30 mag. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La riforma del Condominio del 2012 ha avuto il merito di inserire i posti auto tra le parti comuni del condominio. Difatti, il nuovo articolo 1117, numero 2, del codice civile include espressamente le aree destinate a parcheggio tra le parti comuni del condominio, recependo l’orientamento giurisprudenziale che, in mancanza di un espresso riferimento ai parcheggi, era concorde nell’estendere anche a tali aree la presunzione di condominialità di cui al già citato articolo 1117. I parcheggi condominiali: evoluzione normativaÈ possibile destinare un’area comune a parcheggio?Cosa consigliare in caso di parcheggi non sufficienti per tutti i condomini?1 - I parcheggi condominiali: evoluzione normativaNel corso degli anni la materia dei parcheggi condominiali è stata interessata da numerosi interventi normativi.In primo luogo, va citata la cosiddetta Legge ponte – Legge 765/1967 – la quale ha integrato la Legge Urbanista numero 1150/1942 prevedendo, all’articolo 41 sexies che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione. In altri termini, come ha inteso specificare anche la Corte di cassazione, questa norma ha posto un vincolo pubblicistico di destinazione nelle aree riservate ai parcheggi condominiali, inderogabile da parte di atti dei privati.La successiva Legge numero 47/1985 ha precisato ulteriormente che gli spazi già menzionati dalla precedente Legge 765 costituissero pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli effetti degli articoli 817, 818 e 819 del Codice civile. È intervenuta, quattro anni più tardi, la Legge Tognoli – Legge 122/1989 – con la quale si è elevato il rapporto tra le aree di pertinenza delle costruzioni e la volumetria del fabbricato a un metro quadro per ogni dieci metri cubi di costruzione, rispetto ai venti previsti nel 1967. Inoltre, la Legge Tognoli, all’articolo 9, ha ulteriormente previsto che: 1) i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti; 2) l’esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta a denuncia di inizio attività; 3) le deliberazioni che hanno per oggetto le opere e gli interventi di cui al comma 1 sono approvate salvo che si tratti di proprietà non condominiale dalla assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con la maggioranza prevista dall’articolo 1136, comma 2, codice civile. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, comma 2 e 1121, comma 3, codice civile; 4) i parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli.La Legge n. 246/2005 ha, poi, ulteriormente integrato la Legge ponte aggiungendo un secondo comma all’articolo 41 sexies, prevedendo che gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse. Viene così meno il vincolo di pertinenzialità automatico per gli spazi riservati a parcheggio dalla cosiddetta Legge ponte.L’ultimo provvedimento in materia è il cosiddetto Decreto del Fare, convertito dalla Legge n. 35/2012, con cui si stabilisce che la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 dell’articolo 41 sexies già citato può essere trasferita anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, solo con contestaule destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso Comune.2- È possibile destinare un’area comune a parcheggio?La risposta è certamente affermativa. È comunque opportuno fare un breve focus sul punto.La trasformazione di un’area comune a parcheggio condominiale importa la scelta di soluzioni che rendano compatibili i concetti di innovazione, di cui all’articolo 1120 del codice civile, e di pari uso e/o di godimento paritario, di cui all’articolo 1102 dello stesso codice civile.La giurisprudenza ha costantemente ritenuto che la delibera assembleare di destinazione di aree condominiali scoperte a parcheggio debba essere approvata a maggioranza, aggiungendo che non è necessaria l’unanimità o il quorum come richiesto dall’articolo 1120 del codice civile prima della riforma del 2012. In altri termini, è stato ritenuta legittima la delibera condominiale presa con la maggioranza di cui all’articolo 1136, comma 2 del codice civile, di disporre la destinazione a parcheggio del cortile condominiale.Il nuovo articolo 1120 del codice civile, per come modificato dalla legge di riforma del condominio, ha sostanzialmente recepito l’impostazione giurisprudenziale e, sebbene definisce innovazioni le opere necessarie per realizzare i parcheggi condominiali, prevede la possibilità di deliberare questi interventi con i quorum deliberativi ordinari. Si prevede, infatti, che i condomini, con la maggioranza indicata dal secondo comma dell’articolo 1136, possono disporre le innovazioni che, nel rispetto della normativa di settore, hanno ad oggetto opere per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell’edificio.3 - Cosa consigliare in caso di parcheggi non sufficienti per tutti i condomini? La Corte di cassazione ha stabilito che l’assemblea del condominio può stabilire di razionalizzare lo sfruttamento dell’area destinata a parcheggio mediante apposizione di strisce delimitative per ciascun posto auto, eventualmente numerato, assegnandoli al dominio esclusivo di ogni condomino o usufruitore (sul punto si veda Cass. civ., sent. 5997/2008).In questi casi l’assegnazione dei posti auto deve seguire criteri predefiniti, quali la facilità di accesso, e laddove non si dovesse trovare un accordo sulle modalità di assegnazione, sarebbe preferibile procedere a sorteggio.Tuttavia, non sempre l’area destinata a parcheggio è in grado di garantire la copertura integrale degli stalli rispetto al numero degli utenti – condomini richiedenti. Quale criterio, quindi, è consigliabile attuare?Certamente sbagliato sarebbe disporne l’attribuzione in base al valore millesimale di ciascuna unità immobiliare. Anzi, a dire il vero, la giurisprudenza ha costantemente considerato queste deliberazioni illegittime atteso che la quota di proprietà di cui all’articolo 1118 del codice civile, quale misura del diritto di ogni condomino, rileva relativamente ai pesi ed ai vantaggi della comunione, ma non in ordine al godimento che si presume uguale per tutti (Cass. civ., sent. 26226/2006). Nel disaccordo tra i condomini, ai fini dell’utilizzazione dell’area comune, l’unico principio applicabile al caso di specie è quello del “pari uso”, sancito dall’articolo 1102 del codice civile, a norma del quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca ad altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. In altri termini, in queste ipotesi, la soluzione certamente migliore è quella della turnazione all’uso del parcheggio.
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19 mag. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
Il patrimonio del debitore costituisce la garanzia di cui il creditore dispone. Una garanzia certamente generica in quanto l’asservimento del singolo bene al soddisfacimento coattivo del creditore si realizza solamente con il pignoramento, ma anche solo potenziale poiché sin quando il creditore non si munisce di un titolo esecutivo non può aggredire il patrimonio del debitore.L’ordinamento, tuttavia, tutela, sin dal momento in cui il credito sorge, l’interesse del creditore alla conservazione dell’integrità del patrimonio del debitore attraverso i c.d. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, vale a dire: azione surrogatoria, azione revocatoria e sequestro conservativo.Caratteri generali dei mezzi di conservazione della garanzia patrimonialeL’azione surrogatoriaL’azione revocatoriaIl sequestro conservativo1 - Caratteri generali dei mezzi di conservazione della garanzia patrimonialeAi sensi e per gli effetti di cui all’articolo 2740 del codice civile il debitore garantisce l’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Ne consegue, quindi, che nell’ipotesi in cui il debitore sia inadempiente, il creditore è legittimato ad agire, in via esecutiva, sul patrimonio dello stesso.Intraprendere un’azione esecutiva sui beni del debitore inadempiente, tuttavia, non è sempre conveniente. Difatti, il creditore potrebbe scoprire che il patrimonio del debitore non è sufficiente a soddisfare il proprio creditore, oppure il debitore potrebbe sottrare i propri beni dall’esecuzione forzata. In queste ipotesi, il creditore può avvalersi degli strumenti previsti dal legislatore a norma degli articoli 2900 e seguenti del codice civile. Si tratta dei c.d. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: azione surrogatoria, azione revocatoria e sequestro conservativo. Questi rimedi hanno carattere preventivo e cautelare poiché possono essere esperiti prima che l’inadempimento si consumi e mirano a conservare la garanzia patrimoniale del debitore, evitando così che questi possa disfarsene e arrecare, di conseguenza, un pregiudizio all’interesse del creditore.2 - L’azione surrogatoriaPrimo mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale è l’azione surrogatoria. L’articolo 2900 del codice civile attribuisce al creditore la legittimazione a sostituirsi al debitore nell’esercizio di un diritto o di un’azione che questi, pur essendone titolare, ometta di far valere nei confronti di un soggetto terzo. L’inerzia del debitore, infatti, incide in maniera negativa sul proprio patrimonio sia perché ne impedisce un possibile incremento sia perché ne può causare un decremento, con la conseguenza che vi è un pregiudizio della garanzia patrimoniale del creditore.Sebbene questo rimedio sia noto come azione surrogatoria, sarebbe preferibile affermare che al creditore sia attribuita una legittimazione surrogatoria all’esercizio dei diritti del proprio debitore. Difatti, innanzitutto, tale surrogazione può risolversi anche in una mera attività stragiudiziale. Inoltre, quando il creditore agisce in giudizio in luogo del proprio debitore, non esercita effettivamente un’azione individuata tipicamente dal legislatore, ma promuove l’azione che competerebbe, nel caso di specie, al debitore stesso.Il rimedio dell’azione surrogatoria è esperibile esclusivamente nel caso in cui sussistano tre presupposti: 1) il creditore deve vantare un credito nei confronti del debitore a cui si sostituisce, pur non essendo necessario che esso sia liquido ed esigibile; 2) l’inerzia del debitore; 3) il c.d. periculum damni, ossia il pericolo attuale di un pregiudizio futuro causato dall’inerzia del debitore.Per quanto riguarda i diritti che il creditore può esercitare in luogo del debitore, l’articolo 2900 del codice civile fa riferimento ai diritti e alle azioni che spettano al debitore verso terzi, vale a dire le posizioni di vantaggio che si radicano all’interno di un rapporto giuridico, mentre il creditore non può surrogarsi al proprio debitore nell’esercizio di diritti reali.3 - L’azione revocatoriaNel caso in cui il debitore abbia compito un atto dispositivo che rechi pregiudizio alle ragioni del creditore, quest’ultimo può promuovere l’azione revocatoria alfine di ottenere che l’atto in questione sia dichiarato inefficace nei suoi confronti. Tuttavia, l’atto revocato resta valido ed efficace erga omnes, in quanto la sua inefficacia riguarda esclusivamente il creditore che eccepisce l’azione revocatoria.L’azione revocatoria si prescrive in cinque anni dalla data dell’atto dispositivo. Quanto ai presupposti, in primis va detto che vi deve essere l’effettiva esistenza del credito, sebbene possa essere soggetto a termine o a condizione.In secondo luogo, l’azione può colpire solo gli atti di disposizione, cioè quelli con cui si trasferisce la proprietà di un bene, quelli con cui si costituisce un diritto reale di godimento o di garanzia su un bene e quelli con cui il debitore assume un’obbligazione verso un terzo.Inoltre, l’atto di disposizione può essere revocato solo nel caso in cui rechi pregiudizio alle ragioni del creditore. Questo presupposto ricorre quando l’atto comporta una diminuzione quantitativa del patrimonio del debitore oppure renda più difficoltoso il soddisfacimento delle ragioni creditorie.Infine, è necessario un presupposto di carattere soggettivo che si atteggia in maniera differente a seconda che l’atto dispositivo sia gratuito o a titolo oneroso. Nella prima ipotesi, è sufficiente che il debitore fosse consapevole del pregiudizio procurato dall’atto al proprio creditore, mentre nella seconda ipotesi il creditore dovrà provare che anche il terzo acquirente fosse a conoscenza dell’incidenza negativo dell’atto sul patrimonio del debitore.4 - Il sequestro conservativoTerzo e ultimo mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale previsto dal codice civile è il sequestro conservativo.Il sequestro conservativo di un bene – mobile o immobile che sia – è una misura cautelare che il creditore può chiedere quando, avendo promosso o essendo in procinto di promuovere una domanda diretta ad ottenere la condanna del debitore all’adempimento di un’obbligazione, nutra il fondato timore di perdere la garanzia patrimoniale del proprio credito offerta dal bene di cui si chiede il sequestro.L’accoglimento dell’istanza di sequestro conservativo comporta che gli atti posti in essere dal debitore risultino inopponibili al creditore sequestrante. Se all’esito del giudizio la pretesa creditoria si dovesse rivelare infondata, il sequestro perderà ogni effetto. Laddove, invece, il giudizio si dovesse chiudere con una condanna all’adempimento del debitore, il sequestro si convertirà nel pignoramento del bene in questione. Tuttavia, tale conversione non si verifica quando il creditore, nell’esercizio di un’azione revocatoria, chieda il sequestro conservativo del bene nei confronti del terzo acquirente al fine di evitare che questi alieni ulteriormente il bene. Difatti, in questa ipotesi il sequestro non è volto ad anticipare il vincolo di indisponibilità derivante dal pignoramento, bensì l’inopponibilità al creditore dell’atto compiuto dal debitore.
