Quando si può evitare il carcere: la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena

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Pubblicato il 12 lug. 2021 · tempo di lettura 6 minuti

Quando si può evitare il carcere: la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena | Egregio Avvocato
L’ordinamento italiano consente, a condizioni ben precise, che il condannato in via definitiva ad una pena detentiva sconti la propria pena fuori dal carcere: egli può, infatti, chiedere, finché si trova in stato di libertà, al Tribunale di Sorveglianza di essere ammesso alle misure alternative alla detenzione.
Vediamo come funziona.



  1. L’ordine di esecuzione della pena e la sua sospensione
  2. Casi in cui è ammessa la sospensione dell’ordine di esecuzione
  3. Casi in cui non è ammessa la sospensione dell’ordine di esecuzione
  4. Cenni sulle misure alternative alla detenzione


1 - L’ordine di esecuzione della pena e la sua sospensione


Secondo l’art. 27 co. 2 Cost., “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Ciò significa che, salvi i casi eccezionali di carcerazione preventiva, le porte del carcere si aprono solo dopo che sia stata pronunciata una sentenza definitiva di condanna a pena detentiva. La sentenza diventa “definitiva” o “passa in giudicato” quando non sono più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione e la stessa, pertanto, non può più essere messa in discussione.

La sentenza definitiva di condanna deve, però, essere materialmente eseguita: a tal scopo, l’art. 656 co. 1 c.p.p. dispone che “Quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione”. 

Dunque è il pubblico ministero che si occupa di dare esecuzione alla sentenza di condanna, disponendo la carcerazione con un atto che si chiama “ordine di esecuzione”. L'ordine di esecuzione contiene le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito (e quant'altro valga a identificarla), l'imputazione, il dispositivo del provvedimento e le disposizioni necessarie all'esecuzione. Deve essere consegnato al condannato e notificato anche al suo difensore. 

Vi sono dei casi, indicati dall’art. 656 co. 5 c.p.p., in cui il p.m. può disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, notificando al condannato e al suo difensore sia l’ordine di esecuzione sia il decreto di sospensione dell’ordine. Con questa notifica, il p.m. avvisa che entro trenta giorni il condannato può presentare un’istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione, in particolare l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 l. ord. pen.), la detenzione domiciliare (art. 47-ter l. ord. pen.), la semilibertà (art. 50 co. 1 l. ord. pen.).

Ove non sia presentata l'istanza, la stessa sia inammissibile o non sia accolta nel merito dal Tribunale di Sorveglianza, l'esecuzione della pena avrà corso immediato.

La sospensione dell’ordine di esecuzione della carcerazione svolge una funzione fondamentalmente rieducativa, quando la condanna abbia ad oggetto una pena detentiva breve. 

Proprio perché si tratta di una pena breve, l’ordinamento vuole evitare che il condannato venga in contatto con l’ambiente carcerario e si alieni, in conseguenza di ciò, dalla società: a tal fine gli viene data la possibilità, ove sussistano i presupposti, di accedere ad una misura alternativa alla detenzione già dallo stato di libertà, di fatto non venendo mai a contatto con il carcere. 


2 - Casi in cui è ammessa la sospensione dell’ordine di esecuzione


Ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p., il pubblico ministero può sospendere l’ordine di esecuzione quando la pena detentiva non è superiore a:

  • quattro anni;
  • sei anni, quando l’affidamento in prova al servizio “speciale” sia chiesto da condannati tossicodipendenti. 

In questi casi, il condannato (o il suo difensore) deve presentare un’istanza al p.m. con cui chiede di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione, accompagnandola con la documentazione necessaria. Tale documentazione è diversa per ogni misura e comprende, in ogni caso, l’entità della condanna ma anche determinate condizioni soggettive (come età, stato di salute, stato di gravidanza, tossicodipendenza, presenza di figli con età massima di dieci anni).

Il p.m. trasmette l’istanza al tribunale di sorveglianza competente, che deciderà non prima del trentesimo e non oltre il quarantacinquesimo giorno dalla ricezione della richiesta.

La sospensione dell'esecuzione non può essere concessa più di una volta per la medesima condanna.


