell’interesse familiare che è alla base del favor di cui all’art. 649 c.p. Infine, dal momento che la causa di non punibilità dipende da un rapporto personale tra l’autore del fatto e la vittima, non si estende ai concorrenti nel reato. Ciò significa che se il congiunto commette il reato insieme ad altre persone che non hanno nulla a che fare con il suo nucleo familiare, l’esimente opera solo a favore del congiunto: ad es. se gli autori del furto sono il fratello e un amico della persona offesa, solo il fratello potrà andare esente da pena, perché con riferimento all’amico non sussiste l’esigenza di salvaguardare l’interesse familiare.Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
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