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12 mag. 2022 • tempo di lettura 6 minuti
Il riconoscimento è l’atto con il quale uno o entrambi i genitori dichiarano di essere padre o madre di un infante nato al di fuori del matrimonio. Difatti, non è necessario procedere al riconoscimento nel caso di coppie sposate poiché, in questo caso, si presume che il figlio sia nato dalla coppia di coniugi.Sebbene, di norma, il riconoscimento avviene dopo la nascita del bambino, è possibile effettuare il riconoscimento anche prima della nascita. Il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio: cos’è?Il riconoscimento prima della nascita: chi può farlo? Quale procedura occorre seguire?Cognome e nome del nascituro1 - Il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio: cos’è?Quando nasce un figlio tra due persone che non hanno contratto matrimonio, ciascuna di esse ha il diritto di riconoscerlo personalmente e spontaneamente. Difatti, l’articolo 250, primo comma, del codice civile stabilisce che il figlio nato fuori dal matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.Ma come avviene il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio?Sul punto interviene l’articolo 254 del codice civile, a norma del quale il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con una apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti a un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.Tuttavia, la volontà del singolo genitore di compiere l’atto di riconoscimento non sempre è condizione necessaria e sufficiente a produrre gli effetti del riconoscimento stesso. A riguardo è opportuno distinguere due casi: a) se il figlio ha compiuto quattordici anni al momento del riconoscimento è necessario che questi dia il suo consenso, b) se il figlio non ha ancora compiuto quattordici anni al momento del riconoscimento ma l’altro genitore l’ha già riconosciuto, è necessario il consenso di quest’ultimo.In questa ultima ipotesi occorre dire che il genitore che ha già effettuato il riconoscimento può rifiutare a dare il suo consenso al riconoscimento dell’altro genitore. Tuttavia, l’articolo 250, secondo comma, del codice civile afferma che il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non si palesemente infondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315 bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.2 - Il riconoscimento prima della nascita: chi può farlo? Quale procedura occorre seguire?La possibilità di riconoscere il figlio prima della nascita è rimessa ad entrambi i genitori o alla sola madre. In questo ultimo caso, come esaminato nel paragrafo precedente, il successivo riconoscimento del padre può avvenire esclusivamente con il consenso della madre o, se il figlio ha già compiuto 14 anni, con il consenso di quest’ultimo.Il riconoscimento antecedente al parto per coppie non sposate consiste in una dichiarazione solenne e irrevocabile resa dai futuri genitori avanti all’ufficiale dello stato civile o al notaio, in forza della quale è affermato che dall’unione naturale dei conviventi è stato concepito un figlio che madre e padre si impegnano, sin da quel momento, a riconoscere. Questo istituto, che trova la propria fonte normativa nel già citato articolo 254 del codice civile, ha quale principale scopo quello di garantire il sorgere del rapporto di filiazione, anche nell’ipotesi in cui la madre e/o il padre non possano presentarsi, per un qualsiasi motivo, a rendere la dichiarazione di riconoscimento. Sebbene sia stata introdotta la Legge 219/2012 che ha apportato modifiche in materia di riconoscimento e ha previsto l’eliminazione dall’ordinamento delle residue distinzioni tra status di figli legittimi e naturali, permangono ancora alcune differenze. In particolare, solamente per i figli nati in costanza di matrimonio, maternità e paternità si danno per presunte. Per contro, nel caso di coppie non coniuge, solamente la maternità è presunta, pertanto il padre non potrebbe procedere al riconoscimento del figlio senza la presenza della madre.Per superare questo problema, il legislatore ha previsto il riconoscimento anche prima del parto, di fondamentale importanza specialmente nell’ipotesi infausta di complicazioni durante il parto, al fine di permettere al padre di prendere le decisioni urgenti che si rendessero necessarie, ovvero in caso di prolungato impedimento della madre, per scongiurare il rischio che decorrano i dieci giorni per provvedere al riconoscimento del figlio in anagrafe. Come anticipato, è necessario rivolgersi a un notaio o a un ufficiale di stato civile di un qualsiasi Comune italiano, con documento di riconoscimento e certificato medico attestante lo stato di gravidanza.Il pubblico ufficiale che redige l’atto ne deve rilasciare copia autentica ai dichiaranti che dovranno presentarla al momento della dichiarazione di nascita.3 - Cognome e nome del nascituroAl momento della dichiarazione di riconoscimento del figlio prima della nascita non è possibile attribuirgli né nome né cognome. Essi, infatti, saranno attribuiti al momento della dichiarazione di nascita.Nel nostro ordinamento non esiste una norma che impone il cognome paterno. Difatti, si tratta di una consuetudine confermata dalla lettura di alcune disposizioni legislative. Secondo il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile (articolo 33 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000) il figlio legittimato ha il cognome del padre. L’articolo 262 del codice civile, invece, afferma che il figlio nato fuori del matrimonio assume il cognome del genitore che, per primo, lo ha riconosciuto. Laddove il riconoscimento sia effettuato, nello stesso instante, da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre.Con la sentenza numero 286/2016 la Corte costituzionale ha ritenuto che la preclusione, per la madre, di poter attribuire anche il proprio cognome al figlio pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi.Occorre precisare che l’intervento della Corte costituzionale riguarda esclusivamente le ipotesi in cui vi sia una concorde volontà dei genitori di attribuire il doppio cognome. Tale principio trova applicazione anche nel caso di filiazione fuori del matrimonio quando il riconoscimento avvenga congiuntamente da parte di entrambi i genitori. Solo pochi giorni fa, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul tema, stabilendo che sono illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre ai figli in quanto discriminatorie e lesive dell’identità del figlio. Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
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21 apr. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
L’ordinamento giuridico italiano riconosce un generale dovere di diligenza e prudenza in capo a chiunque detenga un animale e attribuisce a questo soggetto una posizione di garanzia nell’ipotesi di eventi dannosi.Quali sono, quindi, le conseguenze, penali e civili, a cui può incorrere il proprietario di un animale che dovesse arrecare un danno a terzi?L’omessa custodia degli animaliA chi è imposto l’obbligo di custodia?La responsabilità per danni cagionati dagli animaliUn caso particolare: il danno cagionato dalla fauna selvatica e dagli animali randagi1 - L’omessa custodia degli animaliIl codice penale prevede una forma di responsabilità per chiunque lasci libero o non custodisca, con la dovuta diligenza, un animale considerato pericoloso.Difatti, l’articolo 672 del Codice penale stabilisce che chiunque lascia liberi, o non custodisce con le debite cautele, animali pericolosi da lui posseduti, o ne affida la custodia a persona inesperta, è punito con la sanzione amministrativa da euro 25 a euro 258. Alla stessa pena soggiace: 1) chi, in luoghi aperti, abbandona a se stessi gli animali da tiro, da soma o da corsa, o li lascia comunque senza custodia, anche se non siano disciolti, o li attacca o conduce in modo da esporre a pericolo l’incolumità pubblica, ovvero li affida a persona inesperta; 2) chi aizza o spaventa animali, in modo da mettere in pericolo l’incolumità delle persone.Questa fattispecie è posta a tutela della pubblica sicurezza in una fase ancora prodromica alla creazione di una vera e propria situazione di pericolo per le persone.La norma citata prevede tre distinte fattispecie. Difatti, mentre al primo comma è punita la condotta di chi lasci liberi, non custodisca con cautela o affidi a persona inesperta, in qualsiasi luogo, un animale pericoloso, il secondo comma punisce la medesima condotta ma attuata in luoghi aperti. Invece, il terzo comma punisce l’aizzamento dell’animale, anche non pericoloso, in modo da mettere in pericolo l’incolumità delle persone. Quest’ultima fattispecie rappresenta un’ipotesi di reato di pericolo concreto, mentre le prime due sono reati di pericolo astratto o presunto in cui la legge qualifica di per sé pericolosa l’inadeguata custodia di animali pericolosi.2 - A chi è imposto l’obbligo di custodia?Come si è potuto evincere dall’analisi dell’articolo 672 del codice penale, l’obbligo di custodia sorge ogni qualvolta sussista una relazione anche semplicemente di detenzione tra l’animale e una persona. Ciò perché il citato articolo ricollega il dovere di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al suo possesso da intendere anche come pura e semplice detenzione, non essendo necessario un rapporto di proprietà in senso civilistico.Sul punto, anche la Corte di cassazione ha stabilito che l’obbligo di custodia sorge a prescindere dal rapporto di proprietà, essendo sufficiente la semplice detenzione. Difatti, prevede che tale posizione di garanzia prescinde dalla nozione di appartenenza e risulta irrilevante il dato formale relativo alla registrazione dell’anagrafe canina o all’apposizione di un microchip di identificazione (vedasi Cass. pen., n. 13464/2020). Per quel che riguarda, più nello specifico, i cani, è stato stabilito che il proprietario di un cane è sempre responsabile del benessere, del controllo e della conduzione dell’animale e risponde, civilmente e penalmente, dei danni e delle lesioni a persone, animali e cose provocati dall’animale stesso e che chiunque, a qualsiasi titolo, accetti di detenere un cane non di sua proprietà ne assume la responsabilità per il relativo periodo.3 - La responsabilità per danni cagionati dagli animaliEsaminato il profilo penalistico dell’omessa custodia degli animali, è opportuno analizzare anche gli aspetti civilistici di responsabilità che sono la conseguenza degli eventuali danni cagionati dall’animale non custodito con le dovute cautele.La responsabilità per i danni cagionati dagli animali è disciplinata dall’articolo 2052 del Codice civile il quale stabilisce che il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.Questa responsabilità ha natura oggettiva e si fonda sulla relazione di proprietà o di uso, anche temporaneo, che intercorre con l’animale, nonché sulla presunzione di colpa in vigilando o in custodendo.La responsabilità ricorre ogni volta in cui il danno sia stato prodotto, con diretto nesso causale, da fatto proprio dell’animale. Tale responsabilità è, per così dire, alternativa tra il proprietario e colui che se ne serve. Avere in uso l’animale significa esercitare, su di esso, un potere effettivo sia esso di governo, gestione, controllo e vigilanza, nonché di trarne utilità e profitto. In altri termini, chi si serve dell’animale è colui che, con il consenso del proprietario, ne fa uso per soddisfare un proprio autonomo interesse, in modo tale che il proprietario non ne abbia più controllo.Laddove, invece, il proprietario continui a far uso dell’animale, sia pure tramite un terzo, resta il responsabile degli eventuali danni. Ne consegue che, la responsabilità di cui all’articolo 2052 del Codice civile non può imputarsi a chi utilizzi l’animale per svolgere mansioni inerenti alla propria attività lavorativa.4 - Un caso particolare: il danno cagionato dalla fauna selvatica e dagli animali randagiFinora sono state esaminate le ipotesi in cui i danni cagionati da animali siano derivanti dall’omessa custodia di chi ne è il proprietario o il detentore. Ma cosa accade nel caso in cui tali danni siano cagionati da fauna selvatica o animali randagi?Il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile ex articolo 2052 del Codice civile, in quanto lo stato di libertà della selvaggina è incompatibile con qualsiasi obbligo di custodia che possa essere a carico della Pubblica Amministrazione. È, invece, risarcibile a norma dell’articolo 2043 del Codice civile, con la conseguenza che, in base all’onere probatorio stabilito da tale norma, spetterà al danneggiato provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito.Anche con riferimento agli animali randagi la responsabilità per i danni da loro causati è da ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’articolo 2043 del Codice civile e non anche ai sensi dell’articolo 2052. Non è possibile quindi riconoscere una responsabilità semplicemente sulla base dell’individuazione dell’ente cui le leggi affidano il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo. Occorre, quindi, che sia specificatamente allegato e provato dal danneggiato che la cattura e custodia dello specifico animale randagio che ha provocato il danno fosse effettivamente possibile ed esigibile e che tale omissione sia derivata da comportamento colposo dell’ente preposto.