3 - Casi in cui non è ammessa la sospensione dell’ordine di esecuzione


L’art. 656 co. 9 c.p.p. prevede una serie di casi in cui, anche se la condanna è “breve”, non è ammessa la sospensione dell’ordine dell’esecuzione: in questi casi, pertanto, il condannato dovrà necessariamente scontare parte della pena in carcere e potrà, solo in un secondo momento, accedere alle misure alternative. 

Si tratta dei seguenti casi:


  1. il condannato abbia sia stato ritenuto responsabile di determinati delitti;
  2. il condannato, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trova in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva.

Per quanto riguarda i casi sub lett. a), si tratta di reati che il legislatore ritiene particolarmente gravi e riprovevoli, al punto da necessitare, almeno in parte, la pena inframuraria:

  • art. 4-bis l. ord. pen.: contiene una lista di reati, c.d. “ostativi”, fra cui rientrano, a titolo esemplificativo, delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; alcuni reati sessuali, fra cui la violenza sessuale, la violenza sessuale di gruppo, la pornografia minorile; alcuni delitti contro la p.a., fra cui il peculato, la concussione, la corruzione;
  • art. 423-bis c.p.: incendio boschivo;
  • art. 572 co. 2 co. 2 c.p.: delitto di maltrattamenti in famiglia aggravato;
  • art. 612-bis co. 3 c.p.: delitto di atti persecutori (i.e., stalking) aggravato;
  • art. 624-bis c.p.: delitto di furto in abitazione (ma non anche di furto con strappo, a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte della Consulta nel 2016).

Per quanto riguarda, invece, la lett. b), il legislatore esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione perché il condannato si trova già in stato di carcerazione preventiva: nei confronti di questi soggetti viene meno la finalità sottesa all’istituto perché sono già entrati a contatto, seppur a titolo di custodia preventiva, con l’ambiente carcerario. 


4 - Cenni sulle misure alternative alla detenzione


Come abbiamo visto, le misure alternative cui il detenuto può accedere direttamente dalla libertà sono l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà:

  • affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 l. ord. pen.): nell’ipotesi ordinaria, può essere concesso quando la pena detentiva, anche residua, non è superiore a tre anni. 

È la misura alternativa che consente i maggiori spazi di libertà: il condannato viene sottoposto ad un periodo di prova per un tempo corrispondente alla durata della condanna, il cui esito positivo estinguerà la pena e ogni effetto penale. C’è la possibilità di uno spostamento più ampio ma solo se se motivata e con l'autorizzazione del magistrato di sorveglianza e la supervisione dell'Ufficio per l'esecuzione penale esterna.

Il detenuto tossicodipendente può accedere a questa misura alternativa anche in caso di condanna non superiore a sei anni di reclusione, purché intraprenda un programma terapeutico;

  • detenzione domiciliare (art. 47-ter l. ord. pen.): consiste nell’espiazione della pena presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando il condannato sia un soggetto che, al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa, abbia determinate qualità, fra cui l’aver compiuto i settanta anni; essere in stato di gravidanza o madre di prole di età inferiore ad anni dieci convivente; essere in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; avere più di sessanta anni, se con un’inabilità anche parziale; avere meno di anni ventuno e comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia;
  • semilibertà (art. 50 ord. pen.): consiste nella concessione al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, per poi ritornarvi per la restante parte del giorno o della notte. Può essere concessa solo in caso di condanna non superiore ai sei mesi di reclusione ed è, fra le tre, la misura che limita maggiormente la libertà del condannato.


Editor: dott.ssa Elena Pullano

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20 mag. 2021 tempo di lettura 6 minuti