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31 mar. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
L’articolo 2 del Decreto Legge n. 69/1988 prevede il c.d. assegno per il nucleo familiare, vale a dire una prestazione economica riconosciuta dall’INPS ai nuclei familiari di determinate categorie di lavoratori che rispettino prefissati requisiti reddituali. Che cos’è l’assegno per il nucleo familiare e a chi spetta?Determinazione, corresponsione e incompatibilitàCome e quando fare domanda?Assegno per il nucleo familiare e differenze con assegni familiari e assegno unico universale: le ultime novità1 - Che cos’è l’assegno per il nucleo familiare e a chi spetta?Come anticipato in premessa, l’assegno per il nucleo familiare è una prestazione a sostegno delle famiglie con redditi inferiori a determinati limiti che vengono stabiliti di anno in anno.L’importo dell’assegno per il nucleo familiare è stabilito in misure differente in relazione al numero di persone che compongono il nucleo familiare nonché in base al reddito complessivo familiare.Hanno diritto di fruire del detto assegno: i lavoratori dipendenti in attività, cassintegrati, socialmente utili, assenti per malattia o maternità, assenti per assistenza a familiari portatori di handicap, richiamati alle armi, in aspettativa per cariche pubbliche elettive e sindacali, dell’industria o marittimi in congedo matrimoniale, le persone assistite per tubercolosi, i pensionati ex dipendenti pubblici, i soci di cooperative, i lavoratori con tratto part-time, gli apprendisti, i lavoratori a domicilio, i lavoratori stranieri e i lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata INPS.2 - Determinazione, corresponsione e incompatibilitàLa determinazione del diritto all’assegno per il nucleo familiare consegue a tutta una serie di operazioni: a) individuazione del nucleo familiare, b) rilevazione del reddito familiare, c) accertamento dell’esistenza del requisito del 70% dei redditi da lavoro dipendente ed assimilati, d) accertamento dell’esistenza di eventuali condizioni previste per l’aumento dei livelli di reddito, e) individuazione della tabella da applicare in relazione anche all’esistenza delle predette condizioni, f) individuazione della fascia di reddito in cui si colloca il reddito familiare considerato, g) rilevazione della tabella prescelta dell’importo dell’assegno corrispondente al numero dei componenti il nucleo.Per quel che riguarda la corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare occorre distinguere a seconda di chi è il percettore.Per il lavoratore, la corresponsione dell’assegno è anticipata dal datore di lavoro in busta paga e, successivamente, rimborsata dall’INPS con il conguaglio dei contributi. Per alcune categorie di lavoratori, l’assegno è invece pagato direttamente dall’INPS, come ad esempio per i lavoratori agricoli dipendenti.Ai pensionati l’assegno per il nucleo familiare è rimesso direttamente dall’INPS insieme al versamento del rateo della pensione.A partire, infine, dal 1° gennaio 2005, l’assegno per il nucleo familiare è erogato anche al coniuge dell’avente diritto. Difatti, il coniuge non titolare di un autonomo diritto alla corresponsione dell’assegno, formula apposita domanda, nel modulo presentato dall’altro coniuge, al datore di lavoro o direttamente all’INPS a seconda di chi sia il soggetto erogatore.Il già citato Decreto Legge prevede anche ipotesi di incompatibilità. Infatti, è previsto che per lo stesso nucleo familiare non possa essere concesso più di un assegno. L’INPS ha inoltre precisato che è esclusa la possibilità di duplicare l’assegno per il nucleo familiare sia che spetti allo stesso soggetto, a diverso titolo, sia che ad esso abbiano titolo soggetti differenti. 3 - Come e quando fare domanda?Per la corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare, l’interessato deve presentare apposita domanda utilizzando i moduli che sono predisposti dall’INPS. A partire dall’aprile 2019, i lavorati dipendenti del settore privato devono presentare, in modalità esclusivamente telematica, la suddetta domanda direttamente all’INPS mediante uno dei seguenti canali: a) tramite il servizio online dedicato, accessibile dal sito www.inps.it, se in possesso di PIN dispositivo, di identità SPID almeno di livello 2 o Carta Nazionale dei Servizi; b) patronati e intermediari dell’INPS, anche se non in possesso di PIN; c) datore di lavoro, previa delega del lavoratore.La domanda va presentata ogni anno in cui se ne ha diritto avendo cura di comunicare eventuali variazioni reddituali o del nucleo familiare entro il termine di 30 giorni, laddove tali variazioni si verifichino durante il periodo di richiesta dell’assegno.4 - Assegno per il nucleo familiare e differenze con assegni familiari e assegno unico universale: le ultime novitàNon va confuso l’assegno per il nucleo familiare con gli assegni familiari. Questi ultimi, difatti, sono oggetto di una prestazione differente riservata dall’INPS ad alcune delle categorie di lavoratori che sono esclusi dalla disciplina sugli assegni per il nucleo familiare.Recentissima novità è quella derivante dall’introduzione del c.d. assegno unico universale.La Legge n. 46/2021 ha conferito la delega al Governo per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico mediante l’istituzione del citato assegno unico universale. Tale disciplina ha inciso anche sugli assegni per il nucleo familiare.Va, infatti, ricordato che il Decreto Legge n. 79 del 2021, che ha introdotto misure urgenti in materia di assegno temporaneo per figli minori, ha disposto una maggiorazione degli importi degli assegni per il nucleo familiare. Il successivo Decreto Legislativo n. 230 del 2021 ha istituito a tutti gli effetti, a partire dal 1° marzo 2022, l’assegno unico e universale per i figli a carico. Pertanto, cos’è cambiato?Per rispondere a questo interrogativo è sufficiente analizzare la circolare n. 34/2022 dell’INPS con cui si precisa che «non saranno più riconosciute le prestazioni di assegno per il nucleo familiare (e di assegni familiari), riferite ai nuclei familiari con figli e orfanili per i quali subentra la tutela dell’assegno unico. […] continueranno, invece, ad essere riconosciute le prestazione di assegno per il nucleo familiare (e di assegni familiari) riferite a nuclei familiari composto unicamente dai coniugi (con l’esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato), dai fratelli, dalle sorelle e dai nipoti, di età inferiore a diciotto anni compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti».
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3 mar. 2022 • tempo di lettura 8 minuti
Nell’ordinamento giuridico italiano con il termine “copyright” si ricomprende tutto l’insieme di diritti e facoltà che appartengono all’autore di un’opera, consentendogli di rivendicarne la paternità e utilizzarne economicamente la creazione attraverso la riproduzione, distribuzione e diffusione.In cosa consiste il copyright? Quali sono le conseguenze per la sua violazione?Cos’è e a cosa serve il copyright?Quali opere sono tutelate dal copyright?La procedura per l’ottenimento del copyrightQuali conseguenze per la violazione del copyright?1 - Cos’è e a cosa serve il copyright?Con il termine copyright si intende l’istituto giuridico posto a tutela di chi crea un’opera dell’ingegno di carattere creativo che può appartenere alla letteratura, alla musica, alla scienza, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia.Concretamente, nel nostro ordinamento giuridico il termine copyright indica l’insieme delle prerogative appartenenti all’autore che mirano a tutelare sia il diritto di rivendicare la paternità dell’opera (il c.d. diritto morale) sia il diritto di utilizzazione economica dell’opera (il c.d. diritto patrimoniale) attraverso la pubblicazione, l’utilizzo, la riproduzione, la distribuzione e la diffusione della creazione medesima.Nel concetto di copyright rientrano anche i c.d. diritti connessi, vale a dire i diritti spettanti a soggetti diversi dall’autore dell’opera, come ad esempio il produttore di opere cinematografiche.Nel nostro ordinamento la disciplina in materia di copyright è regolamentata, in gran parte, dalla Legge n. 166 del 1941 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, nonché nel collegato regolamento di attuazione disciplinato nel Regio Decreto n. 1369 del 1942 e in disposizioni del codice civile (in particolare gli articoli 2575 – 2583).Ovviamente, nel corso degli anni la Legge 633/1941 ha subìto importanti modifiche ed integrazioni apportante anche e soprattutto grazie all’intervento del legislatore europeo. In particolare, notevole importanza assumono: la Direttiva 1993/98/CEE sull’armonizzazione della durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi, cui è stata data attuazione con il Decreto Legislativo n. 154/1997; la Direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, cui è stata data attuazione con il Decreto Legislativo n. 68/2003; la Direttiva 2019/790/UE sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale, ancora in fase di recepimento, che modifica alcune precedenti direttive e mira a introdurre una disciplina del copyright adeguata alla rivoluzione digitale e alle nuove modalità di fruizione dei contenuti.Ma, concretamente, a cosa serve il copyright?Essenzialmente il copyright svolge una funzione di protezione, per gli autori, di contenuti creativi e originali sulle opere tutelate dalla legge. In particolare, la Legge 633/1941 accorda la protezione dei diritti di utilizzazione economica dell’opera e della personalità dell’autore. Più nel dettaglio, gli articoli dal 12 al 18 bis della suddetta legge riconoscono all’autore: il diritto esclusivo di pubblicare e di utilizzare l’opera in ogni forma e modo nei limiti fissati dalla legge, di riprodurre, trascrivere, eseguire, rappresentare o rappresentare in pubblico, comunicazione al pubblico, distribuzione, tradurre, elaborare e modificare, noleggiare e dare in prestito. A norma dell’articolo 20 della citata Legge l’autore può sempre esercitare il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e il diritto di proporre opposizione contro qualsiasi deformazione, mutilazione o modificazione o atto a danno dell’opera stessa.2 - Quali opere sono tutelate dal copyright?Si può rispondere a questa domanda sempre analizzando la Legge n. 633/1941. In particolare, ai sensi dell’articolo 1 sono tutelate dal diritto d’autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione. Di conseguenza, è necessario che l’opera sia in possesso di due requisiti fondamentali: l’originalità e la novità, soggettiva e oggettiva.L’articolo 2 della medesima legge contiene poi un’elencazione piuttosto dettagliata delle opere protette che comprende: opere letterarie, drammatiche, scientifiche, didattiche, religiose, opere e composizioni musicali, opere coreografiche, opere della scultura, pittura, disegno, opere dell’architettura, opere cinematografiche e fotografiche, banche dati e così via. Ovviamente questo elenco non è esaustivo né tassativo, in considerazione del fatto che il diritto d’autore trova applicazione nei confronti di tutte le forme di creatività assimilabili alle stesse.L’ambito di tutela si estende anche alle c.d. opere collettive, vale a dire a quelle costituite dalla riunione di opere, ma anche alle elaborazioni di carattere creativo dell’opera (c.d. derivative works) purché siano connotate da un significativo contributo creativo autonomo e indipendente da parte dell’autore. 3 - La procedura per l’ottenimento del copyrightSecondo quanto previsto dal nostro ordinamento giuridico – si vedano in particolare gli articoli 6 – 10 della Legge 633/1941 e l’articolo 2576 del codice civile – il titolo originario dell’acquisto del diritto di autore nasce con la creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale.Ne consegue che, a tutti gli effetti, il riconoscimento del diritto d’autore non richiede una particolare procedura in quanto esso si attiva automaticamente.Infatti è pacifico che l’autore acquisisce il complesso dei diritti sull’opera attraverso la semplice creazione della stessa. Tuttavia, è opportuno che l’autore adotti determinati accorgimenti formali, in particolare, per prevenire che altri possano mettere in dubbio la paternità dell’opera.Difatti, è riconosciuto come primo autore effettivo colui il quale sia in grado di dimostrare di essere in possesso di una copia dell’opera prima di altri soggetti. Si tratta della cosiddetta prova di anteriorità.È stato istituito, a norma dell’articolo 103 della Legge 633/1941, il registro pubblico generale delle opere tutelate dal diritto d’autore in cui è contenuta l’indicazione del nome dell’autore, del produttore, della data di pubblicazione.La registrazione fa fede, sino a prova contraria, dell’esistenza dell’opera e del fatto della sua pubblicazione, nonché del fatto che gli autori e i produttori indicati nel registro sono reputati autori o produttori delle opere loro attribuite.Al fine di poter richiedere la registrazione, l’autore deve consegnare un esemplare o una copia dell’opera presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. 4 - Quali conseguenze per la violazione del copyright?La Legge 633/1941 prevede alcune specifiche disposizioni che regolano le difese e le sanzioni esperibili in sede civile e penale a tutela dei soggetti che hanno subìto la violazione dei diritti loro spettanti riconosciuti dal diritto d’autore.In primo luogo, l’articolo 15 disciplina la c.d. tutela inibitoria azionabile da parte di colui che, alternativamente, ha ragione di temere la violazione di un proprio diritto di utilizzazione economica dell’opera ovvero intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta. In tal caso, il Giudice può disporre l’inibitoria, fissando anche una somma per ogni violazione o inosservanza successivamente contestata o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento.Il successivo articolo 158 prevede, invece, una tutela risarcitoria invocabile da chi sia stato danneggiato nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica. In questa ipotesi, è possibile agire in giudizio per chiedere la condanna dell’autore della violazione al risarcimento del danno ovvero la condanna alla distribuzione o alla rimozione della situazione di fatto da cui risulta la violazione, a spese del responsabile della violazione medesima.Oltre queste tutele civilistiche previste dalla Legge 633/1941, occorre menzionare anche le sanzioni penali e amministrative elencate nella medesima legge.Innanzitutto, l’articolo 171 punisce chi, senza averne diritto e a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, riproduce, trascrive, recita in pubblico, diffonde, vende, pone altrimenti in commercio un’opera altrui o ne rivela il contenuto prima che sia reso pubblico, ovvero introduce e mette in circolazione nello Stato esemplari prodotti all’estero contrariamente alla legge italiana; ed ancora mette a disposizione del pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessioni di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta. In tale caso, la sanzione penale prevista è la multa da € 51,00 a € 2.065,00. È, tuttavia, prevista la sanzione amministrativa pecuniaria sino ad € 1.032,00 laddove i fatti contestati siano stati commessi per colpa.L’articolo 171 bis punisce la condotta di colui che duplica abusivamente, per trarne profitto, programmi per elaboratore o ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla SIAE (Società Italiana Autori ed Editori).È altresì sanzionata la condotta illecita di chi, senza averne diritto e al fine di trarne profitto: a) riproduce, trasferisce su altro supporto, distribuisce, comunica, presenta o dimostra in pubblico il contenuto di una banca di dati su supporti non contrassegnati SIAE; b) esegue l’estrazione o il reimpiego della banca dati; c) distribuisce, vende o concede in locazione una banca di dati. Per entrambe le fattispecie è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni e della multa da € 2.582,00 a € 15.493.L’articolo 171 ter punisce colui che, per uso non personale e a fini di lucro: a) abusivamente duplica, riproduce, trasmette o diffonde in pubblico con qualsiasi procedimento, in tutto o in parte, un’opera dell’ingegno destinata al circuito televisivo, cinematografico, della vendita o del noleggio, dischi, nastri o supporti analoghi ovvero ogni altro supporto contenente fonogrammi o videogrammi di opere musicali, cinematografiche o audiovisive assimilate o sequenze di immagini in movimento; b) abusivamente riproduce, trasmette o diffonde in pubblico, con qualsiasi procedimento, opere o parti di opere letterarie, drammatiche, scientifiche o didattiche, musicali o drammatico – musicali, ovvero multimediali; c) fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, o detiene per scopi commerciali, attrezzature, prodotti o componenti o presta servizi che abbiano la prevalente finalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche o siano progettati, prodotti, adattati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione di dette misure.