La legge delega n. 67/2014 ha inserito nel nostro ordinamento una nuova causa estintiva del reato, denominata sospensione del procedimento con messa alla prova: in presenza di determinati requisiti, l’imputato chiede la sospensione del processo penale in corso e si sottopone volontariamente ad un periodo di “messa alla prova” che, ove abbia esito positivo, comporta l’estinzione del reato. Nozione e finalitàAmbito applicativoDisciplina processualeEsito della messa alla prova1 - Nozione e finalitàLa sospensione del procedimento con messa alla prova (m.a.p.), disciplinata dagli artt. 168-bis ss. c.p., è un istituto che attribuisce al soggetto che sia imputato di determinati reati la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad un periodo di “prova”, con contestuale sospensione del procedimento. Detta “prova” comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta, inoltre, l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare, fra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale o l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.Infine, la concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, per un periodo non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi e per al massimo otto ore al giorno: si tratta di una prestazione non retribuita in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, compatibilmente con le esigenze lavorative, familiari, di studio o di salute dell’imputato.Qualora disposta, la sospensione del procedimento provoca un duplice effetto: durante il periodo di sospensione, il corso della prescrizione è sospeso e, nel caso di esito positivo della prova, il reato si estingue, ai sensi dell’art. 168-ter c.p.Giova ricordare che l’introduzione di questo istituto nell’ordinamento italiano è il frutto congiunto dell’esigenza di perseguire il reinserimento sociale “anticipato” degli imputati dei reati di minore gravità e di deflazionare il carico giudiziario. 2 - Ambito applicativoL’imputato, ai sensi dell’art. 168-bis co. 1 c.p., può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in tre casi:1) per reati puniti con la sola pena pecuniaria;2) per reati puniti con pena detentiva fino a quattro anni nel massimo, sola o congiunta o alternativa alla pena pecuniaria: quella che rileva è la pena in astratto, a nulla rilevando che in concreto siano presenti circostanze aggravanti comuni, speciali o ad effetto speciale (Cass. Sez. Un., 31 marzo 2016, Sorcinelli);3) per i reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio nel rito monocratico ex art. 550 co. 2 c.p.p.: fra questi si ricordano, a mero titolo esemplificativo, i delitti di lesioni personali stradali, di furto aggravato, di ricettazione.Non è mai concedibile ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai sensi dell’art. 168-bis co. 5 c.p. e, in ogni caso, la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.3 - Disciplina processualeSecondo quanto previsto dall’art. 464-bis co. 2 c.p.p., la richiesta di sospensione del procedimento può essere presentata al giudice, a pena di inammissibilità, dall’imputato o dal suo procuratore speciale, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni in udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. La richiesta può essere formulata, inoltre, nel corso delle indagini preliminari ma è necessario, ai sensi dell’art. 464-ter c.p.p., il consenso del pubblico ministero, espresso per iscritto e sinteticamente motivato.Ai sensi dell’art. 464-bis co. 4 c.p.p., alla richiesta di sospensione presentata dall’imputato deve essere allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna (u.e.p.e.); tuttavia, qualora la previa elaborazione del programma non sia possibile, è sufficiente allegare la semplice richiesta di elaborazione di detto programma.L’u.e.p.e., ricevuta la richiesta di presa in carico da parte dell’imputato, svolge un’indagine socio-familiare, all’esito della quale redige un programma di trattamento che tenga conto delle possibilità economiche, delle capacità e delle possibilità di compiere attività riparatorie del richiedente nonché della possibilità di svolgimento di attività di mediazione.Sulla richiesta decide il giudice competente, sentite le parti e la persona offesa, che esprimono un parere non vincolante.Il giudice dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova quando, in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dalla commissione di ulteriori reati. In caso di rigetto in udienza preliminare, la richiesta può essere riproposta nel giudizio prima della dichiarazione di apertura del dibattimentoQuando ammette la messa alla prova, il giudice deve indicare il termine entro il quale devono essere adempiuti gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie nonché l’ulteriore termine, autonomo ed indipendente, di durata della prova nel suo complesso. Quanto alla durata della sospensione, l’464-quater co. 5 c.p.p. fissa dei termini massimi, nel rispetto dei quali il giudice individua il periodo di sospensione ritenuto opportuno nel singolo caso concreto: si tratta del termine di due anni – se si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria – e di un anno – se si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.Tali termini decorrono dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova da parte dell’imputato.4 - Esito della messa alla provaLa prova può avere esito positivo o negativo. Per decidere in un senso o nell’altro, il giudice acquisisce la relazione conclusiva dell’u.e.p.e. che aveva preso in carico l’imputato e fissa l’udienza per la decisione, dandone avviso alle parti e alla persona offesa.Esito positivo. Decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, considerato il comportamento dell’imputato e il rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene, anche sulla base della relazione conclusiva dell’u.e.p.e., che la prova abbia avuto esito positivo. La sentenza che dichiara l’estinzione del reato non deve essere riportata nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall’interessato. A ben vedere, nonostante l’esito positivo della prova possono essere applicate le sanzioni amministrative accessorie previste dalla legge.Esito negativo. Il giudice può ritenere, tenuto conto della relazione conclusiva dell’ufficio di esecuzione penale esterna, del comportamento dell’imputato e del mancato rispetto delle prescrizioni stabilite, che la prova abbia avuto esito negativo. In questo caso, dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso. Qualora, tuttavia, all’esito del giudizio, si pervenga a sentenza di condanna, tuttavia, nel determinare la pena da eseguire in concreto, il pubblico ministero deve “defalcare” un periodo corrispondente a quello della prova positivamente esperita, conteggiando tre giorni di prova come equivalenti ad un giorno di reclusione o di arresto.Editor: dott.ssa Elena Pullano

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Egregio Avvocato

La diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art. 612-ter c.p.: il c.d. Revenge Porn.

25 gen. 2021 tempo di lettura 7 minuti

Il fenomeno delittuoso del Revenge Porn costituisce una preoccupante problematica sia giuridica che culturale: si pensi che al giorno si verificano due episodi di “vendetta-porno” e secondo uno degli ultimi dossier del Servizio analisi della Direzione centrale della Polizia Criminale a novembre 2020, a più di un anno dall’entrata in vigore dell’apposita disciplina, le indagini in corso erano ben 1083. Cosa si intende per Revenge Porn?Cosa prevede l’art. 612-ter c.p.?Le circostanze aggravanti e la procedibilitàLa questione del consensoA chi posso rivolgermi se scopro di essere vittima di Revenge Porn?1 - Cosa si intende per Revenge Porn?Il neologismo Revenge Porn, letteralmente “vendetta porno”, indica la divulgazione non consensuale dettata da finalità vendicative di immagini sessualmente esplicite raffiguranti l’ex partner. Così come è avvenuto nei paesi anglosassoni, anche nel linguaggio mediatico italiano l’espressione ha assunto un significato più ampio divenendo una sorta di catch all phrase indicante tutte le diverse forme di diffusione di tali contenuti, a prescindere dalla finalità. Si tratta di una condotta particolarmente pregiudizievole per chi la subisce, in quanto le immagini o i video più intimi della vittima diventano virali diffondendosi in maniera incontrollabile su internet, per rimanere alla mercé di milioni di persone, senza che vi sia un’effettiva possibilità di rimuoverle. Infatti, quando un contenuto finisce in rete è tecnicamente impossibile cancellarlo, potendo soltanto rendere più difficile agli occhi dei meno esperti trovarlo online tramite i classici motori di ricerca. La diffusione di immagini pornografiche non consensuale si colloca nella più ampia categoria dei c.d. hate crimes e denota una certa contiguità a livello criminologico con il cyberstalking, tanto che la Corte di Cassazione, nel 2010, (Cass. Pen., Sez. VI, Sent. numero 32404, 16.07.2010) ha sostenuto che la condotta consistente nella diffusione di immagini è astrattamente idonea ad integrare il delitto di stalking. Ed infatti, sino allo scorso anno, a causa del vuoto normativo presente nell’ordinamento, tale forma di violenza veniva inquadrata, seppur con difficoltà, all’interno della fattispecie prevista dall’art. 612-bis c.p.Il legislatore italiano, prestando attenzione alle nuove e frequenti forme di criminalità, ha sentito l’esigenza nel 2019 - seppur in ritardo rispetto ad altri legislatori europei - di rafforzare la tutela penale dei fenomeni di violenza domestica e di genere, approvando la legge 19 Luglio 2019 n. 69, più semplicemente nota come Codice Rosso. La ratio della legge, consistente nella modifica del codice penale e di procedura penale, è quella di tutelare in modo severo, ma soprattutto in tempi rapidi, le vittime (da qui l’espressione “codice rosso” nota nell’ambito dei trattamenti sanitari e indicante l’estrema urgenza con cui trattare un paziente arrivato in pronto soccorso in condizioni estremamente gravi). È proprio con il Codice Rosso che si è avuta l’introduzione della nuova fattispecie prevista dall’art. 612-ter c.p., rubricata “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”.2 - Cosa prevede l’art. 612-ter c.p.?La norma in questione punisce, precisamente con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati (ovvero senza il consenso delle persone rappresentate). Tale fattispecie presenta una disciplina complessa, articolata in due differenti ipotesi, accomunate dal medesimo trattamento sanzionatorio e disciplinate rispettivamente al comma 1 e al comma 2. Il discrimen fra le due ipotesi delittuose è costituito dalle modalità con cui il soggetto agente è entrato in possesso delle immagini, poi dallo stesso divulgate: al primo comma è prescritto il comportamento di chi ha contribuito alla realizzazione o ha comunque sottratto alla vittima il materiale sessualmente esplicito (il c.d. distributore originario); al secondo comma, invece, è descritta la condotta di chi ha ricevuto o acquisito il materiale in altro modo, ad esempio dalla vittima stessa o da persona vicina a quest’ultima, in occasione di un rapporto confidenziale o sentimentale. Con riferimento al secondo comma – id est il comportamento del c.d. distributore secondario – ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato - a differenza dell’ipotesi prevista dal primo comma, integrata con il solo dolo generico - è necessaria la sussistenza del dolo specifico, vale a dire la volontà di arrecare un danno alla persona rappresentata. La previsione del dolo specifico, tuttavia, ha fatto sorgere qualche dubbio in ragione della difficoltà probatoria di dimostrare