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14 feb. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
Ai sensi dell’articolo 587 del codice civile il testamento può definirsi come l’atto con cui un soggetto dispone, per il tempo in cui non sarà più in vita, di tutte o parte delle proprie sostanze.Ma quante e quali sono le tipologie di testamento? Sono previsti casi in cui è possibile impugnare il testamento?Le diverse tipologie di testamento e i casi in cui è possibile impugnarloL’impugnazione per annullabilità del testamentoL’impugnazione per nullità del testamentoL’impugnazione del testamento per lesione di legittima1 - Le diverse tipologie di testamentoOltre a fornire la definizione di testamento quale atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, la legge disciplina tre diverse tipologie di testamento: il testamento olografo, il testamento pubblico e il testamento segreto.Il testamento olografo è, in buona sostanza, la tipologia “più semplice” di testamento. Difatti, è sufficiente che sia scritto per intero, datato e sottoscritto di proprio pugno dal testatore.Il testamento pubblico, al contrario, deve essere necessariamente redatto da un notaio alla presenza di due testimoni che non devono essere interessati all’atto.Tale tipologia di testamento deve essere redatto rispettando alcune formalità. In particolare: a) il testatore deve dichiarare oralmente al notaio, alla presenza dei due testimoni, le sue ultime volontà, in modo assolutamente spontaneo e libero; b) il notaio, seguendo le disposizioni dettategli dal testatore, provvede alla materiale redazione dell’atto, dandone lettura al termine e apponendo indicazione del luogo, della data e dell’ora in cui il testamento è stato redatto; c) il testatore, i testimoni e il notaio devono provvedere a sottoscrivere il testamento.Il testamento segreto, infine, è preparato dallo stesso testatore e consegnato a un notaio, il quale ha l’unico compito di custodirlo e redigere l’atto di ricevimento.Tutte e tre le citate tipologie di testamento possono essere affette da determinati vizi che consentono, a chi ne ha interesse, di proporre impugnazione. Per brevità di trattazione, è possibile affermare che le ragioni che giustificano l’impugnazione del testamento sono: a) l’incapacità del testatore, b) la violazione degli obblighi di forma del testamento, c) la violazione del contenuto del testamento, d) la redazione del testamento in presenza di un vizio della volontà del testatore, vale a dire in presenza di errore, violenza o dolo.Ognuna di queste motivazioni giustificatrici dell’impugnabilità del testamento conduce a una differente forma di invalidità. In particolare, il testamento può essere annullabile oppure nullo.2 - L’impugnazione per annullabilità del testamentoL’annullabilità del testamento segue la violazione delle norme che sono dettate in materia di difetto di capacità, vizi della volontà e ogni altro vizio meno grave di carattere formale. In primo luogo, è opportuno ricordare che non possono fare testamento i minori di età, gli interdetti per infermità mentale e coloro i quali, sebbene non interdetti, siano stati, anche in via transitoria, incapaci di intendere o di volere al momento della redazione del testamento.Laddove uno di questi soggetti abbia redatto un testamento, lo stesso può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse, proponendo azione di annullabilità che si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.Inoltre, il testamento può essere impugnato al fine di dichiararne l’annullabilità anche in presenza dei vizi del volere del testatore che, come anticipato, si hanno nell’ipotesi di errore, violenza o dolo. Anche in tal caso, l’impugnazione può essere proposta da chiunque ne abbia interesse nel termine di cinque anni dal giorno in cui si è avuta notizia del dolo, della violenza o dell’errore. In particolare, è annullabile il testamento redatto sulla base di convinzioni errate (errore), oppure redatto deitro la minaccia di un male ingiusto e notevole (violenza psicologica o morale) ed infine il testamento scritto dietro l’inganno di terzi (dolo).3 - L’impugnazione per nullità del testamentoLa nullità del testamento è una forma di invalidità certamente più grave dell’annullabilità. Difatti, la nullità può essere fatta valere impugnando il testamento in qualsiasi momento, a differenza della causa di annullabilità che viene sanata laddove non si proponga impugnazione entro cinque anni.Il codice civile prevede che il testamento sia nullo laddove manchi l’autografia o la sottoscrizione nell’ipotesi di testamento olografo. In caso di testamento pubblico, invece, lo stesso sarà nullo laddove manchi la redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore ovvero la sottoscrizione dell’uno o dell’altro.Svariate sono le cause di nullità previste dal codice civile del nostro ordinamento. È possibile, tuttavia, elencare le principali cause di nullità.Innanzitutto, è nullo il c.d. testamento congiuntivo semplice o reciproco. Il primo è il testamento redatto da due persone nel medesimo documento a favore di un soggetto terzo, mentre il secondo è quello in cui i testatori dispongono dei propri beni uno a favore dell’altro.Sono altresì nulle le disposizioni testamentarie rimesse all’arbitrio di un soggetto terzo, nonché quelle che siano illecite, impossibili o che perseguano motivi illeciti.Ovviamente nullo è il testamento redatto a seguito della violenza fisica esercitata sul testatore.Sono, infine, nulle le disposizioni a favore di una persona indeterminata.4 - L’impugnazione del testamento per lesione di legittimaOltre ai casi di impugnazione per annullabilità o nullità del testamento, vi è un’ulteriore possibilità di impugnare il testamento.Si tratta dell’impugnazione per lesione di legittima.Prescindendo dalla presenza di un testamento, la legge prevede che determinati soggetti hanno diritto all’eredità. Si tratta dei c.d. eredi legittimari che, per legge, sono il coniuge, i figli e, in assenza di questi ultimi, gli ascendenti.Orbene, a tali soggetti spetta necessariamente una quota dell’eredità, per l’appunto la quota di legittima.L’azione di impugnazione del testamento per lesione della quota di legittima consente di ridefinire l’asse ereditario.Difatti, l’azione di riduzione è quell’azione volta a tutelare le quote di legittima spettanti ai legittimari. In particolare, l’erede legittimario che ritenga di aver ricevuto meno di quanto gli spetterebbe per legge può impugnare il testamento.In particolare, per poter esercitare tale azione l’erede legittimario deve, innanzitutto, accettare il testamento con beneficio di inventario; dopodiché potrà impugnare il testamento entro il termine di dieci anni dalla data di accettazione, sebbene una parte minoritaria della giurisprudenza ritenga che i dieci anni decorrano dall’apertura della successione.
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10 feb. 2022 • tempo di lettura 4 minuti
La vendita con riserva di proprietà, disciplinata dagli articoli 1523 e seguenti del codice civile, è un tipo speciale di compravendita.In questa fattispecie, nota anche come patto di riservato dominio, rientrano tutte quelle circostanze in cui la disciplina della vendita si discosta da quella ordinaria per un elemento in particolare. Difatti, tramite questo istituto si consente a chi non è in grado di pagare il prezzo di un dato bene al momento della consegna di acquistarlo ugualmente e goderne, sin da subito, pagando ratealmente.1. Cos’è il patto di riservato dominio e come funziona?2. Il patto di riservato dominio è opponibile ai terzi?3. Cosa accade in caso di inadempimento del compratore?4. La vendita con riserva della proprietà di beni immobili1 - Cos’è il patto di riservato dominio e come funziona?La vendita con riserva di proprietà o patto di riservato dominio consiste essenzialmente nell’accordo in base a cui i contraenti, nel pieno esercizio della propria autonomia contrattuale ed in deroga alla regola generale, convengono che l’effetto del trasferimento della proprietà di un determinato bene sia differito sino al momento in cui non sia avvenuto, per intero, il pagamento del prezzo pattuito.L’articolo 1523 del codice civile prevede che nella vendita a rate con riserva della proprietà, il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata di prezzo, ma assume i rischi dal momento della consegna.Si può, pertanto, affermare che questa norma contemperi le contrapposte esigenza di venditore e acquirente.Difatti, l’acquirente, nell’ipotesi in cui intenda acquistare un bene pur non disponendo dell’intera somma, può frazionare la prestazione; viceversa, il venditore conserva la garanzia reale della proprietà del bene di cui si tratta, sino all’effettivo adempimento.2 - Il patto di riservato dominio è opponibile ai terzi?Per rispondere a questa domanda è necessario analizzare il primo comma dell’articolo 1524 del codice civile.Tale norma statuisce che la riserva della proprietà è opponibile ai creditori del compratore, solo se risulta da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento.In tema di opponibilità ai terzi assume rilevanza anche la distinzione tra l’opposizione nei confronti dei creditori del venditore e del compratore, nonché la natura dei beni alienati.In particolare, nel caso si tratti di beni immobili o beni mobili registrati, l’opposizione ai terzi si può avere esclusivamente dopo aver trascritto l’atto. Inoltre, non rileva la domanda di risoluzione del contratto da parte del venditore trascritta prima dell’opposizione. Se, invece, i beni sono mobili si può opporre la riserva ai creditori solo se questa è stata fatta per iscritto e riporti una data certa precedente al pignoramento o alla dichiarazione di fallimento del compratore.3 - Cosa accade in caso di inadempimento del compratore?Il codice civile, all’articolo 1525, prevede una forma di tutela nei confronti del soggetto acquirente che non paghi una rata del contratto di vendita con riserva della proprietà.Tale norma, infatti, stabilisce che il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto.Laddove però non sia pagata più di una rata o nel caso in cui la stessa superi l’ottava parte del prezzo, sarà il Giudice a dover fornire una valutazione circa la risoluzione della vendita in relazione all’entità dell’inadempimento.Il successivo articolo 1526 stabilisce che, nell’ipotesi in cui vi sia la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà per inadempimento del compratore, il venditore è tenuto alla restituzione delle rate già riscosse, salvo il diritto a ottenere un equo compenso per l’uso del bene e al risarcimento dei danni.4 - La vendita con riserva della proprietà di beni immobiliSebbene la legge disciplini il patto di riservato dominio nell’ambito della compravendita di beni mobili, negli ultimi anni si è sempre più diffusa l’opinione favorevole per un’applicazione generalizzata di questo istituto.Ne consegue che anche i beni immobili possono essere venduti con riserva di proprietà. Come già esplicato, con la vendita con riserva di proprietà l’acquirente assume immediatamente a proprio carico i rischi relativi all’immobile non acquistando la proprietà dello stesso sino al pagamento dell’ultima rata.La vendita con riserva di proprietà è trascritta nei registri immobiliari sia pure con la segnalazione della presenza di una condizione sospensiva data, per l’appunto, dal pagamento dell’ultima rata del prezzo pattuito.La dottrina maggioritaria ritiene che il trasferimento del rischio, di cui all’articolo 1523 del codice civile, comporti il trasferimento, in capo all’acquirente, di eseguire tutti gli interventi di manutenzione, ordinaria e straordinaria, nonché l’obbligo di pagare gli oneri condominiali.La stessa dottrina, tuttavia, ritiene che spetterà al venditore, in quanto proprietario sino all’adempimento del pagamento dell’ultima rata pattuita, la corresponsione dell’IMU. Ciò perché la legge prevede che il soggetto passivo IMU sia, per l’appunto, il proprietario di un bene immobile o colui il quale goda di un diritto reale sullo stesso.
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31 gen. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La tutela della madre lavoratrice è un principio fondamentale sancito dall’articolo 37 della nostra Costituzione.In particolare, l’ordinamento attua questo principio proteggendo la salute della lavoratrice e riconoscendo il diritto del bambino a un’adeguata assistenza.Per ottemperare all’evoluzione socio – culturale ma anche giurisprudenziale e legislativa, la disciplina della tutela della genitorialità correlata al diritto del lavoro è mutata nel corso del tempo affinché fosse garantito concretamente l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori – e non più esclusivamente della madre – nella cura e nell’assistenza dei figli.La tutela della genitorialità viene garantita attraverso svariate disposizioni. È possibile menzionare il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, il divieto di adibire la lavoratrice durante la gestazione e sino a sette mesi dopo il parto al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, il divieto al lavoro notturno sempre dall’accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, e così via.Uno degli aspetti che, invece, concerne anche la tutela della genitorialità del padre lavoratore è il c.d. congedo parentale. Come funziona il congedo parentale? A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Congedo parentale e indennitàCome occorre presentare la domanda?Congedo parentale ed emergenza Covid.1 - Come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.Ma come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi. Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.3 - Congedo parentale e indennitàDurante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione. 4 - Come occorre presentare la domanda?La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.