la volontà di recare nocumento. Infatti, il disposto normativo del secondo comma, non sembrerebbe in linea con la volontà del legislatore di tutelare in maniera efficace la vittima, dal momento che la carenza dell’elemento soggettivo richiesto escluderebbe la punibilità della condotta.3 - Le circostanze aggravanti e la procedibilitàIl comma 3 dell’art. 612-ter c.p. prevede un aggravamento di pena nei casi in cui ad agire sia un soggetto c.d. qualificato, cioè il coniuge (anche separato o divorziato) o una persona che è, o è stata, legata da relazione affettiva alla persona offesa, ovvero, nel caso in cui i fatti siano commessi mediante l’utilizzo di strumenti informatici o telematici (c.d. aggravante social). Secondo il comma 4, invece, la pena è aumentata da un terzo alla metà se vittima della condotta è una persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o una donna in stato di gravidanza (stato che deve esistere al momento della diffusione dei contenuti e non al momento della loro realizzazione).Ai sensi del quinto comma, il delitto è punito a querela della persona offesa. Sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 612-bis c.p. , il termine per la proposizione della querela è di sei mesi e la remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede invece d'ufficio in due circostanze: nei casi di cui al quarto comma (le due aggravanti speciali in cui la vittima è “persona in condizione di inferiorità fisica o psichica” o “donna in stato di gravidanza”). La ratio è quella di prestare maggiore tutela alla persona offesa particolarmente debole;quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.4 - La questione del consensoI contenuti diffusi, oggetto della condotta punita ex art. 612-ter c.p., possono essere ottenuti senza il consenso della vittima o con il consenso della stessa, nell’ambito di un rapporto confidenziale, sentimentale o comunque privato. In questo secondo caso, in particolare, il Revenge Porn può costituire una delle potenziali conseguenze negative di una forma più ampia di comunicazione nota come Sexting.Il Sexting è un neologismo utilizzato per indicare l’invio di messaggi, immagini o video sessualmente espliciti attraverso mezzi informatici. La non consensualità costituisce il nodo cruciale del problema, in quanto, l’intervento penale si giustifica proprio in virtù dell’esposizione non autorizzata di un corpo in circostanze di massima intimità. Spesso, infatti, sorge l’equivoco per il quale concedersi a una ripresa o uno scatto intimo, per la fruizione limitata alla coppia, possa poi giustificarne la successiva pubblicazione o, quantomeno, accettarne in modo tacito l’eventualità, cadendo nel c.d. victim blaming, ovvero quando la vittima viene colpevolizzata per le azioni del reo.Lo sforzo profuso dal legislatore nel prevedere questa nuova fattispecie di reato è sicuramente apprezzabile, tuttavia, la strada da percorrere è ancora lunga. Per quanto qui di interesse, nei primi mesi del 2020 ha destato particolare attenzione la piattaforma di messaggistica istantanea Telegram. Sulla piattaforma, infatti, si celano numerosi gruppi all’interno dei quali viene scambiato materiale di pornografia non consensuale e pedopornografia. Le numerose segnalazioni, provenienti anche da personaggi del mondo dello spettacolo e della politica, hanno dato vita ad un enorme indagine, ma la situazione continua ad essere complessa. Infatti, quando Telegram provvede alla chiusura di un gruppo, perché usato per diffondere contenuti pornografici, ne nasce immediatamente uno nuovo, di riserva. Se a febbraio 2020 i gruppi dediti alla condivisione in Italia di materiale di pornografia non consensuale erano “appena” 17, con poco più di un milione di utenti, soltanto tre mesi dopo, a maggio, quei numeri erano addirittura quasi raddoppiati (29 gruppi). Alla fine del 2020 i gruppi erano circa 90, per un totale di 6 milioni di utenti attivi.5 - A chi posso rivolgermi se scopro di essere vittima di Revenge Porn?La prima cosa da fare è denunciare immediatamente il fatto alle autorità competenti al fine di intervenire prontamente, così da frenare la diffusione del contenuto in maniera tempestiva. A tal fine, è possibile segnalare l’accaduto direttamente al Garante della privacy, rivolgersi ai Carabinieri per sporgere querela, o, ancor meglio, alla Polizia Postale e delle Telecomunicazioni. Vi è inoltre la possibilità di rivolgersi ad associazioni senza scopo di lucro, come Permesso Negato (https://www.permessonegato.it/) o Odiare ti costa (https://www.odiareticosta.it/), nate proprio per supportare chi subisce violenze ed odio sul web. Il servizio è disponibile 24h su 24h e offre alla vittima il supporto di personale specializzato, in grado di indicare la migliore strada da intraprendere per denunciare l’accaduto.Editor: dott.ssa Silvia Biondi