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20 gen. 2022 • tempo di lettura 3 minuti
L’articolo 1138 del codice civile disciplina il regolamento condominiale, pur non fornendo una definizione univoca dello stesso.Pertanto, cosa s’intende per regolamento condominiale? In quali casi è obbligatorio? Quali sono i tipi di regolamento condominiale?1. Cos’è il regolamento condominiale? In quali casi è obbligatorio?2. Approvazione e modifica del regolamento condominiale3. Le diverse tipologie di regolamento condominiale1 - Cos’è il regolamento condominiale? In quali casi è obbligatorio?Come accennato in premessa, il legislatore non ha inteso fornire una definizione univoca del regolamento condominiale. Tuttavia, è possibile affermare che il regolamento condominiale sia lo strumento mediante il quale si disciplina l’uso della cosa comune, la ripartizione delle spese ed ogni altro aspetto relativo alla gestione e all’amministrazione di un condominio.Quando è obbligatorio dotarsi di un regolamento condominiale?Per rispondere a questa domanda è necessario esaminare l’articolo 1138 del codice civile, il cui primo comma sancisce che quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.2 - Approvazione e modifica del regolamento condominialeAppurato che il regolamento condominiale è obbligatorio nell’ipotesi in cui un edificio sia formato da più di dieci condomini, va compreso come lo stesso venga approvato.Sempre l’articolo 1138 del codice civile stabilisce che l’iniziativa per la formazione del regolamento – o per la revisione di quello già adottato – può essere presa da ciascun condomino. Per essere approvato, ovviamente, occorre ottenere la maggioranza richiesta dalla legge. In questo caso, la norma di riferimento è l’articolo 1136 del codice civile, in base al quale sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.Come si esaminerà a breve, i regolamenti condominiali si distinguono in assembleare e contrattuale. La differenza assume rilevanza anche per quel che riguarda la modifica del regolamento. Difatti, nel caso di regolamento assembleare la legge dispone che ogni condomino possa assumere l’iniziativa per la modifica del regolamento e l’assemblea provvederà con le stesse maggioranze previste per l’approvazione.In caso di regolamento contrattuale, invece, va detto che la Corte di cassazione con sentenza n. 17694/2007 ha stabilito che il regolamento ha natura contrattuale ed è modificabile solamente all’unanimità dei condomini in due ipotesi: 1. quando le disposizioni del regolamento limitano i diritti dei condomini; 2. quando contiene clausole in forza delle quali alcuni condomini hanno maggiori diritti rispetto ad altri.3 - Le diverse tipologie di regolamento condominiale Con riferimento alla natura, il regolamento condominiale è distinguibile in: regolamento ordinario o assembleare, regolamento contrattuale o negoziale, regolamento giudiziale.Il regolamento si definisce di natura assembleare quando, per l’appunto, è approvato dall’assemblea dei condomini. L’articolo 71 delle disposizioni attuative del codice civile prevede che il regolamento assembleare sia trascritto in un apposito registro tenuto presso l’associazione professionale dei proprietari di fabbricati, sebbene tale norma non sia mai stata applicata.Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, i regolamenti ordinari non possono importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà.Diversamente può, invece, disporre il regolamento contrattuale. Esso è definito tale perché è accettato da tutti i condomini ed ha valenza contrattuale. Solitamente è lo stesso proprietario originario a predisporre il regolamento che va, di volta in volta, allegato ai singoli atti di acquisto. Con questo tipo di regolamento è possibile limitare l’uso delle parti comuni, limitare i diritti dei singoli condomini sulle rispettive proprietà o ampliare i poteri di uno o più condomini rispetto agli altri.La terza tipologia, infine, è quella dei regolamenti giudiziali, i quali si hanno qualora non si riesca a formare un regolamento in sede assembleare ed è necessario ricorrere all’autorità giudiziaria affinché sia la stessa a provvedere.
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10 gen. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La Costituzione italiana prevede all’articolo 38, comma III che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Questa disposizione, analizzata insieme a quanto previsto dall’articolo 2 della stessa Carta fondamentale, ha spinto il legislatore a dare concreta attuazione a quell’obbligo etico e sociale assunto dallo Stato nei confronti di quelle che, col tempo, sono state definite “categorie protette”.Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Quali sono i soggetti beneficiari?Come avviene l’accertamento dell’invalidità?Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità1 - Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Con la Legge n. 482/1968 fu introdotto il c.d. collocamento obbligatorio, con il quale i datori di lavoro furono, per la prima volta, obbligati ad assumere un certo numero di persone che, a causa delle particolari condizioni psico – fisiche nelle quali si trovavano, difficilmente avrebbero trovato inserimento nel mondo del lavoro.Tuttavia, nel 1999 si optò a una nuova disciplina che puntasse, effettivamente, all’inclusione delle persone diversamente abili. Infatti, con la Legge n. 68/1999 si riforma il collocamento obbligatorio, introducendo il c.d. collocamento mirato, ossia quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserire nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzione dei problemi connessi agli ambienti lavorativi.Ma, nel dettaglio, cosa prevede la Legge n. 68/1999?La legge in esame prevede che il legislatore con condizioni psico – fisiche particolari sia collocato nell’occupazione più idonea e, di conseguenza, più proficua sia per sé sia per chi lo assume. Difatti, la finalità di questo intervento legislativo è la promozione e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento.2 - Quali sono i soggetti beneficiari?In concreto, chi sono i soggetti destinatari della tutela prevista dalla Legge in esame?L’articolo 1 della Legge n. 68/1999 prevede che beneficiari sono: a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo che presentino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%; b) le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33% accertate dall’INAIL; c) le persone non vedenti; d) le persone sordomute; e) le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per un servizio con menomazioni annesse alle tabelle di cui al testo unico in materia di pensioni di guerra.3 - Come avviene l’accertamento dell’invalidità? Tutti coloro i quali presentino i requisiti previsti dalla legge in esame possono accedere al già citato collocamento mirato, iscrivendosi negli appositi elenchi provinciali tenuti dai centri per l’impiego. Ovviamente, ai fini dell’iscrizione è necessario possedere una certificazione attestante l’esistenza, in capo al soggetto, del requisito sanitario che sancisce “l’appartenenza” a una delle categorie protette menzionate dalla Legge n. 68/1999.Ogni menomazione, infatti, va accertata tramite la detta certificazione che viene rilasciata, a seconda dei casi, dall’INPS o dall’INAIL, anche se nella maggior parte dei casi, i verbali sono rilasciati da apposite commissioni sanitarie delle singole ASL territorialmente competenti.Nello specifico, in primis, il medico curante deve rilasciare il c.d. certificato introduttivo che attesta l’infermità riscontrata, per poi essere inviato, in via telematica, all’INPS. Successivamente, l’interessato dovrà procedere alla richiesta di visita e, nei trenta giorni successivi, sarà convocato per effettuare la visita in questione, la quale si effettua presso l’ASL dinanzi a una commissione di medici ASL e un medico INPS.Una volta effettuata la visita, la commissione sanitaria dovrà predisporre un verbale, attestando la percentuale di invalidità e la c.d. scheda funzionale, in cui si annotano abilità, capacità lavorative, competenze, utili a valutare le mansioni più idonee per il soggetto interessato.Il soggetto in possesso del verbale della commissione medica attestante l’invalidità deve, infine, recarsi al centro per l’impiego territorialmente competente per potersi iscrivere all’elenco delle categorie protette.4 - Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità Il quadro normativo previsto dalla Legge n. 68/1999 ha mantenuto, per i datori di lavoro, l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili. Difatti, l’articolo 3 della detta Legge parla di “quota di riserva”, vale a dire la quota numerica di soggetti che appartengono alle categorie protette che il datore di lavoro è tenuto ad assumere.Questa quota varia a seconda del numero di lavoratori occupati nell’azienda. In particolare: a) con oltre 50 dipendenti, la quota di riserva è pari al 7% dei lavoratori occupati; b) da 36 a 50 dipendenti, la quota è pari a 2 lavoratori disabili; c) da 15 a 35 dipendenti, la quota è di 1 lavoratore disabile.Per tutti coloro i quali non adempiono gli obblighi di assunzione, sono previste, dall’articolo 15 della Legge 68/1999, sanzioni amministrative. In ottemperanza all’adeguamento periodico, recentemente il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha firmato due provvedimenti in materia di diritto al lavoro dei disabili. In particolare, i due decreti riguardano gli articoli 5 e 15 della Legge n. 68/1999.Con il primo provvedimento si è adeguato da € 30,64 a € 39,21 l’importo del contributo esonerativo dovuto dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici in presenza di speciali condizioni della loro attività per essere, parzialmente, esonerati dall’obbligo di assumere l’intera percentuale di lavoratori con disabilità prescritta.Il secondo provvedimento, invece, aumenta le sanzioni amministrative dovute dai datori di lavoro, pubblici e privati, che non rispettano gli obblighi informativi. Si tratta, in particolare, di quelle aziende con più di 15 dipendenti che non inviano un prospetto informativo agli uffici competenti con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti per calcolare la quota riservata ai lavoratori disabili. Tale obbligo scatta automaticamente dall’assunzione del quindicesimo dipendente e l’azienda avrà 60 giorni per inoltrare il prospetto.Laddove non si proceda a tale adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento ministeriale a partire dal 1° gennaio 2022, sarà incrementato da € 635,11 a € 702,43; sanzione che, peraltro, è maggiorata per ogni giorno di ritardo e il cui importo passa da € 30,76 a € 34,02.Qualora non si proceda a questo adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del provvedimento citato, verrà incrementata da 635,11 a 702,43 euro.Sanzione che, peraltro, viene maggiorata per ogni giorno di ritardo. L’importo della maggiorazione, come anticipato, passa da 30,76 a 34,02 euro.
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7 feb. 2021 • tempo di lettura 33 minuti
Articolo redatto con la collaborazione di Alessandra Ceddia, Bruna Graziano, Fausta Pasanisi e Rachele Ramellini e pubblicato sulla rivista AmbienteDirittoPremessaDefinire l’ambiente e, conseguentemente, il diritto ambientale è certamente un compito arduo, specie in virtù della sua sovrabbondanza e della sua mutevolezza[1].Orbene, sebbene si cerchi di uniformare la disciplina in materia ambientale, ancora oggi gli operatori del diritto muovono passi incerti sul punto.Un faro che indichi la via potrebbe essere la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, seppur non senza limiti e qualche critica, ha più volte statuito in tema di diritto ambientale.Con la sentenza del 24 gennaio 2019 – sentenza Cordella – la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sulla questione relativa all’impatto sulla popolazione residente delle emissioni provenienti dallo stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto e sulla lamentata inerzia dello Stato italiano nell’adottare provvedimenti incisivi.Il “caso Ilva”, noto alle cronache e alle aule di giustizia, nella dimensione della pronuncia succitata ha permesso di affrontare a livello europeo il tema della tutela dell’ambiente quale diritto fondamentale individuale.La sentenza è stata emessa all’esito di un procedimento instaurato con due ricorsi presentati nel 2013 e nel 2015, successivamente riuniti, da centottanta abitanti del territorio tarantino che contestavano allo Stato italiano la mancata adozione di misure idonee a salvaguardare l’ambiente dalle emissioni inquinanti dell’acciaieria e, conseguentemente, la mancata tutela della salute e del benessere dei residenti della zona.La Corte di Strasburgo ha affrontato la questione dal punto di vista dell’art. 8 della Convenzione EDU (diritto alla vita privata), riconoscendo esplicitamente l’impatto negativo delle emissioni sul benessere della popolazione tarantina e, di fatto, la violazione della Convenzione da parte dello Stato italiano.Tuttavia, la Corte non ha riconosciuto un risarcimento economico ai ricorrenti, sostenendo che la sola constatazione della violazione costituisse, di per sé, una riparazione sufficiente per il danno morale subìto.La Corte ha ribadito, a più riprese, l’inesistenza di un autonomo diritto fondamentale ad un ambiente sano, questione dibattuta tanto a livello internazionale quanto nella giurisprudenza nostrana.Nel proseguito saranno trattate le diverse responsabilità dello Stato italiano per la questione ambientale, con un accenno anche ai riflessi del “caso Ilva” sulla giustizia italiana; saranno analizzati gli artt. 2 e 8 della Convenzione EDU e l’opportunità della codificazione di un autonomo diritto ad un ambiente salubre, nonché i riflessi di questa mancanza sulla nozione di “vittima” nella giurisprudenza di Strasburgo e sulle peculiari scelte risarcitorie adottate nel caso di specie.1. La responsabilità dello Stato per la violazione di diritti fondamentaliLa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 gennaio 2019, scaturita dai ricorsi n. 54414/2013 e n. 54254/2015, ha offerto una prospettiva nuova sull’annoso problema dei danni alla salute da esposizione a sostanze tossiche, ravvisando una responsabilità dello Stato in una materia che, sino ad ora, in Italia è stata prevalentemente oggetto di procedimenti penali avviati nei confronti dei privati gestori.Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili mostrano una grave situazione ambientale e sanitaria nell’area di Taranto interessata dalle emissioni dello stabilimento siderurgico (ex) Ilva S.p.A.Tale situazione è stata determinata, o comunque non adeguatamente fronteggiata, dalle politiche ambientali italiane che, nel corso degli anni, si sono mostrate incapaci di trovare un bilanciamento tra l’interesse della società produttiva e il benessere e la qualità della vita dei residenti delle aree interessate.In tema di inquinamento atmosferico, la nuova direttiva 2008/50 CE “Qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa”, recepita con D. Lgs. n. 115/2010, impone una revisione generale dei criteri di valutazione delle emissioni in atmosfera per determinate sostanze, prevedendo più stringenti procedimenti di pianificazione per la qualità dell’aria.Il D. Lgs. 152/2006[2] definisce l’inquinamento atmosferico come «ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere oda costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell’ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente».Tale nozione va, poi, collegata a quella di emissioni che il legislatore definisce, in generale, come «qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell’atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico».I diritti fondamentali della persona umana, ancorché primari e inalienabili, sono soggetti alle relativizzazioni derivanti dal bilanciamento con altri diritti o interessi di rango costituzionale e la mancata previsione di un diritto all’ambiente, sia in ambito comunitario sia nazionale, non ha impedito il delinearsi di una giurisprudenza di legittimità che, sulla base di una creativa interpretazione del combinato disposto degli artt. 2 (riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo), 9 (tutela del paesaggio) e 32 (tutela della salute) della Costituzione, garantisce tutela al c.d. diritto ad un ambiente salubre.In questa prospettiva, la vicenda Ilva di Taranto rappresenta un caso emblematico di come il risultato scaturente dal bilanciamento tra i diritti fondamentali della persona umana, benché primari e inalienabili, e altri diritti o interessi di rango costituzionale possa dar vita a contrastanti orientamenti giurisprudenziali.L’impianto Ilva di Taranto (ora Arcelor Mittal) è il più grande complesso di acciaierie industriali in Europa, che copre un’area di 1.550 ettari e conta circa 11.000 dipendenti.Malgrado le numerose vicende giudiziarie abbiano accertato che la produzione realizzata all’interno del colosso siderurgico tarantino fosse svolta con violazione della normativa a tutela dei diritti alla salute e della proprietà, oltre che dell’ambiente, l’attività inquinante – sversamento polveri e altre sostanze oltre i limiti tollerabili e consentiti – è proseguita, senza soluzione di continuità, per tutti gli anni successivi sino ad oggi, tanto che, sempre presso il Tribunale di Taranto, è pendente un altro procedimento penale[3].Sull’impatto delle emissioni dell’impianto sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale sono stati condotti diversi studi da cui sono emersi rapporti scientifici allarmanti.Tra questi, il Rapporto Sentieri[4] del 22 ottobre 2012 redatto a cura dell’Istituto Superiore di Sanità su richiesta del Ministero della Salute, formulò raccomandazioni per gli intervenenti di sanità pubblica sulla base dei dati riguardanti le cause di mortalità nei siti di bonifica di interesse nazionale (c.d. SIN) per il periodo 1995 – 2009. Da tale rapporto emerse l’esistenza di un legame causale tra l’esposizione ambientale alle sostanze cancerogene inalabili prodotte della società Ilva e lo sviluppo di tumori polmonari, pleurici e di patologie cardiovascolari nelle persone residenti nelle aree colpite, così dimostrando che i decessi di uomini, donne e bambini che risiedevano nelle aree interessate per tumori, malattie del sistema circolatorio e altre patologie, erano numericamente superiori alla media regionale e nazionale.Uno studio del 2016 condotto dal dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario della Regione Lazio, dall’ARPA, dal Centro Salute e Ambiente Puglia e dalla Agenzia Sanitaria Locale di Taranto – riguardante 321.356 persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2010 – dimostrò l’esistenza di un nesso causale tra l’esposizione a PM10 (polveri sottili) e al SO2 (diossido di zolfo) derivanti dall’attività produttiva dell’Ilva e l’aumento della mortalità per cause naturali, tumori, malattie renali e cardiovascolari nella popolazione di Taranto.Ed è proprio in relazione a questi dati che si registrano dibattuti contrasti giurisprudenziali.Invero, la Corte costituzionale, con sentenza n. 85/2013, statuì che, non esistendo una gerarchia dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione – dovendo questi, in caso di conflitto, essere bilanciati ragionevolmente – il diritto all’ambiente salubre e alla salute non erano da considerarsi prevalenti rispetto al diritto al lavoro.Ma, successivamente, la Corte riconobbe espressamente che quella disciplina era stata imposta da una situazione «grave ed eccezionale» e solo la temporaneità delle misure adottate poteva farle ritenere compatibili coi principi costituzionali, in quanto circoscritte entro un orizzonte temporale limitato di trentasei mesi decorrenti dal 3 dicembre 2012.Difatti, con sentenza n. 58/2018[5] la Suprema Corte affermò che l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva non dovesse giungere sino al punto di trascurare diritti costituzionalmente inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa, ai quali è indissolubilmente connesso al diritto al lavoro in un ambiente sicuro e non pericoloso.Orbene, con la pronuncia del 24 gennaio 2019 la Corte di Strasburgo giunge al punto di riconoscere la responsabilità diretta dello Stato italiano per violazione dell’articolo 8 della Convenzione EDU – diritto al rispetto della vita privata e familiare – poiché le Autorità Nazionali non sono state in grado di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la salute dei ricorrenti e, più in generale, il loro diritto alla vita e il rispetto alla vita privata e familiare.Ciò che i numerosi ricorrenti lamentavano era proprio l’inerzia dello Stato italiano nell’impedire la lesione dei diritti fondamentali dei cittadini a fronte delle immissioni nocive provenienti dall’impianto siderurgico e, conseguentemente, l’impatto delle stesse sulla salute e sull’ambiente.La Corte, ritenendo che lo Stato italiano non abbia adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute dei cittadini, ha riconosciuto un’equa riparazione agli stessi, raccomandando allo Stato di far fronte a dette misure entro breve termine, soprattutto mediante la definitiva implementazione del piano nazionale ambientale sino ad ora non compiutamente attuato.Inoltre, la Corte ha attribuito al Comitato dei Ministri – organo decisionale del Consiglio d’Europa – il compito di indicare al Governo italiano le misure da assumere per garantire l’esecuzione della sentenza della Corte EDU, sottolineando l’urgenza dei lavori di bonifica delle aree colpite dall’inquinamento ambientale e l’importanza di approvare, nel minor tempo possibile, un piano ambientale.Da un’attenta disanima delle disposizioni e delle statuizioni contenute nella pronuncia della Corte si evince chiaramente la grande portata e l’incidenza della sentenza, la quale ha dato voce a numerose persone che hanno visto – e tuttora vedono – la propria salute passare in secondo piano in nome di uno stato di “emergenza” decretato a partire dal 2012, facendo luce su questioni di rilevanza nazionale rimaste lungamente nell’ombra.La cattiva gestione dei rischi ambientali e sanitari, che ha caratterizzato le politiche dello sviluppo italiano dal dopoguerra ad oggi, ha portato con sé tragedie umane le cui responsabilità sono state, finora, attribuite ai singoli gestori delle private imprese, accusati di omicidi, lesioni personali e disastri ambientali.Ciò che è mancato è, non solo un controllo, ma anche un “esame di coscienza istituzionale” che portasse a chiedersi per quale ragione produzioni notoriamente tossiche siano state considerate lecite per molti anni.La c.d. sentenza Cordella ha compiuto un grande passo in avanti, ponendo in primo piano il problema degli obblighi positivi di tutela dell’uomo e delle risorse naturali, gravanti innanzitutto sulle istituzioni nazionali, e ha permesso di individuare, grazie agli studi epidemiologici, la sussistenza di un nesso di causalità fra l’esposizione ambientale ad agenti cancerogeni e lo sviluppo di malattie tumorali nella popolazione.Merito straordinariamente innovativo della sentenza Cordella è l’aver richiamato lo Stato italiano alla propria responsabilità nella definizione del modello di sviluppo da adottare, il quale deve aver riguardo, specialmente, dei diritti fondamentali dei singoli e non solamente dell’interesse generale ad una prosperosa economica.2. L’applicabilità degli articoli 2 e 8 Convenzione EDU: il caso IlvaLa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nel corso degli anni, ha sviluppato un’interpretazione sempre più evolutiva della applicabilità degli articoli 2 e 8 della Convenzione EDU in materia ambientale.L’articolo 2 tutela il bene giuridico della vita, il cui diritto è ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo, che può essere minacciato o danneggiato dal pericolo di morte. Difatti, prevede che il diritto alla vita di ogni individuo debba essere tutelato dalla legge e nessuno può esserne privato, salvo che in esecuzione di una sentenza emessa da un Tribunale.L’articolo 8, invece, disciplina il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, nonché il divieto di ingerenza nell’esercizio di tale diritto, salvo che la legge disponga diversamente. Tutela, altresì, il “benessere e la qualità della vita” – intesa come salute, tranquillità personale, e così via – che possono essere compromessi da attività inquinanti di diverso genere, quali industrie siderurgiche e circolazione di veicoli.Fra le due disposizioni citate esiste un principio di sussidiarietà. Mentre l’art. 2 contempla i casi in cui il soggetto sia deceduto o la cui vita sia esposta a grave pericolo, l’art. 8 disciplina le offese all’integrità psico – fisica le quali, sebbene di rilevante entità, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2.Entrambi i diritti devono ricevere una tutela assoluta da parte dello Stato, a cui è riconosciuto il potere di condurre delle indagini dirette ad individuare gli aggressori ingiustificati di tali diritti e, conseguentemente, il potere di applicare tutte le relative sanzioni.Una rilevante applicazione di questi principi si rinviene nel caso Ilva di Taranto. La Corte di Strasburgo ha, infatti, constatato che dallo stabilimento in questione, sin dagli anni ’70 del secolo scorso, derivano emissioni inquinanti con effetti gravemente nocivi per l’ambiente e per la salute umana.La Corte EDU ha, quindi, condannato l’Italia per la violazione del diritto alla vita privata e del diritto al “benessere” dei residenti nelle zone limitrofe allo stabilimento siderurgico tarantino, a causa della totale mancanza di misure finalizzate a proteggere l’ambiente dalle emissioni contaminanti dell’acciaieria.Come accennato pocanzi, in merito sono state effettuate numerose indagini epidemiologiche da cui è emerso un aumento del tasso di mortalità ed un accertato pericolo di sviluppare patologie oncologiche per tutti gli abitanti di Taranto.La Corte EDU, nella sentenza Cordella, ha attribuito ai predetti studi epidemiologici un importante valore probatori per tutti i ricorrenti, pur in assenza di qualsivoglia patologia letale.È evidente, dunque, che sussiste uno squilibrio fra il diritto alla vita privata dei singoli individui e l’interesse della collettività all’esercizio dell’attività lavorativa, proprio in ragione della totale assenza di misure adeguate a fronteggiare il pericolo di morte e a ridurre i rischi nocivi per la vita umana.I gravi danni arrecati all’ambiente sono idonei a compromettere, oltre che il benessere, anche la qualità della vita dei residenti tarantini.A tal proposito va precisato che non esiste una definizione di qualità di vita, atteso che è ancora oggi un concetto prevalentemente soggettivo. Sul punto, la Corte non ha altra scelta che quella di basarsi, sebbene non esclusivamente, sulle conclusioni delle giurisdizioni e delle altre autorità interne competenti[6].Il caso in esame consente di comprendere la difficoltà della gestione di una situazione caratterizzata da un accertato rischio oncologico, quale conseguenza della produzione di uno stabilimento di importanza significativa per l’economica del Paese e dall’accertata violazione del diritto alla vita privata. In questo scenario, all’interno del quale le sanzioni dovrebbero rappresentare una reazione dell’ordinamento alle offese arrecate al “bene vita”, sarebbe opportuna una prospettiva di cambiamento fondata su una delimitazione dei vari interessi, su un corretto agire dello Stato e su un’effettiva tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.3. Il “diritto a un ambiente sano”La Convenzione Europea sulla salvaguardi dell’Uomo e delle libertà fondamentali non riconosce un diritto dell’uomo all’ambiente sano, pur prevedendo varie norme che hanno consentito lo sviluppo di una giurisprudenza della Corte EDU sulle tematiche ambientali.La Corte e la Convenzione, infatti, hanno dato prova, anche in tal campo, di essere insieme uno «strumento vivente da interpretare alla luce delle concezioni prevalenti nella società»[7].La Corte di Strasburgo, attraverso un percorso indiretto, similare a quello attuato dalla Corte di Cassazione italiana, ha inteso tutelare l’ambiente in quanto percepito quale “valore” che richiede tutela ed interventi da parte degli Stati.Anche in Italia l’ambiente non è oggetto di tutela immediata. Tuttavia, la Corte di Cassazione, sulla base di un’interpretazione del combinato disposto degli artt. 32, 9 e 2 Cost., ha garantito tutela al c.d. «diritto ad un ambiente salubre»[8] quale mezzo per assicurare il rispetto dei diritti inviolabili dell’individuo.Sostanzialmente anche se nella Convenzione non vi sono norme in cui il diritto all’ambiente sano sia espressamente sancito, la necessità di protezione dell’ambiente si è affermata come nuovo valore[9].La tutela, però, dovrà essere attuata attraverso un equo bilanciamento tra l’esercizio dei diritti umani, espressamente riconosciuti dalla Convenzione, e il principio generale del rispetto dell’individuo, anch’esso consacrato nella Convenzione EDU[10].Operando un’interpretazione ermeneutica dei diritti già esistenti in chiave ambientalistica, la Corte EDU ha aperto un filone giurisprudenziale riconducendo la tutela di tutte le questioni inerenti ai danni ambientali, alla vita e alla salute, a quella dei diritti fondamentali di “prima generazione” e dei diritti economici, sociali e culturali di “seconda generazione”, ponendo quale riferimento normativo soprattutto la violazione degli artt. 8 e 2 della Convenzione, ma anche degli artt. 6, 10, 11 e 13[11].Questo indirizzo della Corte è in linea con il sentire europeo e planetario. Infatti, sebbene, come già detto, la Convenzione non sancisce il diritto ad un ambiente sano, l’art. 37 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita: «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».Dal Protocollo di Kyoto emerge che il problema ambientale ha una dimensione sovranazionale, dato che l’inquinamento non conosce frontiere.Questa attenzione planetaria