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Wokefisher

27 set. 2023 tempo di lettura 4 minuti

Il termine "Wokefisher" è un neologismo che combina due parole: "woke" e "catfisher". Per comprenderlo meglio, è utile comprendere il significato di entrambi questi termini:Woke: "Woke" è un termine slang che deriva dall'inglese afroamericano e che è stato adottato in modo più ampio per descrivere una persona che è socialmente consapevole e attenta alle questioni di giustizia sociale, in particolare legate a questioni come il razzismo, il sessismo, l'omofobia e altre forme di discriminazione. Una persona "woke" è generalmente vista come qualcuno che è impegnato nell'attivismo e nella promozione dell'uguaglianza e della diversità.Catfisher: "Catfish" è un termine usato per descrivere una persona che crea un falso profilo online, spesso con foto e informazioni inventate, per ingannare o trarre in inganno gli altri. Questo termine deriva da un documentario e da una serie televisiva chiamati "Catfish" che esplorano le storie di persone che si sono fatte ingannare da individui che hanno creato identità fittizie online.Quando si parla di "Wokefisher", si fa riferimento a una persona che finge di essere "woke" o socialmente consapevole, ma lo fa in modo disonesto o ipocrita.In altre parole, un "Wokefisher" è qualcuno che adotta una posizione apparentemente progressista o attivista per attirare o manipolare gli altri, ma in realtà non è autentico o impegnato nelle questioni di giustizia sociale.Il termine "Wokefisher" è stato coniato per mettere in evidenza l'ipocrisia di coloro che cercano di apparire socialmente consapevoli o progressisti per guadagnare l'approvazione o l'attenzione degli altri, senza avere un vero impegno verso le questioni di giustizia sociale. Questo termine è spesso utilizzato per criticare le persone che sembrano abbracciare le idee progressiste solo superficialmente o per vantarsi delle loro convinzioni senza un reale coinvolgimento attivo in cause sociali.Il suo comportamento e' sicuramente moralmente discutibile e assolutamente manipolatorio.Di seguito solo alcune delle azioni che un "Wokefisher" potrebbe compiere:Fingere convinzioni sociali per attirare qualcuno: Un "Wokefisher" potrebbe mentire sulle sue convinzioni sociali o politiche per attirare qualcuno in una relazione o amicizia. Ad esempio, potrebbe sostenere di condividere le stesse opinioni politiche o di essere attivamente coinvolto in cause di giustizia sociale solo per guadagnare l'interesse o la simpatia degli altri.Strumentalizzare cause sociali: Un "Wokefisher" potrebbe strumentalizzare cause di giustizia sociale o lotte per i diritti come parte di una strategia per ottenere benefici personali, come guadagnare popolarità, ottenere vantaggi professionali o finanziari, o evitare la critica.Ipercritica o fingerpointing: Potrebbe essere incline a criticare o giudicare gli altri per non essere abbastanza "woke" o consapevoli, mentre lui stesso non vive secondo i valori che proclama. Questo comportamento può essere considerato ipocrita e divisivo.Diffondere disinformazione: Un "Wokefisher" potrebbe diffondere disinformazione o informazioni distorte su questioni di giustizia sociale per promuovere una narrativa che gli conviene, anche se queste informazioni non sono accurate.Tuttavia, il comportamento di un "Wokefisher" può avere conseguenze sociali, come la perdita di fiducia e il danneggiamento delle relazioni personali o professionali e puo' commettere reati o violazioni legali a seconda delle azioni specifiche che compie per fingere o manipolare gli altri.Ecco alcune possibili azioni che un "Wokefisher" potrebbe intraprendere e che potrebbero comportare conseguenze legali:Frode: Se il "Wokefisher" utilizza il suo finto impegno sociale o politico per ottenere denaro, benefici o vantaggi in modo fraudolento, potrebbe essere accusato di frode.Diffamazione: Se diffonde informazioni false o diffamatorie sulle persone o sulle organizzazioni nelle sue simulazioni o manipolazioni, potrebbe essere soggetto a denunce di diffamazione o calunnia, a seconda delle leggi locali.Violazione dei diritti d'autore: Se utilizza materiale protetto da copyright senza autorizzazione per promuovere una falsa immagine di attivismo, potrebbe essere accusato di violazione dei diritti d'autore.Violazione della privacy: Se il "Wokefisher" invade la privacy degli altri raccogliendo informazioni personali o diffondendo informazioni sensibili in modo non autorizzato, potrebbe violare le leggi sulla privacy.Incitamento all'odio: Se il comportamento del "Wokefisher" include la promozione dell'odio, della discriminazione o della violenza nei confronti di determinati gruppi o individui, potrebbe violare leggi antidiscriminazione o essere accusato di incitamento all'odio.È importante notare che le conseguenze legali dipenderanno dalle leggi specifiche del paese o dello stato in cui si verificano le azioni del "Wokefisher" e dalle circostanze specifiche di ciascun caso. In ogni caso, è responsabilità delle autorità legali determinare se un comportamento costituisce un reato e intraprendere le azioni legali appropriate.Prof. Dr. Giovanni MoscagiuroStudio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa  Editori e Giornalisti europei in ambito investigativo Diritto Penale , Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente di Diritto Penale e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, Editori e Giornalisti European news Agencyemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.com