logicamente converge con la tutela dei diritti umani.Pertanto, essendo la Convenzione “strumento vivo” che si evolve continuamente, adattandosi alle nuove esigenze sociali dovute ai cambiamenti attraverso l’interpretazione della CEDU[12], la Corte, sulla scorta dell’interpretazione delle norme in chiave ambientalistica, ha imposto obblighi positivi attraverso la previsione di interventi di protezione e/o risanamento e la mancata predisposizione di tali misure è stata ritenuta una violazione della Convenzione, comportando il risarcimento del danno alle vittime.Le questioni ambientali hanno iniziato ad interessare la Corte di Strasburgo dai primi anni Novanta, in particolar modo con la sentenza Lopez Ostra c. Spagna del 1994. In essa, per la prima volta, è stata riconosciuta la violazione dell’art. 8 della Convenzione in riferimento all’impedimento del pieno godimento della propria vita privata e familiare e si è attuata una tutela indipendentemente da un danno alla salute, ma riconoscendo una compromissione del proprio benessere.Com’è noto, la legittimazione attiva dinanzi alla Corte di Strasburgo spetta esclusivamente ai soggetti direttamente colpiti dalla violazione, non essendo ammessa l’actio popularis; ma è indubbio che, in tale ambito, la tutela individuale abbia dei riflessi su tutta la società, incidendo sulla protezione ambientale. Si è dato così il via ad una serie di azioni che si pongono molto al limite tra i diritti individuali e gli interessi collettivi[13].Nella sentenza Cordella, infatti, la Corte osserva che «l’inquinamento ambientale dell’Ilva ha posto in pericolo sia la salute dei ricorrenti, sia, più in generale, quella dell’intera popolazione esposta».I Giudici di Strasburgo, nella sentenza in esame, hanno accertato la violazione del diritto alla vita privata, sancito dall’art. 8 ed il diritto ad un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13, che negli strumenti italiani di fatto non offriva alcun rimedio.Lo Stato italiano, secondo la Corte, «non ha saputo trovare un punto di equilibrio tra l’interesse dei singoli al benessere ed alla qualità della vita e quello della società alla prosecuzione della produzione».Il diritto all’ambiente salubre rappresenta, anche qui, solo una rielaborazione ermeneutica di diritti già esistenti, poiché non può parlarsi di diritto all’integrità dell’ambiente tout - court[14].In questa sua dimensione “green” la giurisprudenza della Corte EDU ha dovuto, però, affrontare due problematiche.La prima è relativa al contemperamento del diritto alla vita e quello alla vita privata nella dimensione ecologica.La seconda questione, invece, riguarda l’incompletezza della tutela offerta dalla Convenzione per ciò che riguarda i rapporti tra ambiente e salute umana.4. I riflessi delle valutazioni nel merito sulla nozione di “vittima”Con la sentenza Cordella e altri c. Italia la Corte di Strasburgo ha ribadito alcuni principi in tema di danno ambientale mirando, almeno apparentemente, all’apertura dei confini sinora tracciati in tema di tutela dei diritti individuali e tutela dell’ambiente.La sentenza è stata emessa a seguito della proposizione negli anni 2013 e 2015 di due ricorsi, successivamente riuniti in un unico procedimento, da parte di centottanta residenti a Taranto o in comuni limitrofi. I ricorrenti lamentavano la violazione da parte dello Stato italiano degli artt. 2-8-13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per le emissioni nocive dello stabilimento siderurgico tarantino ex ILVA S.p.A., che avevano delle gravissime ripercussioni sulla salute degli abitanti della zona. In particolare, veniva contestata la mancata adozione da parte dello Stato di misure normative idonee a proteggere la salute degli individui e l’ambiente, nonché l’omissione di informazioni sui livelli di inquinamento della zona e sui conseguenti rischi per la salute degli abitanti. I Comuni che già dal 1990 erano stati individuati dal Consiglio dei ministri come “ad elevato rischio di crisi ambientale” erano quelli di Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte.A fondamento delle loro doglianze i ricorrenti presentavano le risultanze di rapporti istituzionali e studi scientifici pubblicati nell’arco temporale tra il 1997 e il 2007, dai quali emergeva l’indiscutibile esistenza di un nesso eziologico tra le emissioni nocive dell’acciaieria e l’aumento dell’insorgenza di patologie cardiovascolari, tumorali, respiratorie e digestive nella popolazione esposta.In particolare, dal rapporto SENTIERI del 2012, redatto a cura dell’Istituto Superiore di Sanità su richiesta del Ministero della salute, emergeva che il numero di decessi per le patologie succitate di uomini e donne che risiedevano nella zona interessata erano superiori alla media nazionale.Come già evidenziato, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 della Convenzione, rammentando che «i danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata»[15].Tralasciando le questioni inerenti al mancato riconoscimento di un risarcimento per il danno morale subìto dai ricorrenti, che saranno trattate di seguito, ciò che viene in rilievo è il fatto che nella sentenza venga rimarcata a più riprese l’inesistenza di un autonomo “diritto ad un ambiente sano” codificato all’interno della Convenzione. Il danno ambientale è affrontato dal punto di vista delle tutele approntate dagli artt. 2 e 8 della Convenzione, poiché i pregiudizi derivanti da un ambiente inquinato possono tradursi in violazioni del diritto alla vita e diritto alla vita privata, entrambi positivizzati[16].La mancanza evidenziata ha influito anche nel modo in cui la Corte Europea ha affrontato una delle questioni preliminari sollevate dallo Stato italiano sulla ricevibilità dei ricorsi.Facendo un breve passo indietro: il Governo costituendosi in giudizio aveva sollevato una serie di eccezioni preliminari, con cui aveva anche contestato la qualità di vittime dei ricorrenti. Secondo il resistente, i promotori del ricorso avevano adito la Corte Europea per difendere la violazione di un interesse generale e non la violazione di un diritto individuale, condizione, quest’ultima, imprescindibile per la presentazione di un ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo. Il riferimento era all’art. 34 della Convenzione che al primo paragrafo sancisce: «La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi Protocolli. (...)» .Per comprendere l’eccezione sollevata dal Governo e la successiva valutazione della Corte è necessario dapprima definire la nozione di vittima[17].Nel contesto della CEDU il termine “vittima” si riferisce alla persona interessata dalla violazione del diritto fondamentale riconosciuto dalla Convenzione, ricomprendendo anche tutti quei soggetti, le vittime “indirette”, che sarebbero danneggiate dalla violazione o che avrebbero un interesse valido e personale alla sua cessazione[18]. La definizione non è rigida, ma suscettibile di evoluzione alla luce dei mutamenti della società contemporanea[19]; gode di una autonomia interpretativa rispetto alle norme di diritto interno relative all’interesse e alla capacità di agire; non esige l’esistenza di un pregiudizio e può essere sufficiente ad integrare una violazione anche un atto che abbia effetti giuridici temporanei[20].Secondo la Giurisprudenza CEDU un ricorrente può essere una vittima anche solo potenziale[21], purché provi ragionevolmente e concretamente, senza affidarsi a meri sospetti o congetture, il verificarsi di una violazione che inciderà personalmente su di lui[22].Le aperture e l’elasticità riconosciute alla qualità di “vittima” del ricorrente non possono sconfinare però in una actio popularis, ossia in un’azione proposta al solo fine di tutelare interessi generali di particolare rilevanza interpretando i diritti garantiti dalla Convenzione[23] senza che vi sia una effettiva violazione delle norme codificate che abbia colpito i proponenti del ricorso; questo in quanto la Corte di Strasburgo ha competenza di Giudice dei diritti fondamentali individuali.Nel caso di specie, secondo il Governo italiano il fatto che i procedimenti avviati riguardassero la ripercussione sulla salute pubblica delle contaminazioni ambientali causate dagli effluvi dell’acciaieria tarantina avrebbe attribuito loro la natura di actio popularis, soprattutto in virtù del fatto che la maggior parte dei ricorrenti risultava risiedere in Comuni differenti dalla città di Taranto, unica zona, a loro dire, interessata dall’inquinamento ambientale (§95-96-97).La Corte Europea, nell’esaminare l’eccezione preliminare, ha ribadito a sua volta l’inammissibilità della actio popularis e ha affermato che né l’art. 8, né qualsiasi altra disposizione della Convenzione garantiscono una protezione generale dell’ambiente in quanto tale (§99).La questione viene però superata prendendo in considerazione quale “elemento cruciale” al fine di stabilire se il danno ambientale lamentato dai ricorrenti abbia comportato la violazione dell’art. 8 della Convenzione «l’esistenza di un effetto nefasto sulla sfera privata e familiare di una persona e non semplicemente il degrado generale dell’ambiente» (§100).La Corte ha aggirato la questione preliminare rilevando che, se è vero che i rapporti e gli studi presentati a fondamento dei ricorsi mostrano l’esistenza di un nesso causale tra l’attività produttiva dell’Ilva di Taranto e la compromissione della situazione sanitaria, tale da avere conseguenze deleterie sul benessere dei ricorrenti, gli interessati devono essere individuati con riferimento alla residenza nelle zone classificate come a rischio e incluse nei siti di bonifica di interesse nazionale (SIN) con decreto del Ministero dell’Ambiente del 10 gennaio 2000: Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte. In forza di tali considerazioni, la Corte ha stralciato la posizione di diciannove ricorrenti residenti in comuni differenti da quelli indicati, accogliendo in questa misura l’eccezione del Governo e respingendola per tutti gli altri ricorrenti.Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, il pericolo che l’inquinamento di un determinato settore diventi potenzialmente pericoloso per la salute e il benessere di coloro che vi sono esposti è una mera presunzione e i ricorrenti nei cui confronti è stata dichiarata l’irricevibilità non hanno offerto elementi sufficienti a dimostrare di essere stati personalmente colpiti dalla situazione di degrado ambientale denunciata.La decisione può ritenersi coerente con il sistema della tutela dei diritti individuali in presenza di danni ambientali delineato dalla Convenzione.È inutile nascondere, però, che la peculiarità della materia assottiglia notevolmente il confine tra la violazione di un diritto individuale e il far valere un interesse generale collettivo: risulta impossibile non considerare i “riflessi erga omnes” delle pronunce in materia ambientale[24] che vanno ad incidere su delicate questioni quali la protezione delle risorse naturali[25].Di questo la Corte sembrerebbe essere pienamente consapevole: infatti nel dichiarare la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dapprima afferma che «non può che prendere atto del protrarsi di una situazione di inquinamento ambientale che mette in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella di tutta la popolazione residente nelle zone a rischio» (§171) ma soprattutto constata che non è stato rispettato «da una parte l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme».Vi è quindi una chiara ammissione del fatto che la mancanza di un adeguato sistema di protezione dagli effetti nocivi dell’inquinamento espone a rischi sul piano della salute da cui bisogna essere tutelati a prescindere dalla possibilità di dimostrare la compromissione effettiva del “benessere”. Queste affermazioni potrebbero rappresentare un tentativo di sfondamento di quel muro imposto dalla mancanza di un vero e proprio “diritto ad un ambiente sano”, la cui esistenza avrebbe permesso il superamento delle questioni di ricevibilità sollevate nel caso di specie e reso legittima, a fronte di un adeguato assolvimento di tutti gli oneri probatori, la posizione di tutti i ricorrenti.Il riconoscimento di un autonomo diritto ad un ambiente salubre permetterebbe di ricomprendere nella nozione di “vittima” tutti coloro che pur vivendo una situazione di degrado ambientale, non sono messi nelle condizioni di dimostrare la riconduzione della loro situazione all’interno delle violazioni dei diritti sostanziali positivizzati nella Convenzione.Tale ampliamento della tutela necessiterebbe, a sua volta, il tracciamento di ulteriori confini che definiscano i limiti entro i quali il diritto ad un ambiente salubre potrebbe essere legittimamente sacrificato in nome dei diritti sociali ed economici, auspicando anche un riflesso in questo senso sui meccanismi nazionali. La fissazione di punti fermi è necessaria anche al fine di arginare le possibilità di un abuso degli strumenti di tutela processuale dei diritti fondamentali.5. Le “mancanze” della sentenza Cordella: sentenza pilota e risarcimento del danno non patrimonialeIl diritto ad un ambiente salubre e il relativo tema della risarcibilità di una sua eventuale lesione hanno subìto un’evoluzione incerta e confusionaria.In Italia, tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso si è formato un duplice indirizzo.Il primo trova il proprio fondamento nel leading case in materia di diritto ambientale, costituito dalla celebre sentenza della Corte di Cassazione nel caso Cassa per il Mezzogiorno c. Langiano, Masino e Donadio, n. 5172/1979[26], con cui la Suprema Corte ha sottolineato che il diritto alla salute non rileva tanto come diritto alla vita e/o all’incolumità fisica del singolo cittadino, quanto come diritto all’ambiente salubre che trova il proprio fondamento negli articoli 2 e 32 della Costituzione, azionabile da parte di qualsiasi cittadino ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.Viceversa, il secondo indirizzo, di contrario avviso e sostenuto, in particolar modo, dalla Corte dei Conti[27], considera il danno all’ambiente quale danno erariale, pubblicistico e tutelabile esclusivamente da parte dello Stato.È emersa, pertanto, una sostanziale differenza tra danno ambientale collettivo e danno ambientale individuale[28], per quanto già la citata sentenza della Corte di Cassazione avesse ben stabilito sul tema, sancendo che «non può essere negata tutela a chiunque sia interessato in relazione a un bene giuridicamente protetto per la sola ragione che questo non appare attribuito né attribuibile a lui in m odo esclusivo. La prospettiva secondo la quale vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclusivo fra un bene (o una frazione di esso) ed un solo determinato individuo o un gruppo personificato – e quindi assimilato all’individuo – è condizionata da un’impostazione di tipo patrimoniale della giuridicità e rischia di mortificare in ragione del condizionamento l’irresistibile tendenza all’azionabilità delle pretese che è cardine della nostra Costituzione».Sul punto, purtuttavia, sorgono differenti criticità.In particolare, ci si domanda se effettivamente esista una via per la risarcibilità, individuale, della lesione al diritto ad un ambiente salubre.Difatti, anche nel caso Cordella, la Corte di Strasburgo ha sì condannato l’Italia per aver violato l’art. 8 CEDU, in quanto non ha adottato misure idonee a proteggere l’ambiente dalle emissioni dello stabilimento ex Ilva, non tutelando il benessere[29] degli abitanti dei quartieri limitrofi allo stabilimento stesso, ma non ha assegnato alcun risarcimento ai ricorrenti.Certamente, uno degli obiettivi del procedimento giudiziario instaurato è stato quello di far accertare alla Corte di Strasburgo l’esistenza di una violazione sistemica della Convenzione EDU da parte dello Stato italiano.Conseguentemente se, da un lato, la pronuncia della Corte EDU ha accertato la violazione dei diritti dei ricorrenti, dall’altro non si può non nutrire dubbi sulla scelta di non applicare la procedura della sentenza pilota[30], pur sollecitata dagli stessi ricorrenti.Tuttavia, la Corte non ha ritenuto necessario applicare la procedura della sentenza pilota[31], limitandosi a riconoscere la responsabilità dello Stato[32].Invero, è certamente positiva la scelta della Corte di Strasburgo di condannare lo Stato italiano all’adozione di tutte le misure necessarie per tutelare l’ambiente e la salute della popolazione interessata. Tale statuizione, infatti, potrebbe produrre due ordini di effetti positivi.In primo luogo, il riconoscimento della violazione degli articoli 8 e 13 della Convenzione fornisce un precedente per tutti i soggetti che vivano in zone degradate dal punto di vista ambientale, i quali possono azionare il proprio diritto ad un ambiente salubre, con ripercussioni dirette anche sulla giurisprudenza nazionale, tenuta ad uniformarsi all’interpretazione dei Giudici di Strasburgo.Inoltre, al fine di evitare ricorsi a catena e continue condanne da parte della Corte EDU, sarà preminente l’interesse dello Stato italiano – così come di tutti gli altri Stati sottoscrittori della Convenzione – ad adottare soluzioni rapide ed effettive in tema di protezione e tutela ambientale.A tali aspetti positivi fa, tuttavia, da contraltare la decisione, peraltro scarsamente motivata, di non riconoscere alcun risarcimento – eccezion fatta per € 5.000,00, per ciascun ricorrente, per le spese di giustizia – per i danni non patrimoniali. Invero, il collegio ha ritenuto che l’accertamento delle violazioni costituisse, di per sé, «un’equa compensazione sufficiente per il danno morale subìto»[33].La ratio alla base di tale soluzione si potrebbe rintracciare nella sottolineatura, da parte dei Giudici, che il petitum della causa non riguarda il nesso causale tra emissioni e malattia, ma l’incapacità dello Stato italiano di provvedere alla tutela della salute e dell’ambiente ed il conseguente obbligo positivo di attuare, quanto prima, il piano ambientale. [1] Sul punto, si veda Nespor, Diritto dell’ambiente e diritto allo sviluppo: le origini in L’ambiente e i nuovi diritti inserito nell’ “Aggiornamento ambiente”, Grandi opere UTET, 2014, secondo cui «parafrasando una metafora attribuita a Newton, ma risalente al filosofo francese del XII secondo Bernardo di Chartres, il diritto dell’ambiente è come un nano sulle spalle di giganti: può vedere più cose di loro e più lontane, ma non certo per l’altezza del suo corpo, ma per le varie discipline che lo sorreggono».[2] D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale” in G.U. n. 88 del 14 aprile 2006[3] Procedimento penale n. 938/2010, Corte d’Assise di Taranto – RIVA Nicola + 44, accusati di 34 capi d’accusa per reati commessi tra il 1995 e il 2013 e relativi a: 1) l’emissione di sostanze nocive per la salute e per l’ambiente che hanno comportato un grave rischio per la salute pubblica e hanno causato la morte e provocato patologie di morte persone residenti nelle aree adiacenti il sito di produzione dell’Ilva di Taranto; 2) la contaminazione delle acque, dei prodotti della terra e degli animali destinati all’alimentazione umana; 3) l’inquinamento ambientale dell’aria; 4) la diffusione di informazioni riservate da parte di funzionari del Ministero degli Affari esteri incaricati della concessione dell’AIA. Il 30 marzo del 2012, il G.I.P. di Taranto ordinò una perizia chimica ed epidemiologica al fine di valutare l’impatto delle emissioni dello stabilimento sulla salute delle persone e sull’ambiente. Dalla perizia emerse non solo che l’Ilva produceva gas e vapori pericolosi per la salute dei lavoratori e della popolazione locale, ma anche che le misure imposte per evitare la dispersione di fumi e particelle nocive non erano state rispettate e che i valori di benzopirene, di diossine e di altre sostanze pericolose per la salute non erano conformi ai requisiti previsti dalle disposizioni regionali, nazionali ed europee.[4] Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento[5] Con tale sentenza, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 D. L. n. 92/2015 recante «Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale», nonché degli artt. 1, comma II, e 21 – octies L. n. 132/2015 recante «Misure urgenti in materia fallimentare, civile, processuale civile e organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria». Le disposizioni di cui all’art. 3 D. L. n. 92/2015, concernenti misure urgenti per l’esercizio dell’attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario, erano state applicate con riferimento all’attività degli impianti Ilva (esso era uno dei c.d. Decreti salva Ilva). L’attività era proseguita con l’utilizzo dell’altoforno “Afo2”, nonostante il sequestro preventivo dello stesso altoforno, disposto ai sensi dell’art. 321, comma III bis c.p.p., nell’ambito del procedimento penale per la morte di un operaio avvenuta presso lo stabilimento siderurgico.[6] Sul punto si vedano le decisioni della Corte EDU nei casi Lediaïeva e altri c. Russia, nn. 53157/1999 e altri 3, § 90, 26 ottobre 2006, ma anche Jugheli e altri c. Georgia, n. 38342/2005, § 63, 13 luglio 2017[7] De Salvia, Ambiente e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo n. 2/1997[8] Baldassarre, voce Diritti sociali in Enciclopedia giuridica Treccani, XI, 1989; Modugno, I nuovi diritti nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, 1995[9] A riguardo si vedano: sentenza Corte EDU Kirstatos c. Grecia, sentenza Corte EDU Halton c. Regno Unito, sentenza Corte EDU Jughali c. Georgia [10] Colacino, La tutela dell’ambiente nel sistema della convenzione europea dei diritti dell’uomo: alcuni elementi di giurisprudenza, in Diritto e gestione dell’ambiente n. 2/2001[11] Saccucci, La protezione dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani in Caligiuri, Cataldi, Napoletano, La tutela dei diritti umani in Europa: tra sovranità statale e ordinamenti sovranazionali, Cacucci, 2010; Pitea, Diritto internazionale e democrazia ambientale, ESI, 2013; Ruozzi, La tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, Jovene, 2011[12] Sentenza Corte EDU Tyrer c. Gran Bretagna[13] Zagrebelsky, chena, tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, II ed., Il Mulino, 2019; Harris, O’Boile, Warbick, Law of the European Convention on Human Rights, IV ed., Oxford, 2018; Ubertis, La tutela dei diritti dell’uomo davanti alla Corte di Strasburgo: Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, 2016[14] Grassi, Relazione introduttiva in Diritti umani e ambiente, ECP, 2000; Alpa, Il diritto soggettivo all’ambiente salubre: nuovo diritto o espediente tecnico, in AA.VV., Ambiente e diritto, 1999[15] Sentenza Cordella e altri c. Italia, § 156[16] La riconduzione dei pregiudizi derivanti dalle situazioni di contaminazione ambientale all’interno delle violazioni degli artt. 2 e 8 della Convenzione e, di conseguenza, degli artt. 6-10-11-13 è ormai quasi una prassi della Corte europea e trova la sua origine nella pronuncia degli anni ’90 Lopez Ostra c. Spagna [v.par.3][17] Il 90% dei ricorsi proposti dinanzi alla Corte di Strasburgo viene dichiarato irricevibile. Per questo motivo è stata stilata una vera e propria guida ai criteri di ammissibilità, reperibile sul sito della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che descrive i requisiti di ammissibilità di un ricorso e contenente anche la precisa definizione di vittima.[18] Vallianatos e altri c. Grecia, §§ 47 cit. in: Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, Consiglio d’Europa / Corte europea dei diritti dell’uomo, 2014, p.14[19]Monnat c. Svizzera § 30-33, GorraizLizarraga e altri c. Spagna, § 38; Stukus e altri c. Polonia, § 35; Ziętal c. Polonia, §§ 54-59, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, p. 14[20] Brumărescu c. Romania, § 50; Monnat c. Svizzera, § cit., Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.14[21] Klass e altri c. Germania; Soering c. Regno Unito, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[22] Senator Lines GmbH c. quindici Stati membri dell’Unione europea, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[23] Aksu c. Turchia, § 50; Burden c. Regno Unito, § 33, cit. in Guida pratica sulle condizioni di ricevibilità, cit. p.16[24] Così Zirulia, Ambiente e Diritti Umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in Diritto penale contemporaneo, fasc. 3/2019 cit., p.147[25]Zirulia, Ambiente e Diritti Umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, cit.[26] Cass. Sez. un., 06.10.1979, n. 5172, in Foro It., 1979, I, 2302[27] In particolare, si veda Corte dei Conti, 18.09.1980 n. 868, in Foro It., 1981, III, 167[28] Sul tema, Mazzola, I nuovi danni, CEDAM, 2008; Fiale, Il risarcimento del danno ambientale e il regime della responsabilità, in giuristiambiente.it[29] «L’inquinamento ha avuto senza dubbio conseguenze nefaste sul benessere dei ricorrenti interessati», § 106.Ed ancora «La Corte rammenta che dei danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata», § 156[30] La procedura di sentenza pilota è la tecnica decisoria che consente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di accertare non solo l’inadempimento nel caso concreto, ma anche il sottostante problema strutturale e, quindi, l’esistenza, nell’ordinamento dello Stato responsabile, di una legislazione o di una prassi amministrativa o giudiziaria che causino violazione sistemica e continuativa della Convenzione EDU.[31]Caso Cordella e altri c. Italia, op. cit., § 177 - 179[32] In merito, Luzzi, Il “caso Ilva” nel dialogo tra le Corti (osservazioni a margine della sentenza Cordella e altri c. Italia della Corte EDU) in Consulta Online, II, 2019[33]Zirulia, Ambiente e diritti umani nella Sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, cit., p. 136.
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7 feb. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Definire l’ambiente e, conseguentemente, il diritto ambientale è certamente un compiuto arduo. Prendendo in prestito le parole del Prof. Avv. Andrea Sticchi Damiani, primo relatore del Corso di Formazione di Alta Specializzazione in Diritto Ambientale organizzato dall’Associazione Nazionale Forense di Taranto nel 2019, «il diritto dell’ambiente può configurarsi come quella scienza giuridica che studia la ricerca del luogo migliore in cui l’uomo possa vivere, garantendogli lo spazio ideale in cui concretizzare la sua corsa verso la felicità».Storicamente, sebbene non si possa delineare con assoluta certezza, la nascita del diritto dell’ambiente è riconducibile alle controversie internazionali sorte tra il XIX e il XX secolo e risolte da convenzioni bilaterali e decisioni arbitrali e giurisdizionali. Va da sé, pertanto, che, nonostante si trattasse di accordi convenzionali e decisioni giurisdizionali prettamente ispirate da uno scopo utilitaristico ed economico e non dal sentimento di protezione ambientale, fondamentale è stato l’apporto degli operatori giuridici.Secondo gli studi di autorevoli autori – fra tutti si ricorda il giurista e professore universitario tedesco Peter Heinz Sand – l’evoluzione del diritto dell’ambiente, nella sua branca internazionalistica che ha, poi, ispirato e condizionato le scelte legislative interne della maggior parte degli Stati, è suddivisibile in quattro fasi storiche: 1) la prima fase è stata caratterizzata dalle già citate convenzioni e decisioni arbitrali; 2) il secondo periodo ha come fulcro la nascita dell’ONU e termina con la prima Conferenza delle Nazioni Unite in materia, tenutasi a Stoccolma nel 1972; 3) la terza fase è rappresentata dall’intervallo di tempo intercorso tra la Conferenza di Stoccolma e la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992; 4) la quarta fase è quella più recente e comprendente la Conferenza di Rio del 2012 e gli Accordi di Parigi. Di pari passo con l’enunciazione dei fondamentali principi in materia che involge, in prima battuta, gli ordinamenti nazionali chiamati a recepirli, è maturata esponenzialmente, negli ultimi mesi, la consapevolezza ecologista del “comune cittadino”. Ciò anche, se non soprattutto, per merito dell’ormai famosa “ragazzina con le treccine”, Greta Thunberg, giovane attivista ambientale svedese che, con i suoi “scioperi” scolastici davanti al Parlamento svedese ogni venerdì, ha smosso le coscienze planetarie. Proprio questo movimento mondiale – Fridays for Future – potrebbe ben costituire una nuova fase evolutiva del diritto ambientale. Ed è qui che potrebbero, anzi dovrebbero entrare in gioco gli operatori del diritto, in particolare i più giovani, attraverso una spinta verso una definizione sempre più chiara, lineare ed accurata della normativa a tutela dell’ambiente. Inoltre, in un mercato quasi saturo, come quello dell’avvocatura, la figura dell’avvocato ambientale ben potrebbe rappresentare uno sbocco lavorativo, con la possibilità di differenziazione dalla platea del resto dei colleghi.Difatti, il diritto ambientale italiano è stato ed è tuttora caratterizzato da un continuo susseguirsi di norme, spesso non emanate in vista di un disegno unitario e, conseguentemente, in contraddizione tra loro. Il giurista ambientale, quindi, può certamente assumere un ruolo essenziale nella gestione delle problematiche ambientali, a sostegno dei privati e della pubblica amministrazione. Ovviamente è fondamentale una intensa formazione che garantisca una preparazione globale sulla materia. Lungimirante ed intuitiva è stata l’idea di questo corso di specializzazione in diritto ambientale, specialmente nel nostro territorio tarantino, da sempre al centro della questione ambientale.Certamente, per noi giovani che ci stiamo affacciando alla professione forense, il percorso non è privo di insidie ed è facile sentirsi piccoli. Ma, come sostenuto dalla giovanissima Greta, «non sei mai troppo piccolo per fare la differenza» e quindi anche noi possiamo farla!«Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare» (Ernest Hemingway – Per chi suona la campana).
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