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Differenza tra persona offesa dal reato e persona danneggiata dal reato

29 gen. 2022 tempo di lettura 1 minuti

La commissione di un reato può comportare una lesione a molteplici soggetti, anche diversi tra loro. In particolare, è fondamentale la differenza tra la persona offesa del reato e la persona danneggiata dallo stesso, poiché ne derivano poteri e diritti differenti. La persona offesa dal reato è il titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale incriminatrice che è stata violata (ad es. nel reato di furto, la persona offesa sarà il proprietario della cosa rubata). A questo soggetto vengono riconosciuti una serie di diritti e poteri: poteri di sollecitazione; diritto di ottenere una serie di informazioni riguardanti l’esercizio dell’azione penale; e in particolare, il potere di fare opposizione alla richiesta di archiviazione del PM.La persona danneggiata dal reato, invece, è colui che ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale derivante dall’illecito penale. A differenza della persona offesa, al danneggiato non sono riconosciuti né il diritto di sporgere querela né gli altri poteri sopra richiamati, in quanto allo stesso è riconosciuto il solo diritto di costituirsi parte civile nel processo penale, e quindi di esercitare l’azione per il risarcimento del danno (che in via ordinaria si fa valere innanzi al giudice civile) all’interno dello stesso giudizio penale.È opportuno evidenziare che molto spesso le due figure finiscono per coincidere nello stesso soggetto, il quale - essendo titolare del bene giuridico protetto dalla norma ed avendo contemporaneamente subìto un danno -, decide di esercitare l’azione civile nel processo penale mediante la costituzione di parte civile (sulla quale si rimanda a: La costituzione di parte civile | Egregio Avvocato).

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Egregio Avvocato

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